Congiure, delitti, grandi amori e losche trame trovarono scena in molti poderosi castelli medievali.
Mute sentinelle di pietra, che ancora ospitano i segni degli sciagurati protagonisti di oscure vicende.
E in qualche caso, si dice, anche i loro fantasmi…
Ecco 5 castelli medievali insanguinati teatro di oscuri omicidi!
1. Challant e Verres (Ao), LA BELLA E DISSOLUTA BIANCA MARIA
Noto per gli affreschi gotici del porticato, che ritraggono scene di vita medievale, il castello di Issogne, in Valle d’Aosta, risale alla fine del Quattrocento, quando Luigi di Challant completò i lavori di trasformazione dell’antica residenza vescovile in elegante dimora cortese.
A uno dei loggiati interni del maniero (così si dice), di notte si affaccerebbe lo spettro di una splendida donna: Bianca Maria Gaspardone (o Scapardone).
Vedova di Ermes Visconti, decapitato perché ritenuto complice di una cospirazione, l’ancor giovane e bellissima ragazza andò in sposa a Renato di Challant, ma ben presto si stancò della vita in valle.
Così, quando il marito partì per la guerra sotto le insegne di Francesco I di Francia, nel settembre del 1523, ne approfittò per recarsi a Pavia, ospite di parenti.
Lì conobbe Ardizzino Valperga e se ne invaghì ma poi, non paga, volle passare nelle braccia del napoletano Roberto Sanseverino, conte di Caiazzo, e dopo ancora del giovane spagnolo Pietro Cardona.
Il Valperga, ingelosito, iniziò a far girare maldicenze sul conto della donna, finché Bianca non decise, con la complicità di Cardona, di tappare per sempre la bocca all’ex amante.
L’omicidio venne smascherato da Caiazzo, a cui Bianca Maria si era rivolta in prima istanza per liquidare il Valperga: i due amanti finirono nelle grinfie della giustizia e decapitati a Milano.
Da allora, si narra che la bella signora abbia preso a mostrarsi nel suo castello di Challant e in quello, vicino, di Verrès: qui molti giurano che il suo spirito regali baci ai visitatori maschi più attraenti.
La drammatica fine di Bianca Maria fu narrata da Matteo Bandello in una novella, secondo la quale la donna sarebbe ritratta, nelle vesti di santa Caterina d’Alessandria, nell’affresco dipinto da Bernardino Luini nella cappella Besozzi della chiesa milanese di San Maurizio.
2. Bardi (Pr), LO SPIRITO INQUIETO DI MOROELLO
Dall’alto di uno sperone di roccia rossa, da più di mille anni il castello di Bardi vigila sul territorio posto alla confluenza dei fiumi Ceno e Noveglia, nel Parmense.
Nel Medioevo, sotto le sue mura passava l’importante “via degli Abati”, il cammino che portava da Bobbio a Pavia (già capitale del Regno dei Longobardi), e non lontano scorreva il traffico dei pellegrini lungo la via Francigena.
Già nel IX secolo, all’epoca del regno di Berengario del Friuli, il vescovo Everardo di Piacenza fece del castello un rifugio dalle incursioni ungare, ma fu con Ubertino Landi che la rocca, a partire dal Trecento, raggiunse il suo splendore, trasformandosi da imprendibile fortilizio in residenza principesca, impreziosita da una pinacoteca, un archivio di famiglia e una biblioteca.
Dall’alto delle sue mura, dotate di un camminamento di ronda ancora oggi interamente percorribile, le guardie potevano avvistare con largo anticipo il nemico in avvicinamento.
All’interno, la struttura viveva la classica organizzazione di una fortezza militare, con la piazza d’armi, gli alloggi delle milizie, le prigioni e la sala destinata alle torture: tutte collegate da strette e tortuose scale.
Ma il castello è celebre soprattutto per le presunte apparizioni del fantasma di Moroello, un cavaliere di umili origini che si tolse la vita al ritorno dalla guerra, dopo aver appreso la notizia del suicidio dell’amata Soleste.
La giovane, ignara dell’esito della battaglia, aveva visto avvicinarsi un drappello di soldati recanti le insegne nemiche: credendo che Moroello fosse stato sconfitto e ucciso, si era gettata dal mastio in preda alla disperazione.
L’infelice non sapeva, purtroppo, che quelle insegne erano state indossate dall’amato e dai suoi uomini in spregio al nemico vinto. Fu così che la storia finì in tragedia, invece che in un abbraccio.
3. Carini (Pa), UN CELEBERRIMO DELITTO D’ONORE
La leggenda racconta che ogni anno, nell’anniversario di un delitto perpetrato il 4 dicembre 1563, l’impronta di una mano femminile insanguinata riappaia sul muro della stanza dove si consumò l’assassinio.
Apparterrebbe alla povera Baronessa di Carini, uccisa insieme al suo amante proprio nella stanza dove si rinnoverebbe l’apparizione sovrannaturale.
Tutto ciò nella cornice favolosa di un maniero arabo-normanno a trenta chilometri circa da Palermo, appollaiato su un colle roccioso a guardia del feudo che, ai tempi, apparteneva ai La Grua-Talamanca.
La nobildonna Laura Lanza di Trabia era andata sposa, giovanissima, a un discendente del casato proprietario del castello, don Vincenzo. Poi, però, aveva finito per cedere alle lusinghe di un cugino del marito, il bel Ludovico Vernagallo.
La tresca era proseguita per anni, nonostante fosse divenuta di dominio pubblico. Fino a quel fatidico 4 dicembre, quando Cesare Lanza, padre di Laura (divenuta, a seguito del matrimonio, Baronessa di Carini), non raggiunse il castello.
Vi trovò il genero fuori di sé per aver colto moglie e amante in flagrante adulterio. Le carte del processo raccontano che fu proprio il padre di Laura a mostrarsi il più risoluto nell’impugnare la lama che freddò gli amanti e ripristinò l’onore familiare.
Il lignaggio dei due casati consentì a suocero e genero di venire prosciolti da ogni accusa, e sui resoconti ufficiali cadde la sordina della censura.
Il fattaccio, però, trapelò e rimase impresso nella memoria popolare: la sorte dei poveri amanti divenne così uno dei topos narrativi preferiti dai cantastorie ambulanti, alimentando la memoria collettiva attraverso i secoli.
Un racconto a tinte fosche, che nel 1975 divenne noto a tutti gli italiani grazie allo sceneggiato L’amaro caso della baronessa di Carini, prodotto dalla Rai e interpretato da Ugo Pagliai, Janet Agren e Paolo Stoppa.
4. Cafaggiolo (Fi), EROS E MORTE
Prima di diventare dimore della potentissima dinastia dei Medici, molti castelli toscani sono appartenuti ad altre famiglie di rango, oppure alla Repubblica di Firenze.
È il caso del maniero di Cafaggiolo, nel Mugello, la cui forma attuale, massiccia e lineare, è frutto del genio architettonico di Michelozzo, che lo progettò per Cosimo il Vecchio prima del 1450.
Amato da Lorenzo il Magnifico, che vi trascorse l’adolescenza e vi ospitò spesso la sua corte di filosofi e letterati, nel 1537 il castello passò a Cosimo I, che lo ampliò, annettendovi una riserva di caccia.
Il granduca lo donò, insieme all’amato castello di Trebbio di San Piero a Sieve (dove aveva trascorso la giovinezza con il padre, Giovanni dalle Bande Nere), al figlio minore Pietro.
Proprio a Cafaggiolo si consumò l’assassinio della giovane e leggiadra Leonora di Toledo, detta Dianora, cugina e moglie di Pietro, che l’aveva sposata su suggerimento di Cosimo, il quale pare se ne fosse poi invaghito.
Per consolarsi delle scarse attenzioni del marito, dongiovanni impenitente e frequentatore di donne di malaffare, la bella Leonora si gettò tra le braccia del nobile Bernardino Antinori.
Scoperta la tresca grazie all’intercettazione delle loro lettere, Pietro, furibondo, decise di sbarazzarsi della scomoda moglie, ma lontano da occhi indiscreti. Speditala a Cafaggiolo, la aggredì e la strangolò con le sue stesse mani, e l’ausilio di un telo “asciugatoio”.
Trascorse poco tempo prima che anche il suo amante, Bernardino Antinori, fosse trascinato con un pretesto in prigione, dove poi trovò la morte.
5. Castel d’Ario (Mn), LA PRIGIONE DEI GONZAGA
La Torre della Fame svetta ancora poderosa e sinistra, seppur monca, sulla struttura di Castel d’Ario, baluardo di confine legato a doppio filo al destino dei signori di Mantova.
Prima i Bonacolsi, quindi i Gonzaga, la usarono come prigione dove confinare, e talvolta far sparire, personaggi di rango caduti in disgrazia.
Queste oscure trame riemersero dall’oblio nel 1851 durante uno scavo nella torre principale, i cui lavori portarono alla scoperta di ben sette scheletri, uno dei quali ancora imprigionato dai ceppi.
Quattro di quei cadaveri vennero identificati: erano membri della famiglia Bonacolsi, reclusi nella torre dopo essere stati spodestati e lasciati morire di stenti.
Era il 16 agosto 1328 quando Luigi Gonzaga e i figli Guido, Filippo e Feltrino (parenti e, fino a quel giorno, sodali dei Bonacolsi) irruppero in Mantova, incitando il popolo alla rivolta: nella mischia morì l’ultimo dei Bonacolsi, Rinaldo, detto Passerino.
Diversa e più atroce la sorte che toccò a suo figlio Francesco e ai nipoti, eredi del fratello Bonaventura, detto Butirone, i quali vennero, appunto, imprigionati nelle segrete del tetro Castel d’Ario.
Ironia della sorte (o legge del contrappasso), in quelle segrete, lo stesso Passerino, solo qualche anno prima, aveva condannato alla medesima triste fine Francesco I Pico (condottiero e antenato del famoso filosofo rinascimentale Pico della Mirandola) e altri tre uomini, i cui scheletri sarebbero stati rinvenuti durante i lavori ottocenteschi.
Nella torre, in quegli anni, finirono ai ceppi anche membri del casato dominante, accusati di cospirazione o tradimento. Fu così per il condottiero Evangelista Gonzaga, coinvolto nel 1487 in una presunta congiura ai danni del marchese Francesco II.
Non nella torre ma nel castello finì anche Taddea Forlani, moglie del Cardinalino (figlio naturale del cardinale Francesco Gonzaga), da lui accusata di adulterio e reclusa insieme alla figlia.