I nomi di Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci o Marco Polo appartengono alla memoria collettiva.
Tuttavia, il nostro Paese vanta anche numerosi altri personaggi capaci di imprese di grande valore storico e scientifico, che a volte furono dimenticati sia perché legati all’epoca del colonialismo sia perché usati dal fascismo).
Vi presentiamo 5 di questi grandissimi esploratori italiani, anche se, purtroppo, risultano poco conosciuti alla maggior parte della gente.
1. Giovanni Battista Belzoni (Padova, 1778 - Nigeria, 1823)
"Il saltimbanco affamato di un tempo è diventato uno degli uomini più illustri d'Europa".
Così Charles Darwin sintetizzò la vita relativamente breve (1778-1823) eppure straordinariamente ricca di colpi di scena avventure e scoperte del padovano Giovanni Battista Bolzoni.
Fin dal 1794, egli trascorse lunghi periodi nelle più importanti capitali europee (Roma, Parigi, Amsterdam), conducendo un’esistenza precaria, nella quale poco spazio poteva consacrare alla sua passione per l’ingegneria idraulica.
L’arrivo a Londra nel 1803, coincise con una svolta del tutto inaspettata. Giovandosi delle sue peculiari caratteristiche fisiche (era alto quasi due metri e dotato di una possente muscolatura) si calò nei panni del “Sansone della Patagonia”, bizzarro protagonista di spettacoli teatrali, adornato di piume e vestito di pelli, capace di sollevare contemporaneamente undici uomini.
L’effige del “Grande Belzoni” - era conosciuto anche con questo appellativo - comparve sui manifesti pubblicitari dei teatri londinesi per circa un decennio. Altri scenari erano però in attesa di aprirsi. Avventure più esotiche si profilavano all’orizzonte.
Nel 1815, insieme alla donna che aveva sposato, Sarah Banne, si trasferì in Egitto, al soldo del pascià egiziano Mohammed Ali con l’incarico di studiare soluzioni più efficaci per l’irrigazione. Purtroppo dopo un anno di duro lavoro non ci furono i risultati sperati e l’intero progetto fallì.
Costretto a riprogettare il proprio futuro, Bolzoni accettò gli incarichi e i finanziamenti del console britannico Henry Salt, interessato al recupero delle ricchezze archeologiche egiziane, ancora quasi tutte da scoprire.
Tra il 1816 e il 1819, rinvenne numerosi reperti, fra i quali la colossale testa in granito rosso di Amenofi III e le due statue in posizione seduta raffiguranti lo stesso faraone. Su una di esse è ancora possibile vedere l’incisione recante la scritta “Bolzoni”.
Apporre la propria firma non era segno di un vezzo egoista, quanto della necessità di impedire che altri potessero reclamare la paternità della scoperta. Erano numerosi i “colleghi” privi di scrupoli con i quali si arrivò in molti casi a scontri assai serrati.
In particolare, Belzoni soffrì per i metodi e le sopraffazioni perpetrate dal console francese Bernardino Drovetti, ma il suo carattere forte e ardimentoso lo aiutò a superare i momenti più critici. Con la stessa determinazione affrontò le difficoltà delle imprese più ardue.
Si impegnò a far emergere dalla sabbia il tempio di Abu Simbel (scoperto anni prima da Jacob Burckhardt) e i suoi sforzi furono compensati dalle straordinarie sensazioni provate mentre ne percorreva il monumentale ingresso, simili a quelle avvertite dopo la scoperta della splendida tomba di Seti I, finemente affrescata e ricca di variopinti geroglifici.
Nemmeno si lasciò influenzare dalle voci che ritenevano la piramide di Chefren una struttura priva di cavità interne e dunque impenetrabile: dopo lunghe ricerche, individuò l’entrata il 2 marzo 1818.
Durante il periodo conclusivo della permanenza in Egitto, Bolzoni modificò il suo metodo di lavoro, spinto dal desiderio di essere riconosciuto come un esploratore nel senso più completo del termine: anche per questo si recò dapprima nel sito dell’antico porto di Berenice sul Mar Rosso e poi si spinse, tra i primi europei, fino all’oasi di Siwa, nel deserto egiziano.
Dopo il suo ritorno a Londra (1819), la pubblicazione dei resoconti di viaggio e l’allestimento dei suoi reperti nelle sale del British Museum contribuirono a consacrare Belzoni fra i grandi esploratori.
Confidando nelle sue capacità, l’Associazione africana di Londra gli affidò l’incarico di scoprire le sorgenti del fiume Niger e raggiungere la mitica città di Timbuctù.
Sfortunatamente non riuscì a portare a termine questa missione: il 3 dicembre 1823, mentre si trovava nei pressi del porto fluviale di Gwato, nell’attuale Nigeria, un grave attacco di dissenteria lo uccise.
2. Carlo Piaggia (Badia di Cantignano (LU), 1827 - Sudan, 1882)
"Chi si è immaginato, prima di vederlo, una figura di esploratore africano, un viso ardito e terribile, rimane conoscendolo molto disingannato.
E' di statura appena media, grigio barbuto, magrissimo.
Celia egli stesso sulla sua magrezza, dicendo che di tutti i viaggiatori è quello che gettò sul suolo dell’Africa l’ombra più sottile”.
Seppur sottile, come rilevato da Edmondo De Amicis in questa descrizione, l’ombra proiettata sull’Africa da Carlo Piaggia è rimasta originale e persistente.
La decisione di partire per il Continente Nero era stata presa da Piaggia nel 1851,dopo una serie di gravi perdite avute in famiglia e nella speranza di migliorare le sue condizioni di vita.
Dopo un breve periodo trascorso a Tunisi, si trasferì ad Alessandria d’Egitto dove iniziò a interessarsi delle spedizioni di caccia che si dirigevano verso le regioni meridionali: potevano rappresentare un’interessante fonte di reddito per chi, come lui, era particolarmente abile con il fucile.
Nel corso di queste esperienze, lentamente maturò in Piaggia una diversa consapevolezza del senso e del valore delle sue imprese.
L’idea della spedizione prettamente utilitaristica, motivata soltanto dal miraggio del tornaconto personale, finì con il dissolversi nel più vasto orizzonte del “viaggio”, inglobando una vasta gamma di obiettivi e finalità, da quelli scientifici a quelli politici; il cacciatore - commerciante cedette sempre più il passo all’esploratore.
Ma non fu un esploratore come gli altri. Le modeste origini sociali (era figlio di un mugnaio) e la scarsa istruzione lo rendevano una mosca bianca nel panorama degli esploratori contemporanei, quasi tutti nobili, ricchi e istruiti.
Anche l’approccio con gli indigeni risultò singolare: dalle sue lettere e dalle sue note di viaggio emerge l’atteggiamento rispettoso, empatico verso coloro che ebbe occasione di incontrare; amava viaggiare da solo e vivere a stretto contatto con i popoli che visitava.
Nel corso del lungo soggiorno tra gli Azande, durato quasi due anni (1863-1865), Piaggia non si comportò da semplice spettatore, non si limitò a osservare dal di fuori, bensì partecipò attivamente alla vita della comunità: ne descrisse gli usi e costumi, i sistemi di caccia e pesca, i metodi di cottura del cibo, imparando persino a condividerlo con gli indigeni. Non si era certo imposto la regola che altri avevano fatto propria di “non accettare mai vivande dagli indigeni”.
Egli era ben coscio della sua scarsa istruzione, ma non riteneva, e così di fatto non fu, che ne derivasse un danno per il valore del contributo apportato alla conoscenza delle regioni esplorate.
La sua “diversità” ebbe tuttavia delle conseguenze: non una riga della notevole mole di appunti, diari e quaderni relativa alle sue numerose campagne esplorative fu mai pubblicata mentre era in vita (solo nel 1941 compare una prima organica pubblicazione delle sue memorie).
Indubbiamente nei suoi confronti fu praticata una vera e propria censura, probabilmente legata al messaggio contenuto nei suoi scritti, in cui rimette in discussione gli schemi correnti e li contesta fermamente: sostiene che “il Selvaggio non differisce in niente al di là della razza umana; il selvaggio cresce nelle selve come in casa l’uomo domestico”.
Neppure attribuisce valore alla missione civilizzatrice dell’uomo bianco: al contrario, ritiene che “l’uomo domestico è di pericolo alla vita del selvaggio, giacché vorrebbe comandarli a prima vista con severità e forza d’anni di distruzione [ma] cosa può pretendere di ottenere da un popolo selvaggio [...] un popolo che guerreggia, ruba i figli per venderli, assassina, mette in stato di schiavitù e usa armi di distruzione?”.
Simili conclusioni non potevano essere accettate. I tempi non erano maturi. Profondamente deluso per non aver visto pubblicati i suoi scritti continuò a vivere in Africa, dove morì.
3. Giacomo Bove (Maranzana, 1852 - Verona, 1887)
"Era, io penso, un decaduto dentro sé stesso, a cui mancava l’armonia delle speranze con le memorie; un’anima tenuta a dieta”.
La profonda inquietudine che queste parole di Edmondo De Amicis trasmettono, furono elementi distintivi di una delle figure più tormentate e complesse, e per questo più affascinanti, dell’esplorazione italiana: Giacomo Bove.
Le circostanze della sua morte sono lo specchio più evidente dei tormenti del suo animo: egli si suicidò a soli 35 anni, una mattina d’agosto, in un campo appena fuori la città di Verona.
In quel triste scenario, per uno strano intreccio di circostanze, due grandi destini si incrociarono: quello del giovane cronista alle prime armi inviato sul posto dal quotidiano cittadino (L ’Arena), Emilio Salgari, destinato a viaggiare e a far viaggiare solo con la forza dell’immaginazione, e quello di Bove, reale protagonista di tante esplorazioni.
Salgari non aveva conosciuto personalmente il capitano piemontese, ma era a conoscenza delle sue imprese; nell’articolo scritto in quell’occasione esordì, retoricamente:
“Chi non conosceva per fama Giacomo Bove? Chi non ha letto spesse volte con piacere i giudizi entusiastici che i giornali esteri davano di questo ardito viaggiatore, che [...] godeva di fama mondiale?”.
Evidentemente, a quel tempo, Bove era molto famoso. Aveva cominciato a viaggiare subito dopo il diploma conseguito presso l’Accademia Navale, a bordo della pirofregata Governolo, incaricata di missioni scientifiche e politiche in Estremo Oriente (1872-1873).
Oltre a svolgere le sue mansioni di cartografo e idrografo, Bove potè immergersi nella natura dei luoghi visitati ed entrare in contatto con i popoli che li abitavano (conobbe anche un discendente dell’avventuriero James Brook, il leggendario Raja Bianco).
Trascorso qualche anno dal suo ritorno in Italia, per interessamento del governo e della Società Geografica Italiana, fu aggregato alla spedizione artica svedese diretta da Adolf Erik Nordenskiöld (1878-1879), che riuscì nel suo intento di percorrere, per la prima volta nella storia, l’intero passaggio di nord-est, circumnavigando l’Eurasia lungo le coste settentrionali.
Durante la navigazione sulla Vega, stimolato dal buon andamento della missione, Bove vagheggiò la realizzazione di una spedizione tutta italiana: “Faccio castelli in aria per un viaggio intorno alla terra antartica. Sarebbe una bella cosa se non fosse semplicemente un castello... Dove trovare i quattrini?”.
Il progetto non si realizzò proprio per mancanza di finanziamenti e anche per il disinteresse dei vertici governativi. Per tutta la sua breve esistenza Bove non riuscì mai a sopire la cocente delusione. Nei viaggi, pure importanti, che compì in seguito cercò senza mai trovarlo quell’appagamento che solo i ghiacci antartici gli avrebbero dato.
La prima esplorazione che guidò nella Terra del Fuoco e nella parte meridionale della Patagonia (1881-1882) consentì di compiere i rilevamenti da Punta Arenas a Santa Cruz.
Nel 1883, su incarico del governo argentino si recò nella provincia delle Missioni: oltre a raccogliere elementi per valutare la possibilità di stabilirvi delle colonie, risalì il Paranà sino a Ituzaingó ed esplorò il territorio compreso tra l’Iguassu e la grande cascata del Guayra; identificò i cinquanta filoni che la costituiscono e assegnò loro nomi italiani.
Il successo di questa spedizione spinse il governo argentino ad assegnargliene un’altra (1884), questa volta nella Terra del Fuoco, dove raccolse una vasta serie di dati geologici, cartografici e meteorologici di grande interesse scientifico.
Per l’ultima delle sue esplorazioni (1885-1886) risalì il fiume Congo fino alle cascate Stanley. Nella relazione che consegnò al governo italiano, che gli aveva dato il rischioso incarico, escluse categoricamente ogni convenienza dell’Italia a partecipare alla colonizzazione del Congo, soprattutto per le difficili condizioni del clima.
L’anno dopo si uccise.
4. Elio Modigliani (Firenze, 1860 - Viareggio, 1932)
"Da bambino le bestie erano il mio più grande piacere; e di tutto quello che mi facevano studiare m’interessava soltanto la storia naturale [...]
Leggevo molto, sempre, di tutto [...] specialmente libri di viaggi”.
A queste parole Elio Modigliani affida il ricordo delle sue passioni giovanili.
Nel corso della sua vita ebbe la fortuna di poterle fondere in un felice connubio: riuscì ad appagare la sete di conoscenza scientifica dei luoghi esotici dove, da bambino, era stato con la fantasia.
I suoi viaggi lo portarono nel Sudest asiatico. La prima volta vi arrivò, ventiseienne, nel 1886. Restò per sei mesi sull’isola di Nias e ne perlustrò, soprattutto, la regione meridionale, regno incontrastato di tribù guerriere, non sottomesse ai colonizzatori olandesi e note per la pratica del taglio della testa.
Modigliani era attratto dalla loro fama e si recò nel villaggio più potente dove riuscì, dopo un primo periodo di incomprensioni e difficoltà, a stabilire un proficuo contatto. Tra il 1900 e il 1901, per circa quattordici mesi, ebbe occasione di vivere una nuova esperienza di viaggio.
Si recò nelle zone più interne di Sumatra, ancora quasi del tutto inesplorate, dove entrò in contatto con la tribù dei Batacchi; perlustrò il lago Toba e scoprì le cascate di Sapuran Si Arimo; infine, fece tappa sull’isola di Engano, conosciuta anche come “isola della gente nuda” o “isola delle donne", per via della leggendaria abitudine dei suoi abitanti di utilizzare le donne come esche per gli agguati.
La terza e ultima spedizione (1894), era stata pianificata per esplorare l’arcipelago delle Mentawai, di fronte alle coste meridionali di Sumatra, ma il progetto non fu portato a termine a causa della accoglienza ostile da parte delle popolazioni indigene e di una grave infezione; Modigliani fu costretto a rientrare rapidamente in Italia, dopo aver soggiornato per pochi mesi nell’isola di Sìpora.
Tratto caratteristico dell’approccio di Modigliani all’esplorazione fu la sua puntuale e metodica preparazione scientifica. Nei tre anni che precedettero il primo viaggio si sottopose a un lungo e intenso periodo di formazione, frequentando centri di ricerca scientifica (Museo civico di Storia naturale e Istituto idrografico della Regia Marina, a Genova) ed entrando in contatto con maestri come Enrico Giglioli e Paolo Mantegazza.
Apprese le tecniche di conservazione degli esemplari naturalistici; l’uso del sestante; le pratiche di rilevamento topografico e quelle relative alla documentazione fotografica. Perfezionò i suoi studi anche presso i musei scientifici più importanti d’Europa e, infine, si stabilì in Olanda per aggiornarsi sulla letteratura più recente della regione che avrebbe visitato. Nulla fu lasciato al caso.
Oltre alle piante c agli animali, anche gli oggetti degli uomini dovevano essere classificati su base tipologica. Modigliani confessò di essere pervaso da una curiosità e da un desiderio di possesso che, a volte, sfociava nel latrocinio e nell’inganno, ammessi solo perché tutto è consentito in nome della scienza.
Egli, tuttavia, si sforzò di muoversi soprattutto in una direzione diversa: all’inganno e alla sopraffazione cercò di sostituire lo scambio e la collaborazione e, in ultima istanza, la fiducia e la comprensione.
Per Modigliani era importante marcare la diversità del viaggiatore-naturalista rispetto alle altre tipologie di esploratori e viaggiatori e considerava la sua un’esplorazione che aveva valore perché compiuta con lo scopo di conoscere in modo approfondito, ossia direttamente e di prima mano, luoghi, uomini e cose.
5. Luigi Amedeo di Savoia Aosta, duca degli Abruzzi (Madrid, 1873 - Somalia, 1933)
Cime ghiacciate, distese polari, mari, fiumi misteriosi: questi, soprattutto, sono stati gli orizzonti di riferimento del duca degli Abruzzi.
Istruito alla scuola della montagna fin da bambino, il nipote di Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, fu un assiduo frequentatore delle vette alpine.
Queste esperienze gli consentirono di accumulare un bagaglio di conoscenze che si sarebbe rivelato prezioso per le imprese che lo attendevano.
Alle ascensioni si dedicava nei periodi di libertà dai suoi impegni nella Regia Marina, dove era entrato a sei anni con la qualifica di mozzo. Nel 1889 terminò il corso presso l’Accademia Navale di Livorno.
Da ufficiale intraprese una serie di viaggi, tra i quali quello che lo condusse per 26 mesi (1894-1896) in giro per il mondo sull’incrociatore Cristoforo Colombo.
Dopo lo sbarco il duca iniziò quasi immediatamente i preparativi per la prima delle sue missioni, ovvero la conquista della cima del monte Sant’Elia (Alaska), dove ebbe il privilegio di mettere piede alle 11 e 45 del 31 luglio 1897.
Sull’onda di questo successo, fu concepita una nuova idea: raggiungere il Polo Nord. Fino ad allora, l’Italia non aveva ancora preso parte a questa competizione con una propria missione (ufficiali italiani erano stati semplicemente aggregati a spedizioni straniere) ed era giunto il momento di colmare questo ritardo.
L’avventura polare, avviata nel 1899, non presentò all’inizio particolari problemi, ma un incidente occorsogli alla mano sinistra (congelamento e conseguente amputazione di due falangi) impedì al duca di essere protagonista nella fase finale.
Fu il comandante in seconda, Umberto Cagni, a toccare, il 24 aprile 1900, la latitudine di 86° 24’ nord, superiore di 40 miglia rispetto al record precedente. L’obiettivo prefissato non era stato raggiunto, ma si gioì egualmente per il primato ottenuto.
Dopo l’esperienza artica il duca progettò la scalata delle più alte cime della catena del Ruwenzori. Ancora nessuno era riuscito a realizzare quanto sperato del grande esploratore-giornalista Henry Morton Stanley, morto nel 1904:
“Spero che un uomo votato al suo lavoro, un alpinista appassionato, prenda in considerazione il Ruwenzori e lo studi, lo esplori da cima a fondo. Attraverso le sue enormi creste e i suoi profondi canali”.
Luigi Amedeo e i suoi compagni di viaggio riuscirono in questa straordinaria impresa fra la primavera e l’estate del 1905. Tuttavia, la missione alla quale più comunemente si lega l’immagine del duca doveva ancora compiersi: la grande avventura nel Karakorum (1909).
L’obiettivo previsto era la conquista del K2, ma la vetta rimase inviolata. Traguardi importanti vennero egualmente raggiunti: si stabilì il nuovo record di altezza (7498 metri sul Bride Peak, o Chogolisa) e si identificò la via di salita lungo lo Sperone Est del K2, battezzato Sperone degli Abruzzi.
Risalendo la stessa via, il 31 luglio 1954, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli consegnarono all’Italia il primato della conquista del K2.
L’ultima grande spedizione è legata alla fase finale della vita del duca, trascorsa prevalentemente in Somalia, nella fiorente colonia agricola da lui fondata nel 1919. I 25mila ettari della colonia erano lambiti dalle acque del fiume Uabi-Uebi Scebeli, ancora inesplorato per molti tratti, tra cui quello sorgentizio.
Questa carenza di informazioni fu da stimolo per l’organizzazione di una spedizione destinata a completare la conoscenza del fiume (1928-1929). La campagna esplorativa ebbe il successo sperato e permise di svelare uno degli ultimi segreti del continente africano. Luigi Amedeo si spense qualche anno dopo (18 marzo 1933).
La terra africana lo accolse, secondo i suoi desideri: “Preferisco che intorno alla mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati”.