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5 misteri medievali da scoprire in giro per l’Italia

Una volta Albert Einstein disse che «La cosa più bella che possiamo sperimentare è il mistero».

Anche lo scienziato che rivoluzionò i destini della fisica non era immune al fascino dell’ignoto e dell’arcano.

In ogni epoca l’indagine sul significato nascosto della realtà, nel tentativo di oltrepassare i limiti imposti dal mondo sensibile, ha accompagnato l’uomo.

Miti, credenze e leggende, non a caso, sono sopravvissuti per secoli nella memoria collettiva e hanno informato la storia di popoli e culture, in particolar modo nell’età di Mezzo.

Ogni angolo del nostro Paese ha un’interessante storia da raccontare, anche quello che si rivela in apparenza più insignificante.

Non solo chiese e castelli custodiscono misteri insvelati, ma anche ponti, tombe, palazzi signorili, colonne, statue e pozzi, insieme a laghi, montagne, boschi, grotte e alberi.

Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, le nostre regioni celano all’interno dei propri confini innumerevoli luoghi ammantati da leggende, citate nelle cronache locali del passato, come se
fossero una parte viva della quotidianità.

Ne scaturisce un racconto in costante equilibrio tra fantasia popolare e realtà.

Oggi abbiamo scelto di proporvi 5 tappe legate a misteri medievali da scoprire in giro per l’Italia… Vediamole insieme.

1. Verona: sulle tracce di un amore infelice

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William Shakespeare ha fatto di Romeo e Giulietta i protagonisti della tragedia d’amore piú popolare di ogni tempo.

Gli storici del teatro ne fissano le origini in una leggenda senese a cui aveva attinto nel Quattrocento lo scrittore Masuccio Salernitano (1410 circa - 1475) per la novella Mariotto e Ganozza, e, un secolo piú tardi,

Luigi Da Porto (1485-1529) nell’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti (pubblicata postuma, nel 1530), ambientata a Verona come scenografia. Città scelta poi anche da Shakespeare come teatro del suo dramma.

Alle spalle di quelle ascendenze letterarie, esisterebbero, in realtà, alcuni episodi di vita vera, nei quali Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti (più esattamente Cappelletti) vissero e soffrirono i contrasti fra le loro famiglie.

Il condizionale è d’obbligo, anche se la tradizione popolare ha da tempo ormai legittimato un palazzo della città scaligera come «Casa di Giulietta».

Qualche accenno a una presunta famiglia di Romeo si può rintracciare nella Divina Commedia: nel canto VI del Purgatorio, Dante dedica alcuni versi ai Montecchi, che, secondo le cronache dell’epoca, furono a lungo la più importante famiglia ghibellina veronese.

Famiglia che potrebbe avere avuto la sua residenza nella zona in cui oggi viene collocata la casa di Romeo, in via delle Arche Scaligere. Risulta invece più difficile affermare che i Cappelletti siano stati i reali proprietari della Casa di Giulietta, in via Cappello.

In base alle ricerche effettuate nell’Ottocento da Giuseppe Todeschini, infatti, una fazione Cappelletti esisteva nel Duecento, ma abitava a Cremona ed era guelfa. Non poteva, conseguentemente, essere in quotidiano conflitto con i Montecchi di Verona.

Lo storico Alberto Maria Ghisalberti, però, non esclude che le due città fossero in guerra tra loro o, tutt’al più, si comportassero da rivali acerrime: «Verona e Cremona si possono considerare i capisaldi di una contesa secolare intorno a interessi municipali e particolari che, sfruttando a loro profitto la briga fra Chiesa e Impero, avevano calpestato i veri ideali dell’una e dell’altro».

Il palazzo Cappelletti (o Capuleti) risale al Medioevo e, sulla chiave di volta dell’arco di entrata del cortile, conserva uno stemma con un copricapo, che dunque evocherebbe il nome dei Cappelletti.Va comunque precisato che, intorno al 1935, l’edificio fu oggetto di una ristrutturazione che gli conferí le forme medievaleggianti oggi visibili.

E uno dei frutti di quell’intervento fu proprio la costruzione ex novo del simbolo che piú di ogni altro suscita l’emozione dei tanti che si recano a Verona, attratti dalla storia di amore e morte dei due amanti: il balcone dal quale Giulietta si sarebbe affacciata per parlare con Romeo.

Inserito nella facciata che guarda il cortile interno della Casa, il manufatto venne realizzato reimpiegando come parapetti le pareti di un sarcofago scaligero.

Non lontano, in un sotterraneo dell’ex convento di S. Francesco al Corso, si può inoltre rendere omaggio alla «tomba di Giulietta»: un sarcofago in marmo rosso che avrebbe accolto le spoglie della fanciulla.

Nei secoli, la tradizione ne ha sostenuto l’identificazione con la tomba di Giulietta, e il sarcofago ha fatto registrare un afflusso ininterrotto di pellegrini, tra cui vari regnanti e letterati del calibro di Byron e Dickens.

2. Catania: amori, gelosie e vendette all’ombra del vulcano

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Nel centro di Catania una rampa conduce in un cortile posto a 12 m sotto il livello stradale, nelle vicinanze del castello Ursino (uno dei numerosi fortilizi voluti da Federico II nel Meridione d’Italia, oggi sede dell’omonimo Museo Civico della città etnea).

Scesi i gradini si accede a un antico pozzo, sulle cui pareti si vedono impresse alcune macchie rosse, presumibilmente frutto di depositi ferrosi, ma che il sentimento popolare identifica con i residui del sangue di una ragazza morta nel XIII secolo, durante la rivolta dei Vespri.

La giovane si chiamava Gammazita ed era innamorata di un paggio di nome Giordano, sul quale, però, aveva messo gli occhi anche la nobile e potente Macalda che ne era la padrona.

Quest’ultima, non corrisposta dal giovane, si infuriò a tal punto da meditare l’assassinio della rivale in amore e, per attuare il piano criminoso, si rivolse a un cavaliere francese, un certo Saint Victor. Correva l’anno 1278 e la città, come del resto l’intera isola, era sotto il dominio degli Angioini.

La nobildonna si accordò con il soldato e in cambio dell’esecuzione del delitto gli promise di sposarlo, anche se, in cuor suo, non aveva perso le speranze di conquistare Giordano.

Dopo vari tentativi andati a vuoto, il cavaliere, un giorno, seguí Gammazita nei pressi di un pozzo e la aggredí. La ragazza fece di tutto per divincolarsi e, alla fine, vista l’impossibilità di fuggire, si gettò nell’acqua e morí annegata.

Venuto a sapere della tragedia che si era consumata, il paggio Giordano decise di vendicare l’amata e, rintracciato l’assassino, lo uccise a colpi di pugnale.

Una variante della leggenda identifica l’omicida, che era anche uno spasimante della ragazza, con Droetto, il soldato che, la sera del Lunedí di Pasqua del 1282, sul sagrato della chiesa palermitana di S. Spirito, mancò di rispetto a una nobildonna scatenando la rivolta antiangioina dei Vespri (destinata a trasformarsi in un conflittò che dilaniò l’isola per un ventennio).

Questa singolare associazione tra figure storico-leggendarie potrebbe far chiarezza sull’origine della vicenda di Gammazita, che risulterebbe essere un’eco «letteraria» dell’odio siciliano per i dominatori francesi.

La fantasia popolare, però, utilizzò anche personaggi realmente esistiti nell’elaborazione della vicenda, come nel caso della nobile mandante dell’omicidio, il cui profilo sembra corrispondere a quello di Macalda di Scaletta (1240-1308).

Ma c’è anche una versione mitologica della leggenda del pozzo di Gammazita e se ne trova traccia nel panegirico di Giacomo Gravina, La Gemma zita (1621). Nell’opera si narra del matrimonio tra il pastore Amaseno e la bellissima ninfa Gemma, contrastato da Plutone.

L’interesse del dio fa ingelosire Proserpina (dea degli Inferi rapita in precedenza da Plutone), che con un incantesimo trasforma Gemma in una fonte.

Le altre divinità, commosse dalla disperazione di Amaseno per la perdita dell’amata, decidono di tramutare anche il pastore in una fonte: il pozzo, pertanto, divenne il luogo di incontro tra due spiriti, due sorgenti naturalmente attratte l’una dall’altra.

E il termine «Gammazita» altro non sarebbe che la fusione di due parole, «gemma» e «zita» con il significato rispettivamente di «fidanzata» e «sposa». È probabile che in età antica nella zona del pozzo si trovassero varie strutture pubbliche monumentali.

Nel Medioevo, invece, nella zona si sviluppò il quartiere ebraico (la Judeca Suttana), epicentro della vita commerciale cittadina. Diverse sorgenti erano presenti nel sottosuolo e alimentavano le attività e le abitazioni private.

Dopo lo spopolamento della Judeca, nel Cinquecento, un tratto delle mura del borgo, poste nei pressi della Porta dei Canali e del Bastione di Santa Croce, assunse il nome di «Gammazita» e in alcuni documenti risultava presente una fonte.

Nel Seicento, in seguito alla rivoluzione urbanistica voluta da don Francesco Lanario, duca di Carpignano – chiamato a Catania e nominato Soprintendente generale alle Fortificazioni – tre sorgenti della zona furono innestate nel corso del fiume sotterraneo Amenano (che oggi sbocca nelle vicinanze del giardino Pacini), permettendo anche la costruzione di limitrofe fontane pubbliche.

L’eruzione dell’Etna del 1669 provocò danni enormi nel quartiere che oggi ospita il pozzo di Gammazita: le sorgenti, come molti monumenti, vennero invase dalla lava e rimasero sepolte sotto i detriti per molti anni.

Solo alla metà del Settecento la lava venne rimossa e fu di nuovo possibile accedere alle fonti d’acqua sotterranee che avevano tanto contribuito allo sviluppo economico di Catania.

La fama del pozzo di Gammazita crebbe in quel secolo grazie alle citazioni di alcuni artisti e scrittori che affollarono la città nel XVIII secolo perché tappa del Grand Tour. Tra le citazioni piú note vi è quella del poeta francese Charles Didier, che descrive il pozzo come un luogo parzialmente coperto di lava dal quale sgorgava un’acqua limpidissima.

3. Chiusdino (Siena): Messer Galgano, eremita con la spada

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Nella Val di Merse, una trentina mentale in rovina, immersa nel silenzio dei di chilometri a sud-ovest di Siena, c’è un luogo nel quale sogno e realtà sembrano appartenere a una stessa dimensione.

Da un lato c’è Montesiepi, un poggio dal placido declivio, sormontato dalla chiesa rotonda consacrata al nobile eremita San Galgano.

È il luogo della sua sepoltura, e custodisce la spada che lo stesso Galgano avrebbe confitto nella roccia all’atto della fondazione dell’eremo. Nella pianura sottostante, nel mezzo di una distesa di campi, si staglia invece l’abbazia che i Cistercensi realizzarono proprio in suo onore.

La piccola rotonda e la grande abbazia, unite dal culto di san Galgano, erano realtà diverse che rispondevano a diverse motivazioni, tanto che la nascita del nuovo, vasto complesso dovette scontrarsi con le perplessità se non con le resistenze della prima comunità religiosa che si era insediata a Montesiepi. 

Ma oggi questa contrapposizione sembra svanita d’incanto.

La chiesa monumentale in rovina, immersa nel silenzio dei campi, fa da scenario e da ideale contrappunto alla rotonda che custodisce la spada, e fa di quest’angolo della Toscana un corrispettivo della «celtica» Glastonbury, nel cuore dell’Inghilterra, laddove i ruderi della grande chiesa abbaziale gotica custodiscono la memoria di re Artú di Bretagna. Lí infatti doveva situarsi la mitica isola di Avalon in cui fu sepolto.

La spada di Montesiepi evoca facilmente un accostamento con la mitica Excalibur, il ferro estratto dalla roccia da Artú in persona. Diversi sono i protagonisti, diverse sono le circostanze, ma il ruolo magico e simbolico della spada corrisponde in modo davvero straordinario.

Ed è proprio la consistenza storica di Galgano a fare della sua Avalon (la rotonda di Montesiepi) una realtà senza pari. La vicenda del santo eremita è tramandata da una indagine (inquisitio) svolta con l’apporto della viva voce di alcuni testimoni, a partire dalla stessa madre, Dionigia.

Redatto da una commissione appositamente stabilita, il dossier era in funzione del processo di canonizzazione di Galgano, istruito nel 1185, pochi anni dopo la morte dell’eremita, avvenuta il 30 novembre 1181. Egli godeva di una popolarità enorme.

La festa a lui dedicata culminava nell’ostensione della sua testa, miracolosamente conservata, ed era un avvenimento di grande richiamo. L’afflusso dei fedeli era favorito dalla collocazione di Montesiepi sulla direttrice della via Maremmana, un asse assai frequentato che peraltro si riconnetteva alla via Francigena.

Molti pellegrini erano attratti proprio dalla sacra spada. Tutti sapevano che il Signore in persona aveva fornito l’arma di poteri magici, impedendo a chiunque di poterla estrarre dal terreno.

Già quando era ancora in vita, d’altronde, Galgano dispensava preziose capacità taumaturgiche e il suo ruolo di guaritore proseguiva anche nel luogo in cui riposavano le sue spoglie.

Galgano Guidotti nacque intorno al 1150 nel castello di Chiusdino, all’epoca annoverato tra le giurisdizioni del vescovo di Volterra. Ambiva al ruolo di cavaliere, e cavaliere era stato il defunto padre, Guidotto.

In età matura, mentre ancora viveva nella sua casa d’origine, a fianco della madre Dionigia, gli comparve in sogno l’arcangelo Michele, il patrono dei guerrieri a cui già i Longobardi erano devoti.

Molto tempo dopo l’Arcangelo tornò in scena, e fece capire a Galgano che si trovava in un momento cruciale della sua esistenza. Era stato investito cavaliere, ma non bastava.

Questa volta, infatti, non è lo spettatore di un breve sogno, ma il protagonista di una visione che lo proietta d’incanto nell’aldilà, per poi farlo tornare nel mondo dei vivi. Piombato in una sorta di trance estatica, viene condotto dall’Arcangelo fino a un ponte malsicuro che scavalca un fiume insidioso.

Superato il difficile passaggio, Galgano si ritrova in un incantevole, smisurato prato fiorito. Dopodiché si ritrova in tutt’altra situazione, sprofondato in una sorta di pozzo senza fine, ma ben presto riemerge sul suolo terreno, proprio in cima al colle di Montesiepi.

E lí lo attendono i dodici Apostoli, disposti in cerchio in una casa rotonda. Lo invitano ad accomodarsi tra loro e provano a guidarlo, sottoponendogli un testo sacro, ma Galgano rinuncia alla lettura. Lo soccorre allora un’immagine, che lo illumina e lo avvince.

Proprio sopra di lui compare una scultura che raffigura il Cristo in maestà. Galgano percepisce che la sua vita deve andare in quella direzione. A tal fine, gli Apostoli dettano precise istruzioni: là dove è stato accolto, dovrà costruire una casa rotonda da intitolare alla Madonna, agli stessi Apostoli e a san Michele Arcangelo, e in quel luogo dovrà poi vivere per molti anni.

Tempo dopo, il futuro santo si reca al castello di Civitella. Durante il cammino, il cavallo si impunta, rifiutandosi di procedere. Galgano decide cosí di tornare indietro e di pernottare presso una pieve, per riprendere il cammino l’indomani.

Ma la mattina seguente il cavallo si impunta nuovamente, nello stesso punto. Non potendo fare altro, Galgano si affida all’animale, lasciandolo andare a briglia sciolta, e viene cosí condotto proprio a Montesiepi. Smontato da cavallo, il sogno finalmente si realizza: Galgano si insedia in cima al colle e fonda il suo eremo.

Il momento è siglato proprio dalla spada confitta nel terreno (solo le biografie piú tarde specificano che l’arma fu piantata nella roccia, cosí come si presenta tuttora la spada di Montesiepi). In mancanza di un’adeguata croce di legno, che Galgano non era riuscito a realizzare, l’incrocio tra il pomo e l’elsa dell’arma fungeva infatti da perfetto emblema del Signore.

Il gesto, poi, rappresentava in modo efficacissimo il trapasso dalla militia terrena quella di Cristo: la spada non veniva abbandonata o rinnegata, ma offerta in onore di colui che aveva guidato Galgano fin lí, apparendo in maestà davanti ai suoi occhi, durante la visione della casa degli Apostoli.

4. Bologna: enigmi all’ombra delle torri

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Monumenti simbolo di Bologna, le torri degli Asinelli e Garisenda, alte rispettivamente 97 e 47 m, portano il nome di due famiglie locali che nel XII secolo ne finanziarono la costruzione o, più semplicemente, le abitarono.

Entrambe pendenti, evocano inquietanti vicende dell’età di Mezzo – al confine tra storia e fantasia popolare –, nonché un irrisolto enigma architettonico, vista la loro inalterata solidità a dispetto degli anni, delle calamità naturali e delle imperfezioni strutturali.

La pendenza della torre degli Asinelli deriva da uno smottamento del terreno sottostante che, tuttavia, nel tempo si è stabilizzato in modo naturale.

Legata alla potente casata dei Garisendi, la torre minore, invece, che presenta un’inclinazione più accentuata, è rimasta di fatto incompiuta, a causa del precoce cedimento delle fondamenta.

Una leggenda individua la ragione di questa sua debolezza «genetica» nel bizzarro progetto iniziale di chi concepì l’edificio: i costruttori, si racconta, avrebbero voluto che la Garisenda si attorcigliasse come una spirale attorno alla gemella vicina. In ogni caso – ed è la cronaca a riportarlo –, alla fine del Medioevo la sua altezza venne ridotta per evitare che sulle fondazioni gravasse un peso eccessivo.

Secondo la tradizione, gli Asinelli erano una facoltosa famiglia bolognese, che aveva fatto fortuna grazie a un’impresa di trasporto. Servendosi di alcuni somari – di qui il cognome –, garantivano l’arrivo della ghiaia dal fiume Reno ai cantieri di costruzione cittadini.

Si narra che un giorno il primogenito della famiglia, affacciato alla finestra, avesse visto una bellissima ragazza, di stirpe nobile, e se ne fosse perdutamente innamorato.

La chiese subito in sposa, ma il padre della fanciulla pose una condizione imprescindibile: come pegno d’amore, il giovane Asinelli avrebbe dovuto costruire la torre più alta della città. Il ragazzo non disponeva delle risorse necessarie per un’opera del genere, ma venne aiutato dal destino.

Un giorno, infatti, mentre svolgeva il quotidiano lavoro di trasporto della ghiaia, trovò una gran quantità di monete. Le investí tutte per edificare l’imponente costruzione e la terminò in nove anni. Subito dopo poté finalmente sposare l’amata, con la benedizione del potente padre.

La nascita della torre più alta del capoluogo emiliano ha, però, anche risvolti lugubri. Secondo un’altra leggenda, la sua costruzione sarebbe opera del diavolo, che l’avrebbe ultimata in una sola notte, scegliendo un luogo dalle coordinate sinistre.

Si dice, infatti, che le sue fondamenta misurino 6 m di profondità e che la torre sia sorta all’incrocio di 6 strade (ricordiamo che la numerologia cristiana considera il 9 come espressione della perfezione divina, e, di conseguenza, il suo rovesciamento, il 6, si configura come il simbolo dell’anti-Dio, del demonio).

Nel Medioevo la torre incuteva timore anche perché per un periodo fu utilizzata come prigione. E sul suo lato orientale, a una ventina di metri d’altezza veniva sospesa una gabbia nella quale venivano rinchiusi i preti colpevoli di crimini particolarmente gravi.

Nei secoli, altri eventi alimentarono l’alone di mistero intorno alla torre degli Asinelli. Dalla fine del XIV secolo il monumento venne colpito da un’incredibile serie di calamità, ma la sua struttura resse in modo miracoloso.

Nel 1399, in seguito a un violento sisma, la torre perse soltanto la campana, che in quel periodo era usata soprattutto come segnale d’allarme in caso di incendi. Nel 1413, un certo Niccolò de Guidotti diede fuoco alle scale interne dell’edificio, che però sopravvisse ancora una volta.

Superò quindi indenne un colpo di cannone che le fu sparato accidentalmente contro nel 1513, durante le celebrazioni per la nomina a pontefice di Leone X, nonché il fulmine che, nel Settecento, si abbatté sulla sua sommità.

Anche la torre Garisenda ha attirato l’interesse di storici e architetti. Si narra, per esempio, che, osservandola dal basso, dia l’impressione di muoversi se una nuvola lambisce la sua sommità sul lato inclinato. L’effetto ottico affascinò anche Dante Alighieri, che alla torre bolognese piú bassa dedicò alcuni versi del canto XXXI dell’Inferno:
«Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ‘l chinato, quando un nuvol
vada sovr’essa sí, chedella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada».

Può sembrare sorprendente, ma seppur in maniera implicita e inconsapevole, il poeta ha condensato in queste terzine un riferimento che può essere considerato come una premessa della teoria della Relatività Speciale formulata da Albert Einstein nel 1905!

Trovandosi ai piedi della torre, egli scorge le nuvole retrostanti che si muovono, spinte dal vento e, poiché il nostro occhio si rende solidale con ciò che sta più lontano, ne ricava la sensazione dell’apparente spostarsi dell’oggetto più vicino. 

A Dante sembra perciò che sia la torre ad abbattersi su di lui, offrendo così la prima dimostrazione della relatività del moto.

Secondo alcune letture esoteriche, nell’VIII componimento delle Rime, l’Alighieri citò ancora una volta la Garisenda per paragonarla alla torre degli Asinelli e al fine di evidenziare le due anime della setta segreta di cui il poeta avrebbe fatto parte (la corrente gnostica e quella catara).



5. Montemonaco (Ascoli Piceno): dalla Giudea agli Appennini

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Uno dei pochi laghi di origine glaciale dell’Appennino si trova a circa 2000 m di altitudine, sulla catena dei monti Sibillini.

Oggi compreso nel territorio del Comune di Montemonaco, porta il nome di Pilato.

Nelle sue acque, infatti, sarebbe stato deposto il corpo del procuratore romano della Guidea che condannò Gesú Cristo alla crocifissione.

Qualche anno dopo l’esecuzione del Nazareno, anche Ponzio Pilato sarebbe stato messo a morte – dall’imperatore Tiberio – e, come ulteriore sanzione, non avrebbe ricevuto una normale sepoltura.

Le sue spoglie, secondo la leggenda, sarebbero state caricate su un carro trainato da buoi che, dopo un lungo viaggio, giunse in una montagna delle Marche. Da quell’altura, il veicolo sarebbe quindi precipitato in un lago.

A sorvegliare i resti del procuratore fu inviato un pretoriano che poi si tramutò in una roccia (tuttora nei dintorni del bacino ne esiste una nota come «Gran Gendarme», forse in ricordo di quella tradizione).

Dal Medioevo lo specchio d’acqua – detto anche lago della Sibilla, come risulta da una sentenza emessa dal giudice della Marca Anconitana nel 1452 – assunse una fama sinistra: divenne il luogo scelto da negromanti e streghe per consacrare il Libro del comando, un testo di magia cerimoniale utilizzato per evocare gli spiriti e lanciare sortilegi.

Le prime informazioni su questa nuova stagione dell’area compaiono nel Reductorium morale compilato dall’erudito francese Pierre Bersuire (1290 circa - 1362), che descrive il lago come un luogo in cui si evocava il demonio.

Ancora nel Trecento, il poeta fiorentino Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, afferma che anticamente l’eretico cristiano Simone Mago vi si recava per consacrare il suo libro.

Anche Benvenuto Cellini, nel Quattrocento, riferisce della presenza di negromanti, che accorrevano sulle sponde del lago per evocare i demoni attraverso un testo magico.

Ludovico Ariosto, invece, nell’Orlando Furioso cita un luogo maledetto nei pressi di Norcia, nel quale Merlino andò a consacrare il proprio libro. Il poeta petrarchesco Nicolò Pieranzoni, infine, fa riferimento alla fama demoniaca del lago di Pilato «ormai noto ai popoli di tutte le nazioni».

Al lago si poteva accedere solo a piedi, percorrendo strade impervie, dette «forche», forse per la presenza di un patibolo a ridosso del bacino, collocato in quel posto dai governanti per scoraggiare praticanti della magia nera e curiosi ad avvicinarsi.

Nell’età di Mezzo, infatti, le autorità locali, in particolare i prelati, cercarono di porre un freno all’andirivieni degli operatori dell’occulto con ogni mezzo: il vescovo di Norcia, per esempio, tentò di limitare l’accesso al lago costruendo una lunga cinta muraria.

Il bacino incuteva timore non solo perché luogo delle adunate di negromanti e streghe, ma anche perché si temeva che le sue acque fossero abitate da forze maligne.

Per questo si dice che le comunità che vivevano nelle città vicine avessero l’abitudine di compiere sacrifici umani per ingraziarsi quelle entità minacciose, gettando poi nel lago i corpi delle vittime.

In anni più recenti, il lago è stato teatro, fra l’altro, della scoperta di una specie ittica fino ad allora ignota, battezzata Chirocefalo del Marchesoni (dal nome di Vittorio Marchesoni, lo studioso che per primo ne rilevò la presenza, nel 1954).

Si tratta di un piccolo crostaceo e oggi, al fine di tutelarne gli esemplari, non sono consentiti la balneazione e il camminare a meno di cinque metri dalle sponde del lago. Altre leggende sono ambientate nei monti Sibillini: non a caso lo scrittore Guido Piovene (1907-1974) li definì i rilievi «più misteriosi d’Italia»

Sempre nel territorio di Montemonaco si trova una grotta che celerebbe l’accesso al regno sotterraneo della Sibilla Appenninica. Riportata da Andrea da Barberino nel romanzo Guerrin Meschino (1473), la leggenda narra la vicenda di un cavaliere che si recò dalla Sibilla per cercare notizie dei propri genitori: una versione che presenta notevoli similitudini con la vicenda germanica del Tannhäuser, poi ripresa da Richard Wagner per uno dei suoi melodrammi.

Un’altra tradizione è legata ai tempi dell’avvento di Gesú. Tra i rilievi dei Sibillini sarebbero, infatti, nascosti i trenta danari che Giuda incassò dal Sinedrio per tradire Cristo. E il rinvenimento di una moneta romana (un aes grave) nelle vicinanze ha contribuito a far sopravvivere la credenza.






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