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5 straordinari libri di letteratura di viaggio

Voltaire diceva che “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.

La letteratura sul viaggio in Italia, purtroppo, è un genere letterario frainteso e spesso confuso con le classiche guide di viaggio.

A differenza di queste ultime, dove l’approfondimento e lo sviluppo dell’esperienza soggettiva del viaggiatore è (quasi) del tutto assente, le opere di letteratura di viaggio descrivono le persone, gli avvenimenti, ciò che percepisce l’autore che si trova in un paese straniero o un luogo insolito e nuovo.

In altre parole la trama, di questo genere letterario, è tratta dall’ignoto, dal vasto, dal sempre mutabile e dall’eterno dell’esperienza umana.

La definizione di “letteratura di viaggio” è di regola collegata, accompagnata e interessata a opere il cui contenuto coincide appieno a narrazioni di viaggio. Una narrazione di un viaggio, ci dà la carica e ci suggerisce nuovi modi di guardare il mondo.

Questi sono 5 libri di letterura di viaggio, proposti da noi, che dovete assolutamente leggere, anche se l’Iraq, la Liberia o il Tibet non sono le vostre prossime mete di viaggio. E ricordatevi che per effettuare un lungo viaggio non è sempre necessario acquistare un biglietto aereo e preparare una valigia.

La letteratura di viaggio (o come anche vuole essere chiamata “narrativa di viaggio” o “letteratura odeporica”) serve anche a questo, a farci viaggiare con la mente senza farci uscire di casa.

1. "Sabbie arabe" di Wilfred Thesiger

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Il Rub el-Khali, l'Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, è il deserto più grande del mondo, il solo luogo in cui, secondoThesiger, "si può trovare la pace della vera solitudine".
Il primo europeo ad attraversare l'Empty Quarter fu Bertram Thomas, un funzionario dell'Indian Civil Service trasformatosi in esploratore nell'inverno del 1931. Il secondo fu St John Philby, il padre di Kim, la spia.
Wilfred Thesiger è stato solo il terzo. La sua impresa, però, cominciata nel novembre del 1945, è stata davvero memorabile: una traversata proibita dal Dhaufar fino all'Oman, nel Golfo Persico, passando per le dune ritenute invalicabili dell'Uruq el-Shaiba e costeggiando sabbie mobili assai temibili.
Nato ad Addis Abeba, figlio del rappresentante britannico presso la corte del Negus, quando ancora regnava Menelik, Thesiger era il tipico inglese etoniano: faccia allungata e rossastra, occhi a fessura, vecchie giacche di tweed e scarpe di gran classe logore e rappezzate.
Era capace di frasi quali "mai fatto un giorno di lavoro, vecchio mio", e di ammirazioni spropositate per i racconti e le gesta di Henri de Monfreid - un avventuriero e scrittore del Mar Rosso che trafficava hashish e perle - ma era anche uno dei pochissimi occidentali in grado di resistere come uno "sceicco" nel deserto e di "cavalcare e sparare in corsa come un beduino".
Probabilmente queste sue straordinarie capacità gli derivavano da una vera e propria immedesimazione nei popoli che amava. Viaggiando con i nomadi e facendo la loro vita, Thesiger aveva elaborato una teoria riassumibile nel motto che alimenta Sabbie arabe: "the harder the life, the finer the person".
Coloro che nelle sabbie avevano trovato il loro rifugio, i veri uomini del deserto, i Rashid, capaci di resistere più di ogni altro essere vivente, eccettuato il dromedario, alla fame e alla sete, e che si fidavano solo del loro indomito spirito di sopravvivenza e della loro carabina, erano per lui i più nobili e i più degni di ammirazione.
Scritto dieci anni dopo l'avventura dell'Empty Quarter in una stanzetta del Park Hotel di Copenhagen, Sabbie arabe è innanzi tutto un'appassionata celebrazione, composta con immediatezza ed eleganza, dei beduini e della loro esistenza.
In un tempo fuori dal tempo, tra carovane e soste, silenzi e animate conversazioni, riviviamo, nelle sue pagine, la vita di un popolo fiero e generoso, religioso e violento, fatalista e solidale: una vita aspra e affascinante che, una volta conosciuta, non concede a "nessun uomo di restare lo stesso".

  • "Il capolavoro di uno dei più grandi viaggiatori britannici."Sunday Times
  • "Sulla scia di Lawrence… ecco il libro sul mondo arabo che pone fine a tutti i libri sul mondo arabo."Daily Telegraph
  • "Uno dei più grandi libri di viaggio mai scritti."Times

 

Wilfred Thesiger nacque ad Addis Abeba nel 1910 e studiò a Eton e Oxford.
Nel 1935 fece parte del Sudan Political Service e quando scoppiò la guerra venne distaccato alla Sudan Defence Force. Dopo la guerra viaggiò nel Kurdistan, nel sud dell'Irak, in Marocco, in Africa centrale e orientale.
Tra le sue opere ricordiamo Sabbie arabe (Neri Pozza 2002) , Desert, Marsh and Mountain: The World of a Nomad, The Life of my Choice e Visions of a Nomad.

 

2. "In Patagonia" di Bruce Chatwin

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«Patagonia» dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. «Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza» cantava Cendrars agli inizi di questo secolo.
Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia.
E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore. Li trovò entrambi – e insieme scoprì ancora una volta l’incanto del viaggiare, quell’incanto che è così facile disperdere, da quando ogni luogo del mondo è innanzitutto il pretesto per un inclusive tour.
Eppure, eccolo di nuovo: l’inesauribile richiamo, il vagabondo trasalire di un’ombra – il viaggiatore – fra scene sempre mutevoli. E nulla si rivelerà così mutevole come la Patagonia, che si presenta come un deserto: «nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca».
All’interno di questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio.
Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così «abietti» da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato. 

Hudson, devoto solo al «dio dei viandanti», Chatwin ci racconta le sue molte tappe: fra baracche di lamiera, assurdi chalets, finti castelli, vaste fattorie. E ogni tappa è una miniatura di romanzo. Alla fine, la Patagonia sarà per noi pullulante di fantasmi, che si muovono sul fondo della «calma primitiva» del deserto, nella quale Hudson credeva di riconoscere «forse la stessa cosa della Pace di Dio».
Pubblicato nel 1977 come opera prima, questo libro appartiene alla specie, oggi rarissima, dei libri che provocano una sorta di innamoramento. La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il bisogno.

Bruce Chatwin nacque a Sheffield, nello Yorkshire nel 1940. Frequentò il Marlborough College, nello Wiltshire. Nel 1958, Chatwin iniziò a lavorare per la prestigiosa casa d'aste londinese Sotheby's.
All'età di 26 anni abbandonò il suo lavoro per paura di perdere la vista a causa di tanta arte. Chatwin cominciò quindi ad interessarsi di archeologia e si iscrisse all'Università di Edimburgo, che frequentò per diversi anni, pagando le rette e mantenendosi con la comprevendita di dipinti.
Lavorò in Afghanistan e Africa, dove sviluppò un forte interesse per i nomadi ed il loro distacco dai possedimenti personali.
Nel 1973, Chatwin fu assunto dal Sunday Times Magazine come consulente di arte e architettura. Il suo rapporto di lavoro con la rivista contribuì a sviluppare il suo talento narrativo e gli permise di compiere numerosi viaggi, dandogli la possibilità di scrivere degli immigranti algerini e della Grande Muraglia cinese, di intervistare personaggi come André Malraux in Francia e Nadezhda Mandel'shtam, nell'Unione Sovietica.
Verso la fine degli anni '80, Chatwin si ammalò di AIDS. Tenne nascosta la sua malattia, facendo credere che i sintomi fossero provocati da un un'infezione provocata da un fungo della pelle o dal morso di un pipistrello cinese. Morì a Nizza nel 1989, all'età di 48 anni.
Questa è la sua bibliografia essenziale: "In Patagonia", 1977, "Il Viceré di Ouidah" (The Viceroy of Ouidah), 1980, "Sulla collina nera" (On The Black Hill), 1982, "Le vie dei canti" (The Songlines), 1987, "Utz", 1988, "Che ci faccio qui?" (What Am I Doing Here), 1989, "Ritorno in Patagonia" (Patagonia Revisited) con Paul Theroux, 1986, "L'occhio assoluto" (Photographs and Notebooks), 1993, "Anatomia dell'irrequietezza" (Anatomy of Restlessness), 1997, "Sentieri Tortuosi" (Winding Paths), 1998.

 

3. "Le porte dell'Arabia" di Freya Stark

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Freya Stark negli anni '20 e '30 del secolo scorso percorse - a piede, a dorso di cavallo, cammello e asino, e con tutti gli altri mezzi localmente possibili - i territori medio-orientali dell'Islam, raccogliendo ogni sorta di materiale.
In questo libro racconta il viaggio avventurosissimo dal porto di Aden fin nel cuore dell'Hadramaut sulle tracce delle scomparse 'vie dell'incenso' e degli altrettanto scomparsi imperi mineo, sabeo, imiarita.
Viaggio che affronta da sola in quanto unico modo possibile per lo straniero di entrare in autentico contatto con un paese diverso e la sua gente.

Freya Stark è una donna giovane intraprendente: viaggia da sola, esplora, scrive. Una donna della prima metà del Novecento oggi considerata l’antesignana della letteratura da viaggio con i suoi scritti, la sua cartografia e le sue esplorazioni.
Nasce a Parigi nel 1893 da madre italo-inglese e padre inglese, vive per un periodo in Inghilterra e cresce ad Asolo, cittadina arroccata divenuta presto luogo ideale per una certa nobiltà inglese un po’ snob.
All’età di 4 anni, Freya decide che la casa dove abita le sta stretta, e scappa. Ma il suo primo viaggio finisce presto. Subito riportata indietro dai familiari, resterà in quella dimora per poco, perché viaggiare ed esplorare diventeranno la sua vita. 
Amante dei libri e della libertà, Freya assapora la voglia di sognare leggendo Le Mille e una Notte: il suo amore per il mondo arabo nasce così. Si dedica con passione alla lettura e alle lingue, italiano, francese, tedesco e arabo.
Il suo primo viaggio in Medio Oriente lo compie all’età di 35 anni. Fra il 1927 e il 1939 organizza spedizioni in Libano, Siria, Iraq, Persia, a cavallo di pony, cammelli, dromedari, muli.
Nel corso dei suoi viaggi, Freya perfeziona le mappe di aree poco conosciute, aggiorna la toponomastica e riscrive la geografia. Il viaggio per lei è puro piacere, divertimento, incontro con “il meglio della natura umana”: non ha paura dell’altro, dello straniero poiché “non esistono stranieri, ma solo sconosciuti”.
Il viaggio è per Freya motivo per scoprire, in solitudine, luoghi e persone. “Per viaggiare bisogna essere soli: se si va con qualcun altro tutto finisce in chiacchiere. Dobbiamo essere forti e aver fiducia nelle sorprese della vita”.
I suoi viaggi li compie da sola e a volte, accompagnata da una guida, in terre non sempre facili come l’Oriente o una parte d’Europa.
Nel 1993 Freya Stark compie il suo ultimo viaggio, quello dal quale non tornerà più, ma la sua passione vive attraverso la letteratura, che oggi l’ha riscoperta.

 

4. "Il leopardo delle nevi" di Peter Matthiessen

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Nella primavera del 1972, Peter Matthiessen si imbatte a New York nel celebre naturalista e zoologo George Schaller, che gli avanza subito una proposta.
Unirsi a lui, nell’autunno dell’anno successivo, per una spedizione fino al Nepal nordoccidentale, vicino alla frontiera tibetana, dove non è raro avvistare il più bello e più affascinante dei grandi felini: il leopardo delle nevi, il mitico animale di cui tutti parlano e che nell’ultimo quarto di secolo solo due occidentali, tra cui Schaller stesso, hanno visto davvero.
L’idea di visitare il Nepal, di approssimarsi passo passo alla più imponente catena montuosa del mondo, di arrivare alla Montagna di Cristallo e andare alla ricerca di una leggendaria creatura, è così allettante per Matthiessen che, il giorno di settembre del 1973 fissato per l’appuntamento con Schaller, si presenta puntualissimo, e perfettamente equipaggiato per la spedizione, all’albergo di Katmandu prescelto.
Pubblicato per la prima volta nel 1978, Il leopardo delle nevi è considerato da allora non soltanto uno dei grandi libri di viaggio di sempre.

  • «Un vero e proprio capolavoro della letteratura d’ogni tempo» - John Hillaby
  • «Un grande libro che compie un viaggio parallelo, accompagnando i passi fisici di un pellegrinaggio con i passi metafisici di una ricerca» - Pico Iyer

 

Peter Matthiessen (New York , 1924 - 2014), naturalista, esploratore, narratore, è nato a New York nel 1927 ed è morto a Sagaponack il 5 aprile 2014.
Negli anni Cinquanta è stato cofondatore della rivista letteraria statunitense Paris Review.
Le sue numerose spedizioni nelle aree più selvagge del mondo l’hanno condotto in Alaska, Asia, Australia, Oceania, Africa, Nuova Guinea e Nepal, memorabilmente descritti nei suoi libri: The Cloud Forest, Under the Mountain Wall, Blue Meridian, Killing Mr. Watson, At play in the Fields of the Lord, e, soprattutto, Il leopardo delle nevi.

 



5. "La polvere del mondo" Copertina di Nicolas Bouvier

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La polvere del mondo racconta il primo viaggio condotto da Bouvier in Oriente.
Nel 1953, quando con il suo amico pittore Thierry Vernet parte verso l'oriente, la guerra è ancora un avvenimento recente. L'Europa, (il mondo), ha appena cominciato la sua ricostruzione e il turismo di massa non è ancora stato inventato.
Il loro viaggio, a bordo di una topolino che in salita bisogna spingere, su strade difficili e sconosciute, ha ancora il sapore di esplorazione e di scoperta.
Con pochi soldi in tasca, i due cercano di racimolare il necessario vendendo, difficilmente, disegni e articoli per i giornali. Attraversano la Yugoslavia, la Grecia, la Turchia, l'Iran, il Pakistan, prima di separarsi, dopo un anno e mezzo, a Kabul.
Nel libro La polvere del mondo Nicolas Bouvier ritraccia il percorso in un racconto ricco di spunti e di riflessioni sul mondo che lo circonda ma anche su se stesso.
Il titolo originale L'usage du monde L'uso del mondo sottolinea anche le nozioni di conoscenza, apprendimento e approfondimento, di trasformazione nel rapporto verso l'esterno ma anche interiore: Crediamo di fare un viaggio, ma ben presto è il viaggio che ci fa, o ci disfa.
I panorami, i paesi, le città sono l'intelaiatura del racconto; descritti in dettagli più che in affreschi ma che, proprio per questo, sono più efficaci e parlanti. E i paesaggi non sono mai per Bouvier cartoline illustrate.
Sono però gli incontri, numerosi e differenti, la scoperta dell'altro, la chiave del libro. Innumerevoli ritratti di nomadi, contadini, viandanti, operai, avventurieri, europei sperduti nel cuore dell'Asia, sono tra le pagine più belle del libro.
Incontrare l'altro permette il confronto con il mondo, rimette in gioco le nostre certezze ma permette anche di ritrovare similitudini e somiglianze.
Il libro ha conosciuto in Francia un successo continuo, non per il suo fascino esotico, ma per il modo inimitabile in cui si fondono humor e angoscia, l'innocenza dello sguardo e il sapore della conoscenza, la visione cosmica e il "rapimento" di certi piccoli dettagli celati nella singolarità degli esseri e delle cose più ovvie e quotidiane.
Bouvier colpisce per la limpidezza e il calore della sua scrittura, a volte poetica, spesso avvolta da quella malinconia rassegnata di chi osserva una realtà distante e con quel pizzico di ironia – e nessun cliché!- che rende la narrazione intelligente, umana e sincera.

Nicolas Bouvier è uno scrittore, fotografo, editor di immagini e viaggiatore svizzero, nato 6 marzo 1929 in Grand-Lancy e morì 17 Febbraio 1998 a Ginevra.
L'ultimo nato della famiglia, il figlio di un bibliotecario Auguste Bouvier, studioso di letteratura della guerra di 30 anni e le università di Ginevra e Antoinette Maurice, si è la figlia del compositore Pierre Maurice.
Nel 1948, fu inviato in missione in Finlandia dal quotidiano La Tribune de Genève, e nel 1950, viaggiò nel Sahara algerino per il quotidiano Le Courrier.
Nel 1951 realizza il suo primo lungo viaggio, con Thierry Vernet e Jacques Choisy, Venezia a Istanbul. Questa spedizione porta a un po 'di lavoro: dodici incisioni Thierry Vernet. Tre testi di Nicolas Bouvier. Che sarà pubblicato da Kunding a trenta exmplaires.
Poi, nel giugno 1953 è tornato a Fiat Topolino con Thierry Vernet da Belgrado a Kabul attraverso la Jugoslavia, la Turchia, l'Iran e il Pakistan. Questa prima parte del viaggio è raccontata in The Way of the World, un libro di culto.
Dopo un anno e sei mesi di viaggio, i due amici separati, Thierry Vernet unendo il suo amante in Ceylon e Nicolas Bouvier singolo continuando il suo viaggio attraverso l'India per ottenere la Cina.
La strada è chiusa per motivi politici, ha vinto Ceylon dove malato e depresso, rimane sette mesi. Sarà descrivere questa esperienza in The Lionfish, pubblicato nel 1982, quasi 25 anni più tardi.
Nel 1958 sposò Eliane Petitpierre, federale figlia Assessore Max Petitpierre e nipote Denis de Rougemont a Neuchâtel; poi la coppia si stabilì a Cologny. al 1964-1965 alloggiano in Giappone con i loro due figli.
Altri viaggi in Asia o in Europa seguiranno. Nel 1968, Nicolas Bouvier è il destinatario di Rambert Price, il più antico premio letterario in Svizzera occidentale, gli viene assegnato da un comitato di studenti.
Nicolas Bouvier morì di cancro il 17 febbraio 1998. Fu sepolto a Cologny.

 






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