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5 tentazioni che ti rendono dipendente

Hai sempre voglia di cioccolata? Stai provando a smettere di fumare ma non ci riesci?

Stai lottando per mettere via il tuo smartphone? La scienza ti svela che cosa c’è dietro le dipendenze.

Ecco 5 tentazioni che ti rendono dipendente!

 

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1. Cibo

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Molti si descrivono come dipendenti “dal cioccolato”, oppure affermano di essere attratti da una particolare bibita gassata, ma è realmente possibile essere dipendenti dal cibo?

Il numero degli obesi è raddoppiato dal 1980. Nel 2014, più di 1,9 miliardi di persone adulte sono in sovrappeso. E, nel 2025, un quinto degli adulti in tutto il mondo sarà obeso.

I cibi ad alto contenuto di zucchero sono i principali responsabili di questo fenomeno e uno studio del 2013 svela come i biscotti Oreo (in vendita anche da noi) creino una dipendenza “simile alla cocaina”, almeno per i ratti. Ma possiamo anche noi essere dipendenti dal cibo? Prima di tutto analizziamo che cos’è la dipendenza.

I criteri per diagnosticare i disturbi da dipendenza, secondo la cosiddetta “bibbia della psichiatria”, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), includono lo sviluppo di una soglia di tolleranza verso determinate sostanze, i sintomi di astinenza e l’arrivo alla dipendenza.

Il coinvolgimento del cervello è la chiave che aiuta a diagnosticare la dipendenza. Le zone del cervello interessate sono connesse a quelle del piacere, che incide sul processo decisionale. Queste, inoltre, influenzano i neurotrasmettitori, i segnali chimici utilizzati nella comunicazione tra le cellule celebrali e le diverse regioni del cervello.

Col passare del tempo, l’abitudine a ricevere un determinato piacere o ricompensa (da cibo, sesso, alcool o droga) conduce a una risposta biologica, come ad esempio le cosiddette “voglie”.

Il miglior strumento utilizzato dai ricercatori per applicare queste conoscenze al cibo è lo YFAS, Yale Food Addiction Scale, la cosiddetta “scala di Yale” che misura la dipendenza da cibo.

Ashley Gearhardt, assistente nel laboratorio di Psicologia dell’Università del Michigan, partecipa allo sviluppo del YFAS dal 2009 e crede che i processi di dipendenza abbiano una parte attiva nei problemi di relazione con il cibo.

«Noi – dice – non utilizziamo il peso corporeo per identificare gli individui che potrebbero essere dipendenti dal cibo, piuttosto, utilizziamo gli stessi criteri che abbiamo usato per ogni altra dipendenza».

In un esperimento, Gearhardt ha mostrato ad alcuni soggetti foto di preparati, come ad esempio un frappè alla cioccolata, prima di farglielo assaggiare, e ha riscontrato che coloro che hanno maggiore dipendenza dal piacere “a tavola”, quando vengono messi davanti alle foto dei “cibi da dipendenza” hanno una maggiore attività nelle regioni del cervello collegate alla ricompensa e al desiderio, rispetto a quando vedono altre immagini.

Inoltre, chi ha una dipendenza dal cibo mostra un calo della risposta inibitoria dopo aver bevuto il frappè al cioccolato rispetto a quando ha consumato altri cibi dai quali non è dipendente.

Ma Hisham Ziauddeen, ricercatore che si è dedicato ai fenomeni di ricompensa da cibo all’Università di Cambridge, dichiara che lo YFAS stravolge alla base l’idea che la dipendenza da cibo sia una condizione medica. «Coloro che hanno un punteggio alto, ottengono molti punti anche in altri disordini alimentari convenzionali».

Alcuni ricercatori vanno oltre, e sostengono che la dipendenza da cibo è un messaggio potenzialmente pericoloso per la salute pubblica. Ian Macdonald, professore di Fisiologia metabolica dell’Università di Nottingham, sostiene che è arduo definire quella da cibo una dipendenza, in quanto è qualcosa che fa parte delle abitudini umane.

Alcool e droga sono essenzialmente delle scelte, mentre il cibo no. «Ognuno deve mangiare per sopravvivere, e quindi una dipendenza deve essere molto più estrema del normale mangiare per nutrirsi».

La grande questione è: possiamo dire che un alimento ci crea dipendenza se rafforza o indebolisce le nostre promesse di mangiare sano per il nuovo anno?

Il professor Peter Rogers, studioso di nutrizione, comportamento e controllo del cervello sull’appetito all’Università di Bristol, parla della dipendenza da “classificazione del cibo” come di una condizione che potrebbe avere effetti imprevedibili.

La sua ricerca, pubblicata nella rivista Appetite, ha osservato come la dipendenza da cibo influenzi le preferenze e le abitudini generali. Nello studio, 60 volontari leggono differenti “nuove storie” pubblicate da scienziati che hanno provato o smentito l’esistenza di una dipendenza da cibo, prima di fare una prova di degustazione sulle qualità salutari o meno di alcuni cibi.

«Tra coloro che hanno letto che la dipendenza da cibo era reale – ha spiegato Rogers– c’è stata un’interessante divisione. Alcuni hanno mangiato molto, altri molto poco. Questo risponde alla teoria secondo la quale molti pensano “non posso aiutare me stesso” e soccombono, mentre altri pensano “questi alimenti danno dipendenza” e si trattengono. Un’ulteriore implicazione è che più si legge a proposito della dipendenza da cibo, più si sviluppa una particolare mentalità».

Questo può suggerire un possibile trattamento per i problemi di sovralimentazione legato a un concetto di certi “cibi problematici” che bisognerebbe evitare. Prima di procedere con un possibile trattamento, ci deve essere un accertamento se la reale dipendenza da cibo esiste davvero, e se sì, da cosa viene determinata.

Inoltre, gli esperti sono ancora lontani da un accordo su questi punti. Chiaramente, certe persone desiderano alcuni cibi, ma non possiamo ancora capire checos’è che induce a queste voglie, o quale ricompensa ricevono le persone dal mangiare i cibi che desiderano. Perciò c’è ancora tanto da masticare.

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2. Droghe

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La scienza studia come le sostanze illegali creano dipendenza e come affrontare il problema.

Eroina. Ecstasy. LSD. Queste sono le droghe più diffuse, ma anche quelle che creano maggiore dipendenza.

Esse agiscono interferendo con i neurotrasmettitori– sostanze che trasmettono segnali al cervello– e i loro recettori. Questo causa un cambiamento del sistema cerebrale, che sviluppa ansia, malessere e che, per avere gli stessi effetti “piacevoli”, porta al bisogno di un sempre più alto dosaggio.

Inoltre alcune droghe possono avere violenti sintomi da astinenza, che vengono alleviati solo da un’assunzione maggiore. L’eroina è la droga che dà maggiore dipendenza. Essa imita gli effetti creati dalle endorfine nel cervello, l’oppioide naturale che induce il piacere e riduce il dolore.

Il cervello risponde riducendo la sensibilità e il numero dei suoi recettori oppioidi, così da rendere necessaria una maggiore quantità di droga assunta.

Nel tentativo di porre un limite attraverso una lenta disintossicazione, i ricercatori stanno studiano il modo di interrompere il flusso di memoria che conduce all’utilizzo della droga.

Nel 2013, uno studio di Courtney Miller, dello Scripps Research Institute di San Diego, cercò di aiutare i tossicodipendenti da metamfetamina attraverso la rimozione del ricordo dell’uso della droga.

I neuroni si collegano tra loro attraverso piccole strutture conosciute come spine dendritiche, dove si pensa che i ricordi siano fisicamente memorizzati.

Le strutture di questa spina sono mantenute da “impalcature” costituite da singole unità di actina, che forma lunghe catene che possono ingrandire le spine e conservare memorie attraverso la stabilizzazione specifica delle connessioni tra i neuroni.

«Con la sua memoria “a mulino” – spiega Miller – le unità individuali di actina circolano molto lentamente, una scende dall’alto mentre l’altra raggiunge il fondo. Ma con memorie formate quando prendiamo le metamfetamine, queste unità si muovono molto veloci, e le catene di actina cadono a pezzi. Per questopensiamo che potremmo mirare al ricordo associato alla droga e far sì che diventi un ricordo traumatico, in modo che il cervello usi un differente meccanismo di archiviazione».

 

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3. Internet & C.

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Molti esperti pensano che gadget elettronici, giochi e internet facciano emergere una tendenza alle dipendenze.

Era il 1995, lo psichiatra di New York Ivan Goldberg dichiarò in un post on line di avere scoperto una nuova dipendenza.

Una buona parte della popolazione aveva abbandonato i tradizionali rapporti sociali faccia a faccia in favore di lunghe sedute di fronte allo schermo di un computer, navigando infinitamente in rete e giocando on line. Egli soprannominò questa condizione “disturbo da dipendenza da Internet”.

Ma il post di Goldberg era una parodia intesa a fare satira sulla nostra ossessione sui comportamenti da dipendenza, classificando qualsiasi anormalità come una dipendenza. Nonostante questo inizio infausto, molti scienziati comportamentali sentirono che Goldberg aveva colpito nel segno.

Il disturbo da “dipendenza da Internet” non era elencato nelle ultime edizioni del manuale diagnostico di psichiatria, ma fu vista come una condizione che richiedeva ulteriori studi.

Il professor Mark Griffiths, psicologo della Nottingham Trent University nel Regno Unito, e Direttore della International Gaming Research Unit, ha studiato la dipendenza da Internet dal 1995. Egli crede che esista, ma vuole andarci cauto sul modo di classificare i diversi casi.

«I veri drogati di Internet – ha detto – sono pochi e diversi tra di loro. Questo non significa che non si usi eccessivamente la rete, ma l’eccesso è totalmente diverso dalla dipendenza. Ciascuno di noi può essere un dipendente dal gioco d’azzardo su Internet, dipendente dallo shopping su Internet, dipendente dal sesso su Internet, ma questo non significa che siamo dipendenti da Internet. Possiamo essere dipendenti dal gioco d’azzardo, dallo shopping o dal sesso. Internet è solo un mezzo per alimentare quei comportamenti per cui siamo già predisposti».

Con l’aumento del gioco d’azzardo e l’utilizzo di Internet, in particolare nelle giovani generazioni, la grande questione è come trattare coloro che sono veramente dipendenti. Alla Tavistock Clinic di Londra, Richard Graham si occupa degli adolescenti ossessionati dal gioco o dall’utilizzo di Internet.

«Certamente – spiega – vediamo modelli di comportamento che si adattano alla tipologia della dipendenza, ma io penso che ci siano complessità che hanno bisogno di essere esaminate meglio».

Per quanto riguarda il trattamento, Graham esegue una valutazione dei particolari bisogni del paziente, poi disegna un programma fatto di piccoli passi che faciliti il ritorno a una vita normale.

«In alcuni casi – dice– ho usato farmaci, perché ho prescritto sia antidepressivi che ansiolitici a pazienti passati dal gioco d’azzardo alla depressione, soprattutto se le cose andavano male nel gioco. A volte, però, dobbiamo essere abbastanza determinati e spegnere letteralmente il modem».

 

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4. Nicotina

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Come questa sostanza crea dipendenza al cervello e perché i fumatori combattono per smettere.

Il fumo è una delle cause principali di morte prematura negli Stati Uniti.

In media, 435 mila individui all’anno muoiono di malattie legate al fumo, e il 50% dei fumatori di lungo corso muore prematuramente. E allora perché si continua a fumare? Per molti, la risposta è nella dipendenza.

Quando le particelle di fumo vengono inalate nei polmoni, la nicotina viene rapidamente assorbita nel flusso sanguigno e, dopo l’inalazione, può raggiungere il cervello in 10 secondi, dove si lega ai canali ionici, consentendo il passaggio del sodio e del calcio.

Quando il calcio entra in un neurone, rilascia neurotrasmettitori, come la dopamina, che stimola una sensazione di piacere.

Per questo, nonostante sia noto che il tabacco è dannoso per la salute, dei milioni di fumatori che tentano di smettere ogni anno, meno del 7% ci riesce davvero.

 

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5. Sesso

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Pur essendo una facile scusa per l’infedeltà delle celebrità, gli scienziati non trovano un accordo se la dipendenza da sesso sia una specie di mito o se esista davvero.

Ipersessualità o comportamento sessuale compulsivo non sono attualmente catalogati nel DSM, il manuale ufficiale di diagnostica psichiatrica utilizzato in tutto il mondo.

Infatti, la ricerca sulle dipendenze sessuali è iniziata abbastanza di recente.

Nel 2013, uno dei primi studi del Dipartimento di Psichiatria dell’Università della California utilizzò un elettroencefalografo per analizzare le risposte cerebrali agli stimoli sessuali di chi lotta per controllare l’uso della pornografia online.

«L’ipersessualità non sembra avere altre spiegazioni se non un’alta attitudine alla libido», dichiarò Nicole Prause in Psychology Today.

Curiosamente, i risultati mostrarono come il cervello di un fruitore assiduo di porno online non risponde alle immagini sessuali nello stesso modo in cui il cervello di un tossicodipendente fa con le immagini delle droghe.

Ma un più recente, studio di Valerie Voon, dell’Università di Cambridge, dimostra esattamente l’opposto.

Le immagini della MRI (risonanza magnetica funzionale) mostrano che i video porno incrementano l’attività nelle regioni del cervello collegate alle emozioni e alla gratificazione, proprio come avviene nella dipendenza da droghe.

Perciò, sulla reale esistenza della dipendenza dal sesso, sembra che il verdetto sia ancora incerto. Come afferma Marc Potenza della Yale School of Medicine: «Sulla questione c’è ancora da studiare».

 

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