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Cassius Clay – Muhammad Ali: omaggio al pugile più famoso della storia

Muhammad Ali moriva esattamente un anno fa (3 giugno 2016) all’età di 74 anni a Phoenix (Arizona) in seguito a delle complicazioni respiratorie.

A un anno dalla morte, vogliamo rendere un piccolo omaggio al più grande campione di tutti i tempi, che imparò a tirare di boxe a 12 anni per vendicarsi di un furto subito.

Ma non era destinato solo a vincere sul ring: a 22 anni si convertì all’Islam, cambiò nome e si unì alla lotta per i diritti civili dei neri.

Ma chi era veramente Cassius Clay-Muhammad Ali? Scopriamolo insieme.

1. La prima Olimpiade a Roma

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Quello che sarebbe diventato il più famoso pugile della storia era nato a Louisville, Kentucky (Usa), il 17 gennaio 1942.

Suo padre si guadagnava da vivere dipingendo cartelloni pubblicitari e i suoi antenati venivano dal Madagascar, sua madre era afroamericana.

Nella sua autobiografia racconta che nell’inverno del 1954 gli fu rubata la bicicletta:
«Ero sconvolto e qualcuno mi indirizzò alla palestra di Joe Martin, un poliziotto che nel tempo libero insegnava ai ragazzi a tirare di boxe. Gli dissi che avrei voluto stendere chi mi aveva rubato la bici. Così mi iscrissi alla palestra e cominciai ad allenarmi con una gran voglia di vendetta».

Nella palestra Columbia Gym, Martin gli insegnò i fondamentali della “nobile arte”, com’è chiamato il pugilato, e il dodicenne Cassius mostrò subito di avere talento.

«Mi allenavo sempre», scrisse in seguito. «Ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via. La boxe mi tenne fuori dai guai: non ho mai cominciato a bere né a fumare».

Già da dilettante Cassius fece una carriera fulminante: a 18 anni aveva sostenuto 108 incontri, vincendo 6 Golden Gloves del Kentucky e 2 statunitensi. Il grande salto di qualità avvenne però nel 1960 con le Olimpiadi di Roma.

Il suo allenatore dovette faticare moltissimo a convincerlo a partecipare perché aveva paura di volare. Gareggiò nella categoria mediomassimi: iniziò il 30 settembre eliminando il belga Yvon Becaus.

Nel turno successivo incontrò il sovietico Gennadiy Shatkov, che nelle Olimpiadi precedenti aveva vinto l’oro nei medi ed era passato alla categoria superiore.

Di lui i tecnici russi scrissero: «Clay è alto, ha una struttura fisica magnifica, si muove con leggerezza e ha un eccellente senso della distanza». Infatti batté facilmente Shatkov, molto più basso di lui, tenendolo a distanza e colpendolo ripetutamente con i suoi allunghi.

Nella semifinale affrontò l’esperto australiano Tony Madigan: superato anche questo ostacolo, Cassius si trovò davanti il tre volte campione europeo Zbigniew Pietrzykowski.

Dopo due riprese noiose, Clay si scatenò: con un fantastico gioco di gambe disorientava l’avversario, bersagliandolo da tutte le direzioni. Pesto e sanguinante, Pietrzykowsky resistette a fatica fino al termine dell’incontro.

2. Patria razzista e il passaggio al professionismo

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Tornato a casa, Cassius ricevette gli onori della sua città e per qualche tempo credette che la sua vita sarebbe cambiata.

Girava tenendo sempre al collo la medaglia vinta a Roma che non toglieva neanche quando dormiva. Ma il razzismo era più forte.

Un giorno si sedette in un ristorante per bianchi e il proprietario si rifiutò di servirlo: «Avevo vinto la medaglia d’oro per l’America, ma non potevo sedermi a mangiare in un ristorante della mia città», ricordò più tardi.

«Avevo vinto la medaglia d’oro. Ma non significava niente perché la mia pelle non era del colore giusto». Si consolò passando al professionismo, con un contratto che gli garantiva un anticipo di 10mila dollari: una piccola fortuna per uno come lui.

Gli sponsor di Louisville volevano che si affidasse ad Archie Moore, un coach molto quotato. Ma Clay non volle saperne e preferì allenarsi per oltre vent’anni con Angelo Dundee, il quale riusciva a motivarlo senza intaccarne le peculiarità che lo rendevano unico.

Comprese quelle anticonvenzionali e “sbagliate”: Cassius, per esempio, aveva l’abitudine di avvicinarsi all’avversario tenendo le braccia penzoloni invece di alzare la guardia con i pugni all’altezza del volto. In questo modo disorientava l’avversario per poi sorprenderlo con colpi fulminei.

Incontro dopo incontro, le sue quotazioni salivano finché venne organizzato una gara con Sonny Linston, un ex galeotto in odore di mafia con mani così enormi che doveva usare guantoni realizzati apposta per lui. In palio c’era il titolo mondiale dei pesi massimi.

Tutti i pronostici erano contro Cassius: ben 43 giornalisti sportivi su 45 si dissero convinti della vittoria di Linston. Invece vinse Clay, capace di muoversi con straordinaria agilità per evitare i devastanti, ma lenti colpi dell’avversario.

La rivincita venne disputata un anno dopo e fu la fotocopia del primo incontro: anzi, Linston andò al tappeto dopo appena un minuto, colpito da un pugno così veloce che fu visto da pochi (divenne famoso come il “pugno fantasma”).

3. Conversione e lotta

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Subito dopo la conquista del titolo, Cassius Clay si convertì all’Islam e assunse il nome di Muhammad Ali.

E quando venne chiamato alle armi per la guerra nel Vietnam, rifiutò in nome della nuova fede:
«Tutti quelli che mi volevano bene cercavano di convincermi ad accettare l’arruolamento. Mi assicuravano che non sarei dovuto andare a combattere e a uccidere nessuno e che probabilmente avrei fatto solamente esibizioni qui negli Stati Uniti.
Ma mi rifiutai di fare il passo avanti, quando fui chiamato. Un ufficiale mi avvertì delle conseguenze, ma nulla mi avrebbe fatto cambiare idea. Se dovevo andare in prigione, ci sarei andato, perché se non avessi seguito le mie convinzioni, non sarei stato più libero».

Con questo gesto coraggioso l’ex ragazzone spaccone di Louisville divenne all’istante uno dei simboli del movimento nero e della lotta per la libertà: «Non ho niente contro i Vietcong, non mi hanno mai chiamato negro».

Dovette pagare un prezzo altissimo: il titolo di campione del mondo dei pesi massimi gli fu tolto. Le commissioni statali di tutto il Paese gli rifiutarono il permesso di combattere e perfino gli fu ritirato il passaporto perché non andasse a farlo all’estero.

Perse così gli anni migliori della sua carriera e per vivere dovette aprire un ristorantino. Nella foto a sinistra in alto, Muhammad Ali nel 1964 con Malcolm X, l’attivista americano con cui condivise la lotta per i diritti degli afroamericani.

4. La sua rivincita, il declino, la malattia, la morte

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Il ricorso di Muhammad contro il trattamento subìto venne accolto nel 1971 e fu immediatamente organizzato un incontro perché potesse riprendersi il titolo di campione del mondo.

L’8 marzo 1971 Ali incontrò Joe Frazier, ma per la prima volta in vita sua perse, sia pure ai punti: si rifece l’anno successivo, sconfiggendo lo stesso Frazier (nella foto a sinistra il primo KO per Muhammad Ali arriva l’8 marzo 1971 al Madison Squadre Garden di New York contro Joe Frazier. Ali si rialza, ma perde ai punti.).

Nel frattempo però il titolo era stato vinto da un altro pugile, George Foreman. Venne così organizzato un incontro tra i due per stabilire chi fosse il più grande. Si tenne il 31 ottobre 1974 a Kinshasa, Zaire.

Passato alla storia come The rumble in the jungle, la rissa nella giungla, fu uno dei più famosi incontri di boxe della storia. Anche questa volta, contro ogni pronostico, vinse Ali, consacrandosi definitivamente come uno dei più grandi pugili della storia.

L’ultimo confronto con Frazier doveva essere quello definitivo. Si svolse a Manila, nelle Filippine, il 1° ottobre 1975 e viene considerato uno dei match più violenti della storia: alla quattordicesima ripresa vinse Ali, il quale, in seguito, ammise che non sarebbe riuscito a sostenere un’altra ripresa.

Dopo il 1975 iniziò un lento declino. Ali rallentò la sua azione, un tempo così fulminea. Dal 1977 non riuscì più a mettere Ko i suoi avversari. Perse il titolo nel 1978 ai punti contro Leon Spinks, riconquistandolo però nella rivincita.

Annunciò il ritiro, ma tentò un ritorno nel 1980 e nell’81, perdendo contro Larry Holmes e Trevor Berbick. A questo punto si ritirò definitivamente. Nel 1984 gli fu diagnosticato il Parkinson.

Nel 1996 fu l’ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta; nel 2012 riuscì ancora a portare la bandiera americana alle Olimpiadi di Londra. È morto il 3 giugno 2016, a 74 anni di età.





5. Lo scontro più famoso passò alla storia come “la rissa nella giungla”

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  • Lo scontro più famoso passò alla storia come “la rissa nella giungla”
    The rumble in the jungle: così venne chiamato l’incontro tra Foreman e Mohammad Ali a Kinshasa nel 1974.
    Tutti i pronostici erano contro di lui, di 7 anni più anziano dell’avversario, ma Ali vinse dimostrando una grande abilità tattica: nel primo round attaccò Foreman, provocandolo.
    In quelli seguenti, invece, si chiuse in difesa, rinunciando apparentemente al suo movimento di gambe e lasciandosi andare contro le corde del ring per ammortizzare l’urto dei colpi che subiva.
    Non appena Foreman gli si avvicinava a testa bassa, lui lo bloccava e muovendosi continuamente con il busto e con la testa, evitava quasi sempre i terribili colpi diretti al volto, mentre con i guantoni e gli avambracci parava quelli al corpo.
    Così Foreman si stancava tirando a vuoto oppure si ritrovava avvinghiato ad Ali che gli bloccava il collo.
    All’ottavo round quando Foreman ormai si muoveva a fatica, Ali piazzò improvvisamente una combinazione di colpi: con un gancio di sinistro gli fece alzare la testa esponendolo al diretto finale che lo mandò Ko.
    Dieci minuti dopo la fine del match un violento uragano distrusse la struttura che ospitava il ring.

 

 

  • Dalla “danza” sul ring a una potenza esplosiva
    Nella prima fase della sua carriera, lo stile pugilistico di Ali era caratterizzato da una grandissima abilità nei movimenti di gambe, che gli permettevano di disorientare gli avversari girando loro attorno, allontanandosi o avvicinandosi prima che potessero reagire.
    Dopo il ritiro della licenza e il successivo reintegro, però, questa mobilità si appannò e quindi il campione dovette ricorrere alla sua capacità di mettere a segno colpi pesanti e di incassarne, come dimostrò nel corso del match di Kinshasa.








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