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Charles Lindbergh: la leggenda dell’aviazione

Charles Lindbergh sognava di volare fin da bambino.

Grazie a capacità fuori dal comune, riuscì nel 1927 a diventare il primo uomo a trasvolare l’Oceano Atlantico in solitaria.

Ecco la storia della sua vita e di come presto la felicità lasciò il posto alla disperazione.

1. I primi anni

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Parigi, 21 maggio 1927. Alle 22, ora locale, atterrò all’aeroporto di “Le Bourget” un piccolo aereo monoposto dal nome che sarebbe diventato presto celebre, “Spirit of St. Louis”.

Ne scese un pilota con il viso stravolto dalla stanchezza. Aveva effettuato 33 ore di volo ininterrotto. Desiderava una sola cosa: dormire.

E invece la sua attenzione venne destata da clamori in lontananza, che via via si facevano più nitidi e che sembravano proprio rivolti a lui. Sul momento restò stupefatto. Venne rapidamente circondato da centinaia, migliaia di persone entusiaste che lo acclamavano e lo applaudivano.

La polizia dovette intervenire per evitare che venisse sommerso dalla moltitudine. Il pilota in realtà era convinto che il suo volo non fosse stato seguito così da vicino. Invece il mondo intero aveva trepidato per il suo exploit.

Le navi, che l’avevano scorto nel cielo, avevano segnalato la sua rotta e i parigini erano perfettamente al corrente del suo folle progetto fin nei minimi dettagli.

Così Charles Lindbergh venne accolto quel giorno da una folla in visibilio e da un nugolo di fotografi, giornalisti, cronisti della radio e operatori di cinema. Tutti in prima fila per non perdere lo straordinario e storico scoop.

Era stato infatti il primo uomo a compiere in solitaria il volo diretto New York-Parigi.

Un’impresa che aveva dell’incredibile, se si pensa al piccolo aereo utilizzato: un monoposto (8 metri di lunghezza e 14 di apertura), dotato di un motore Wright di soli 220 cavalli che viaggiava a una velocità media di 160 chilometri orari.

Proprio con quel velivolo Lindbergh aveva attraversato l’Oceano Atlantico, aveva aperto una nuova rotta e accorciato le distanze tra l’America e l’Europa.

Ma chi era questo giovane pilota (aveva appena 25 anni), altissimo (1,90 metri), dagli occhi azzurri che tradivano la sua origine nordica, bello come un divo del cinema, dall’andatura dinoccolata e dai modi semplici?

Nato a Detroit nel 1902, era il nipote di uno svedese emigrato negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo. A Charles la scuola non interessava molto. Guardava sempre il cielo. Era attratto dagli uccelli.

Li osservava per ore chiedendosi se anche gli uomini sarebbero stati in grado, un giorno, di imitarli. I genitori avrebbero voluto che facesse l’ingegnere meccanico, ma lui aveva ben altri progetti, soprattutto dopo aver provato l’ebbrezza del volo a bordo di un biplano per battesimi dell’aria al costo di un dollaro.

Abbandonò presto gli studi universitari e si iscrisse alla Scuola della Nebraska Aircraft Corporation per diventare pilota. Era il suo sogno. Si impegnò dunque al massimo, diventando il numero uno. Sperimentò atterraggi forzati, sfiorò la morte diverse volte senza mai avvertire paura.

Per lui l’aviazione era una sorta di missione per la quale voleva essere preparato anche sul piano fisico, come un atleta di alto livello: non fumava, non beveva, non consumava caffè. Uno stile di vita perfettamente sano.

Nel 1925 si stabilì a Saint-Louis, nello Stato del Missouri, dove partecipò spesso ai meeting aerei che venivano organizzati. Per mantenersi accettò un posto nella compagnia che assicurava il collegamento postale aereo tra Saint-Louis e Chicago.

Diventò anche pilota collaudatore, affrontando senza troppe esitazioni tutti i rischi che un tale incarico comportava: subì diversi incidenti e visse situazioni davvero rischiose, ma niente poteva fermare Charles Lindbergh.

Anzi l’idea di attraversare l’Oceano Atlantico, sulla mitica e ancora inviolata rotta New York-Parigi, gli cominciò a frullare nella testa proprio mentre trasportava, in voli di routine e senza gloria, sacchi di posta.

2. Missione (im)possibile

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Per tentare questa impresa il primo problema da porsi era, ovviamente, trovare l’aereo giusto. E, soprattutto, recuperare i soldi necessari.

Occorreva evidentemente scegliere uno sponsor generoso, interessare un costruttore al suo progetto e convincerlo che lui, un giovane di soli 23 anni, sarebbe stato capace di arrivare dove non erano riusciti nemmeno piloti ben più anziani ed esperti.

Del resto Charles aveva già le idee molto chiare. Non voleva sovraccaricare l'aereo e quindi aveva subito scartato l'idea di dividere l'impresa con un co-pilota.

Non voleva poi rischiare la vita di nessuno, se non la sua. Così fece tutto da solo, seguendo una precisa strategia: ridurre al minimo il peso e caricare il massimo di carburante.

Poi arrivò l’occasione giusta. Un ricco e famoso imprenditore, appassionato di aviazione, Raymond Orteig, lanciò una sfida: il primo pilota che avesse realizzato il volo diretto New-York Parigi avrebbe vinto la consistente somma (per l'epoca) di 25mila dollari. 

Charles dunque si iscrisse e la sua candidatura venne accettata. Ma i tempi stringevano e lui doveva partire da zero.

Riuscì quindi a interessare il Club Aeronautico di Saint-Louis, strappando una sponsorizzazione, e coinvolse con il suo entusiasmo anche una piccola società di San Diego, la Ryan Air Lines, per la costruzione dell’aereo. Si trattava di un modello concepito specificatamente per Lindbergh e realizzato secondo le sue precise indicazioni.

Doveva essere il più leggero possibile: sedile in vimini, nessun paracadute né radio né indicatore di carburante e nemmeno attrezzature per il volo notturno. Charles era convinto che gli sarebbero bastati cinque panini e un litro d’acqua. E al polso uno speciale orologio che aveva progettato da solo.

Se a quell’epoca i piloti, per tenere sotto controllo la rotta, usavano il sestante per ottenere latitudine e un orologio di precisione per determinare la longitudine, Lindbergh voleva invece semplificare queste operazioni: ideò un orologio con i secondi al centro e il cui quadrante comprendeva anche la suddivisione in gradi e minuti d’arco.

Il che facilitava molto il calcolo della longitudine. Charles, insomma, aveva proprio la genialità, il talento e il coraggio di un grande avventuriero. Di un uomo che sarebbe entrato nella leggenda.

Nella foto sotto Lo Spirit of St. Louis esposto al National Air and Space Museum di Washington.

3. Oneri e onori

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Finalmente lo “Spirit of St. Louis” (così aveva chiamato il suo aereo) decollò da San Diego il 10 maggio 1927 per raggiungere New York, la base di partenza alla volta di Parigi.

Dieci giorni dopo, alle 3 del mattino, Charles, fiducioso e solitario, si alzò in volo per compiere la sua memorabile impresa.

Tutto procedeva secondo le previsioni. “L’America del nord e le sue isole sono ora dietro di me, l’Irlanda si trova a 3.200 chilometri davanti”, scrisse nel suo diario di bordo.

Intanto le ore di volo si succedevano senza scosse. Alla diciannovesima annotò: “Ho percorso 2.895 chilometri, me ne rimangono altrettanti, sono a metà del viaggio”.

Il problema principale da affrontare in realtà era il sonno. La notte precedente la partenza non aveva praticamente dormito, tanta era l’eccitazione della vigilia. Così, durante la traversata, la voglia di chiudere gli occhi diventava a momenti irresistibile.

Dopo venti ore di navigazione si ritrovò in un vago stato di veglia. A volte perse il controllo dei comandi e solo i sobbalzi dell’aereo lo destarono.

Alla ventitreesima ora di volo iniziò ad avere delle allucinazioni, come un uomo perduto nel deserto. Credette di intravedere la terra, ma sotto di lui, a sud della Groenlandia e dell’Islanda, c’era solo la distesa blu dell’Oceano Atlantico.

Alla venticinquesima ora di volo, seduto scomodamente sul suo sedile in vimini e quasi incastrato nel piccolo cockpit con il suo metro e novanta di altezza, cominciò a sentire i crampi muscolari.

Cercò allora di fare una singolare ginnastica fatta di movimenti delle gambe e ripetuti calpestii. Nella cabina di pilotaggio, inoltre, iniziò a fare caldo, molto caldo.

Scese quindi di quota fino a trenta metri dal mare, affacciandosi dal cockpit per respirare a pieni polmoni l’aria frizzante dell’Oceano e tornare così lucido.

Alla ventisettesima ora apparve il primo gabbiano, la prima nave, il primo peschereccio: la meta si avvicinava sempre di più. Dopo trentatré estenuanti ore di volo Charles Lindbergh aveva vinto la sua sfida.

Si era pienamente guadagnato i 25mila dollari del premio Orteig. Aveva dimostrato che era possibile volare senza scalo dall’America all’Europa, aprendo inedite prospettive per l'aviazione civile.

Dopo questa impresa Charles fu al centro dell’attenzione mediatica. Lui però era riservato, non amava le manifestazioni ufficiali e i “fan” che lo inseguivano ovunque.

Cercò per quanto possibile di schivare i grandi eventi organizzati in suo onore. A malincuore partecipò alla grande parata per le strade di New York il 13 giugno del 1927: quel giorno quattro milioni di persone lo acclamarono come un eroe, lungo la Fifth Avenue.

Negli anni successivi Lindbergh avrebbe voluto solo starsene tranquillo e godersi il frutto della sua vittoria. Ma il fato gli stava riservando una terribile sorpresa, che lo avrebbe riportato, ancora una volta, sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.

Nella foto sotto Lindbergh (qui a San Diego, in California) era molto riservato e riduceva al minimo le celebrazioni pubbliche.

4. Un tragico destino

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Nel 1929 Lindbergh si era sposato con Anne Morrow, figlia dell’ambasciatore statunitense in Messico. Erano molto felici.

Anne imparò persino a pilotare per accompagnare il marito nei suoi voli. Nel 1931 nacque il primo figlio della coppia, Charles Augustus.

Era biondo come un angelo e in lui si indovinava la dolcezza della madre e il carattere risoluto del padre. Ma Charles Augustus non sarebbe mai diventato un uomo.

Alle ore 23 del 1° marzo 1932, nella villa che i Lindbergh possedevano a 60 chilometri da New York, il piccolo venne rapito. Immediatamente il caso saltò agli onori della cronaca.

Ancora una volta Charles fu alle prese con reporter, giornalisti, fotografi, cineoperatori, ammiratori e curiosi. Malgrado il coinvolgimento del Federal Bureau of Investigation di J. Edgard Hoover e il pagamento del riscatto richiesto, il bambino fu ritrovato senza vita, con un grosso ematoma sulla testa.

Probabilmente morì pochi istanti dopo essere stato prelevato a causa della caduta del rapitore, che aveva dovuto usare una lunga scala per accedere dall’esterno alla camera da letto del piccolo. La disperazione della famiglia fu immane.

Lindbergh cercò di sfuggire sempre più alla notorietà, tentando di farsi dimenticare per celare il suo dolore e lontano da flash e cineprese. Si buttò allora in altre attività. Scrisse, con Alexis Carrel, un libro sulla biologia e sull’embriologia.

Si impegnò anche nella realizzazione di un apparecchio destinato a far funzionare artificialmente il cuore con la circolazione extra-corporea. Nel 1938 si recò in Germania dove venne accolto con entusiasmo dai massimi dirigenti della Luftwaffe.

Il viaggio fu molto criticato negli Stati Uniti, così come non vennero apprezzate le sue decise prese di posizione isolazioniste.

Dopo l’attacco di Pearl Harbor, tuttavia, Lindbergh non esitò a mettersi a disposizione dell’aeronautica militare americana, ma le sue precedenti dichiarazioni, che non erano affatto piaciute al presidente Franklin Delano Roosevelt, non erano state dimenticate. Gli vennero così affidate solo missioni di carattere civile nel Pacifico.

Dopo la guerra cessò di interessarsi agli aerei per concentrarsi sullo studio degli uccelli e sulla protezione della natura in Africa, in Oriente, negli Stati Uniti. La sua esistenza si trasformò in una sorta di vagabondaggio.

Charles si dedicò anche alla letteratura e alla scrittura, arrivando a vincere nel 1954 il premio Pulitzer per il suo libro di memorie The Spirit of St. Louis.

Un breve ritorno alla popolarità lo ebbe nel 1957, quando Hollywood si impossessò della sua storia e trasse dal suo libro di memorie un film indimenticabile: L’aquila solitaria, di Billy Wilder, con James Stewart nel ruolo del protagonista.

Quando nel 1974 un cancro se lo portò via, viveva sull’isola di Maui, alle Hawaii. Lì aveva l'abitudine di trascorrere lunghi periodi in una casetta isolata, senza elettricità, di fronte al mare, orgoglioso e indipendente come in fondo era sempre stato.

La moglie, che nonostante diverse crisi coniugali non si era mai separata da lui (sopravvisse fino al 2001), commentò amaramente di essere stata abituata per decenni dal marito a una vita da vedova.

Nella foto sotto Lindergh esce dal tribunale dopo aver raccontato di aver pagato un riscatto di 50mila dollari per riavere il figlio rapito.





5. Il caso del piccolo Lindbergh

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Il rapimento del figlio di Lindbergh suscitò un tale impatto sull’opinione pubblica americana, che presto venne varata una legge che puniva con la pena capitale il reato di rapimento (Federal Kidnapping act).

Nella culla di Charles Augustus il padre trovò un biglietto, scritto in un inglese approssimativo, in cui veniva richiesto una riscatto di 50mila dollari, specificando anche i tagli delle banconote. Lindbergh si affrettò a pagare. Inutilmente.

Molti aspetti di questa vicenda non vennero mai completamente chiariti. Tra questi il suicidio della cameriera sospettata di essere in contatto con i rapitori.

Ma soprattutto, l’identità del colpevole del rapimento. Fu arrestato un certo Bruno Hauptmann, un immigrato tedesco con qualche precedente penale, che parlava male l’inglese e faceva il falegname (quindi, avrebbe potuto lui stesso costruire la scala utilizzata).

Venne peraltro colto in flagranza di reato mentre smerciava un biglietto di dieci dollari numerato dalla polizia per il pagamento del riscatto. A casa sua, inoltre, vennero trovati 30mila dollari, di cui molti numerati.

Che quest’uomo insomma fosse implicato nell’affaire fu evidente, tuttavia l’interessato negò sempre di essere l’autore dell’odioso crimine. Forse fu solo un complice.

Il tribunale però, ritenendo coerenti le prove portate dal Federal Bureau of investigation, lo condannò a morte. La sentenza venne eseguita il 3 aprile 1936.

Tuttavia, dopo la sua morte, giornalisti ed esperti indipendenti sollevarono parecchi dubbi sulla sua colpevolezza e sull’accuratezza delle indagini, arrivando a ipotizzare “manomissioni” delle prove.

Secondo la tesi degli “innocentisti”, insomma, il Federal Bureau aveva tra le mani il colpevole “ideale” e lo utilizzò per chiudere in fretta un caso che aveva già suscitato tanto clamore.

Il processo non fu mai riaperto, nonostante le insistenze della vedova Hauptmann.








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