Lo scontento popolare dovuto alla crisi economica del primo dopoguerra, alla disoccupazione, ai conflitti sociali, alla delusione per il tradimento delle promesse fatte ai reduci di guerra, portò al crollo dello stato liberale ponendo le premesse per un regime autoritario, il fascismo. Il fascismo è nato il 23 Marzo 1919, a Milano e fondato da Benito Mussolini, ex socialista espulso dal partito.
In un articolo non firmato (ma probabilmente scritto da Luigi Salvatorelli, celebre storico e giornalista italiano), pubblicato dal giornale antifascista «La Stampa» il 18 luglio 1922, la vocazione dittatoriale del Partito fascista era chiaramente percepita:
"Il fascismo è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica. Il mezzo essenziale per riuscirvi è, nel programma e nello spirito dei capi e dei seguaci, la completa soppressione di tutte le libertà costituzionali pubbliche e private, che è quanto dire la distruzione dello Statuto e di tutta l’opera liberale del Risorgimento italiano. Quando la dittatura fosse stabilita in modo che non una istituzione potesse esistere, non un atto compiersi, non una parola pronunciarsi se non di totale dedizione e obbedienza al fascismo, allora questo sarebbe disposto a sospendere l’uso della violenza, per mancanza di obiettivo, riservandosi sempre di riprenderlo al primo cenno di rinnovata resistenza".
Ma vediamo 5 tra i momenti più importanti di questo regime nazionalista, autoritario, totalitario, razzista e imperialista, deciso a distruggere la civiltà democratica e liberale, proponendosi come una alternativa radicale ai principi di libertà e di eguaglianza dei diritti dell’uomo e del cittadino.
1. Le origini
Le origini del fascismo vanno cercate nel processo di crisi e di trasformazione della società e dello Stato, iniziato in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento, con l’avvio dei processi di industrializzazione e di modernizzazione, accompagnati da fenomeni di mobilitazione sociale, che coinvolsero il proletariato e i ceti medi, e diedero un forte impulso alla politicizzazione delle masse negli anni che precedono la Grande Guerra.
Il fascismo nacque dopo la prima guerra mondiale, ma alcuni motivi culturali e politici, che contribuirono alla sua formazione, sono presenti già in movimenti radicali di destra e di sinistra, come il nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo, sorti prima del fascismo. Questi movimenti, pur con ideologie diverse e contrapposte, avevano in comune la visione della modernità come esplosione di energie umane e conflitto di forze collettive, organizzate in classi o nazioni, e l’attesa di un’incombente svolta storica, che avrebbe segnato la fine della società borghese liberale e l’inizio di una nuova epoca.
In senso propriamente politico, questi movimenti radicali e rivoluzionari condividevano:
- il mito della volontà di potenza;
- l’avversione per l’egualitarismo e l’umanitarismo;
- il disprezzo per il parlamentarismo;
- l’esaltazione delle minoranze attive;
- la concezione della politica come attività per organizzare e plasmare la coscienza delle masse;
- il culto della giovinezza come nuova aristocrazia dirigente;
- l’apologia della violenza, dell’azione diretta, della guerra e della rivoluzione.
Le condizioni per la nascita e il successo del fascismo furono poste dal conflitto mondiale e dagli sconvolgimenti economici, sociali, politici, culturali e morali, che la guerra provocò e che accelerarono violentemente la trasformazione della società e la crisi dello Stato liberale, suscitando, sia a destra che a sinistra, nuove forze antiliberali e antiparlamentari, che dall’esperienza della guerra e della rivoluzione bolscevica avevano tratto modelli nuovi di organizzazione e di lotta politica. Furono queste nuove forze gli artefici principali della decadenza finale del regime parlamentare.
Nonostante i propositi di rinnovamento, la classe dirigente liberale fu incapace di far fronte all’irruzione delle masse nella politica, alla gravissima crisi economica e alle tensioni sociali durante il cosiddetto “biennio rosso” (1919-20), quando esplose un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva adottato nel 1919.
Lo Stato liberale, che aveva superato con successo la prova della guerra, non resse tuttavia alle tensioni e ai conflitti della nuova politica di massa. Dal 1919 al 1922, la rapida successione di governi deboli, privi di solida base nel Parlamento e nel paese, favorì la diffusione della sfiducia verso lo Stato liberale anche fra la classe borghese e i ceti medi, che fino ad allora lo avevano sostenuto, rendendoli così disponibili per nuove politiche autoritarie contro la minaccia di una rivoluzione socialista.
Le elezioni politiche nel novembre 1919, dopo l’adozione del sistema proporzionale, segnarono la fine dell’egemonia parlamentare del liberalismo e il successo del Partito socialista e del Partito popolare, i quali erano del tutto estranei alla tradizione risorgimentale con la quale si identificava la classe dirigente liberale.
Inoltre, contro lo Stato liberale scesero in campo nuovi movimenti politici che si richiamavano all’interventismo e al mito dell’esperienza di guerra, come il sindacalismo nazionale, il Partito futurista, l’arditismo, il fiumanesimo: essi si consideravano avanguardie della “rivoluzione italiana” che avrebbe realizzato l’integrazione delle masse nello Stato e la nazionalizzazione delle classi, portando al potere la nuova “aristocrazia del combattentismo”.
Nell’ambito di questi movimenti sorsero nel 1919, per iniziativa di Benito Mussolini, i Fasci di combattimento.
2. La nascita del movimento fascista
Il termine “fascismo” derivava dal simbolo romano del fascio littorio (i "fasces lictoriae" erano, nell'Antica Roma, l'arma portata dai littori che camminavano davanti al rex e lo proteggevano con bastoni, e che consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno ad un'ascia), che era tornato in voga dopo la rivoluzione americana e la rivoluzione francese.
Nella sinistra italiana, il termine “fascio” era usato comunemente per definire un’associazione senza strutture di partito. La parola “fascista” fu usata, probabilmente per la prima volta, alla fine dell’Ottocento, con riferimento ai moti contadini dei Fasci siciliani.
La ritroviamo ancora, prima della nascita del fascismo mussoliniano, in un articolo di Piero Gobetti del dicembre 1918, ma riferita al Fascio parlamentare, il raggruppamento di deputati e senatori antigiolittiani costituitosi all’indomani della disfatta di Caporetto.
L’espressione “movimento fascista” appare nell’aprile 1915 su «Il Popolo d’Italia», per definire un’associazione di tipo nuovo, l’antipartito, formato da spiriti liberi di militanti politici che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito. Con questo stesso carattere furono creati i Fasci di combattimento.
Il movimento fascista nacque come antipartito per mobilitare i reduci al di fuori dei partiti tradizionali. Il fascismo “diciannovista”, come venne poi definito, si proclamava pragmatico e antidogmatico, anticlericale e repubblicano; proponeva riforme istituzionali, economiche e sociali molto radicali.
I fascisti disprezzavano il Parlamento e la mentalità liberale, esaltavano l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la politica della piazza per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e per combattere il bolscevismo e il Partito socialista. Per tutto il 1919 e gran parte del 1920, tuttavia, il fascismo rimase un movimento trascurabile.
Nel primo congresso nazionale dei Fasci (Firenze, 9-10 ottobre 1919) gli iscritti erano poche centinaia, sparsi nell’Italia settentrionale, con rarissime presenze nell’Italia centrale e nel Sud. L’insuccesso del movimento fu confermato dalla disfatta nelle elezioni politiche del novembre 1919: alla fine dell’anno, in tutta Italia si contavano 37 Fasci con 800 iscritti.
Dopo la sconfitta elettorale, il fascismo iniziò un cambiamento di rotta, che fu sancito al congresso nazionale di Milano (24-25 maggio 1920), abbandonando il programma radicale del 1919 per riproporsi, con una conversione a destra, come organizzazione politica della borghesia produttiva e dei ceti medi che non si riconoscevano nei partiti tradizionali e nello Stato liberale.
3. Il regime fascista
La trasformazione del sistema politico italiano in un nuovo regime a partito unico avvenne attraverso una specie di “rivoluzione legale”, cioè con l’approvazione, da parte del Parlamento dominato dai fascisti, di un complesso organico di leggi autoritarie, elaborate in gran parte dal giurista Alfredo Rocco, l’architetto dello Stato fascista, con le quali venne distrutto il regime parlamentare, pur rimanendo apparentemente intatta la facciata della monarchia costituzionale fondata sullo Statuto del 1848.
Con le leggi del 24 dicembre 1925 e del 31 gennaio 1926, fu affermata la supremazia del potere esecutivo e la subordinazione dei ministri e del Parlamento all’autorità del capo del governo, nominato dal re e responsabile solo verso di lui per l’indirizzo politico del governo. Anche l’ordinamento dell’amministrazione locale fu trasformato secondo il principio autoritario, con la legge del 4 febbraio 1926, che pose a capo del comune il podestà, nominato con decreto reale e rigidamente subordinato al prefetto, i cui poteri furono notevolmente accresciuti con la legge del 3 aprile 1926.
La libertà di organizzazione fu abolita dalla legge del 26 novembre 1925 sulla disciplina delle associazioni: alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati del Partito comunista (9 novembre). Molti antifascisti fuggirono all’estero, dove riorganizzarono la lotta contro il nuovo regime, in collegamento con gruppi che continuarono a operare in Italia, cercando di mantenere viva una qualche attività clandestina di opposizione.
La stampa venne fascistizzata, i giornali di opposizione furono soppressi o cambiarono proprietà e si allinearono alle direttive fasciste. Nessuna forma di critica al governo, allo Stato e ai loro rappresentanti era consentita dopo la legge del 25 novembre 1926, che reintrodusse la pena di morte per i reati contro «la sicurezza dello Stato» e istituì un Tribunale speciale, formato da ufficiali della Milizia e delle Forze armate, per giudicare i delitti contro lo Stato e il regime.
Fra il 1928 e il 1932 il Tribunale speciale inflisse nove condanne a morte per reati politici, di cui 5 a carico di nazionalisti slavi accusati di terrorismo, e nessuna fino al 1941. Inoltre il Tribunale fra il 1928 e il 1943 giudicò 5.319 imputati, di cui 5.155 furono condannati per un totale di 27.735 anni di prigione, fra cui 7 condanne all’ergastolo. Circa 15 mila italiani, fra il 1926 e il 1943, furono inviati al “confino”, cioè condannati alla perdita del lavoro e al domicilio coatto in paesi lontani dalla loro abituale abitazione.
Dal 1922 al 1943, la polizia aprì 114.000 nuovi fascicoli di “sovversivi” nei quali erano inclusi gli antifascisti militanti, i loro familiari e i potenziali oppositori. Nella fase dell’accelerazione totalitaria, fra il febbraio e il novembre 1938, furono adottati anche i provvedimenti antisemiti, culminati nella promulgazione delle leggi antiebraiche (17 novembre 1938).
Il razzismo non era estraneo alla cultura politica fascista, che aveva manifestato fin dalle origini una speciale attenzione per la “difesa della sanità della stirpe” nell’ambito di un generale progetto di una rivoluzione antropologica per rigenerare il carattere degli italiani, per creare una nuova razza di dominatori e di conquistatori.
Dal 1938, l’Italia divenne ufficialmente uno Stato antisemita: gli ebrei italiani, circa 50 mila, furono discriminati e messi al bando dalle istituzioni statali, dalla scuola, dalla vita pubblica. Questa discriminazione fu una premessa per una più spietata persecuzione, quale fu messa in pratica più tardi nella Repubblica sociale.
4. La Repubblica sociale e il crollo del fascismo
Dopo la liberazione di Mussolini dalla prigionia, Hitler ha voluto la creazione di un nuovo Stato fascista denominato Repubblica sociale italiana o più comunemente Repubblica di Salò (13 settembre 1943 - 25 aprile 1945).
Questo nuovo Stato fascista fu un estremo tentativo per ridare vita al fascismo riconducendolo alle sue origini repubblicane. La nascita della repubblica fascista, dopo la resa incondizionata dell’Italia agli alleati anglo-americani (8 settembre) e la fuga del re al Sud, provocò il crollo dello Stato unitario e l’inizio della guerra civile fra gli italiani aderenti alla Repubblica sociale, organizzati in varie formazioni armate e gli italiani, organizzati nelle formazioni partigiane della Resistenza e nell’esercito monarchico ricostituito con il Regno del Sud.
Lo Stato fascista repubblicano, governato da un duce che si considerava politicamente defunto ma che non aveva rinunciato al ruolo di capo e di arbitro, era un coacervo di forze e di istituzioni che rivaleggiavano fra di loro, sia sul piano politico sia sul piano militare, ed era subordinato al potente alleato, che agiva da padrone e governava direttamente ampie porzioni del territorio italiano del Nord-Est.
Fra gli aderenti volontari alla Repubblica sociale vi furono vecchi e nuovi fascisti, spinti da motivazioni differenti: per semplice patriottismo, per fedeltà personale a Mussolini o per convinzione ideologica. Nel fascismo di Salò riemersero e si imposero i gruppi più intransigenti e più violenti del fascismo totalitario, riorganizzati nel Partito fascista repubblicano guidato da Alessandro Pavolini; aderirono anche intellettuali, funzionari, militari, giovani e adolescenti di entrambi i sessi, allevati nella pedagogia totalitaria, infervorati dei miti del fascismo repubblicano o mossi da un patriottismo romantico, per riscattare l’“onore della patria”.
Furono esaltati gli aspetti irrazionali e mistici che erano tipici della religione politica fascista, come la sfida alla morte, l’etica del sacrificio, il senso dell’onore, lo spirito guerriero, il culto della violenza. Il fascismo repubblicano riprese e inasprì anche la legislazione antisemita e la persecuzione degli ebrei: dal 1943 al 1945 più di 7.000 ebrei furono deportati dal territorio della Repubblica sociale, e di questi solo 610 riuscirono a tornare dai campi di sterminio.
Il crollo definitivo del fascismo avvenne con la vittoria degli Alleati e delle forze della Resistenza, che portarono a termine la liberazione dell’Italia il 25 aprile 1945. Il 28 aprile, Mussolini venne catturato e fucilato dai partigiani.
5. La dimensione culturale e organizzativa del fascismo
La dimensione culturale del fascismo si riferisce al modo di concepire l'uomo, le masse e la politica, cioè alla ideologia è al suo sistema di principi di valori e di fini. I suoi elementi sono i seguenti:
- una cultura fondata sul pensiero mitico, concepita come manifestazione della volontà di potenza, sul mito della giovinezza come artefice di storia, sulla militarizzazione della politica come modello di vita e di organizzazione collettiva;
- una concezione totalitaria del primato della politica, come esperienza integrale e rivoluzione continua, per realizzare, attraverso lo Stato totalitario, la fusione dell’individuo e delle masse nell’unità organica e mistica della nazione, come comunità etnica e morale, adottando misure di discriminazione e di persecuzione contro coloro che sono considerati al di fuori di questa comunità, perché nemici del regime o perché appartenenti a razze considerate inferiori o comunque pericolose per l’integrità della nazione;
- un’etica civile fondata sulla subordinazione assoluta del cittadino allo Stato, sulla dedizione totale dell’individuo alla comunità nazionale, sulla disciplina, la virilità, il cameratismo, lo spirito guerriero. Un apparato di polizia, che previene, controlla e reprime, anche con il ricorso al terrore organizzato, il dissenso e l’opposizione.
La dimensione organizzativa del fascismo riguarda la composizione sociale, la struttura associativa, lo stile di vita e i metodi di lotta del partito.
Essa ci testimonia che si tratta di un movimento di massa in cui prevalgono, nei quadri dirigenti e nella massa dei militanti, giovani appartenenti principalmente ai ceti medi, in gran parte nuovi alle attività politica, organizzati nella forma originale del "partito milizia",che fonda la sua identità non sulla gerarchia sociale e la provenienza di classe, ma sul senso del cameratismo; si ritiene investito di una missione di rigenerazione nazionale, si considera in stato di guerra contro gli avversari politici e mira ad acquistare il monopolio del potere politico, usando il terrore, la tattica parlamentare e il compromesso con i gruppi dirigenti, per creare un nuovo regime, distruggendo la democrazia parlamentare.