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Font: storia dei caratteri tipografici e dei sistemi di stampa

Helvetica,Times, Bodoni... I caratteri tipografici, chiamati typeface o font in inglese, fanno parte della nostra vita, sono sui libri, sul Web, sulle T-shirt, su ogni prodotto che acquistiamo, come i biscotti alla Nutella, ma anche su oggetti inarrivabili, come la Ferrari con il suo logo inconfondibile.

Attraverso la loro forma, i caratteri evocano un momento storico, uno stile, ci permettono di esprimerci con la parola scritta e di farci capire ovunque, ci invogliano a informarci, a leggere, a comprare.

La tastiera del nostro computer compone tutte le parole che vogliamo nelle dimensioni e nella forma che preferiamo. Sul desktop si apre una tendina che contiene una collezione di caratteri con cui possiamo variare aspetto e dimensioni del testo. Sono i font: Cambria, Times, Helvetica…

Clicchiamo su Arial, e il nostro testo si fa all’improvviso chiaro, leggibile, leggero. Cambiamo idea, scegliamo Bodoni 72, ed ecco che le parole assumono un aspetto elegante, formale, aggraziato, come su un invito a una mostra.

Ma se andiamo su Rockwell potremmo facilmente comporre un manifesto del Vecchio West con la scritta Dead or alive.

A seconda del font che scegliamo, con American Typewriter piombiamo in un giallo sul detective Marlowe, con Bauhaus 93 veniamo catapultati nella Germania degli Anni ’20-’30, quando insieme al nazismo nasceva il design moderno.

Il carattere tipografico è infatti uno strumento speciale dal grande potere: esprimere le parole attraverso i concetti visuali. E ognuno di loro ha la sua storia.

Che cos’e un font e chi l’ha inventato? Da Gutenberg all’Helvetica, la storia dei sistemi di stampa, della tipografia e di queste magiche paroline.

 

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1. DALLA CINA ALL’EUROPA DEL ’400, GUTENBERG E LA BIBBIA BESTSELLER

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Fino a 500 anni fa non esistevano i libri stampati. C’erano i manoscritti, testi copiati a mano, una lettera alla volta, con penne di uccello intinte nell’inchiostro, su lunghe pergamene arrotolate o fogli raccolti in volumi giganti illustrati con le miniature.

Gli amanuensi, cioè i copisti, erano monaci delle abbazie medievali, come nel film Il nome della rosa. Un’arte nota solo a una piccola schiera, poco pratica per diffondere nel mondo la parola scritta. Bisognava meccanizzarla.

I cinesi ci arrivarono intorno all’anno Mille, creando il primo sistema di stampa a caratteri mobili. L’inventore, Bi Sheng, aveva concepito blocchetti di porcellana dove aveva inciso i singoli caratteri, che venivano composti in file verticali affiancate (la scrittura cinese tradizionale andava da destra a sinistra in verticale, mentre il cinese moderno si scrive da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, in orizzontale, come le lingue occidentali).

Geniale, ma fragile. Furono sostituiti da caratteri di legno e poi, in Corea, di bronzo. La rivoluzione, però, doveva arrivare con il piombo nella Germania del XV secolo. Le matrici di legno incise per dipingere le stoffe esistevano fin dall’antichità. Con la diffusione della carta, le incisioni erano diventate una forma d ’arte diffusa.

Nell’Italia medievale esistevano stamperie dove si praticava la xilografia: si riportava un disegno su una tavoletta di legno, che veniva incisa, poi inchiostrata e impressa su carta tramite un torchio, fino a riprodurre più volte l'immagine. Questa, però, non si poteva modificare e prima o poi la matrice si rompeva.

Johannes Gutenberg, un orafo nato intorno al 1400 a Magonza, ideò allora piccoli pezzi in una lega di piombo, antimonio e stagno che venivano allineati a formare parole, righe e pagine di testo. Era nato il carattere tipografico, che diede origine al primo libro stampato in Europa, la Bibbia di Gutenberg (1453, foto sotto), all’industria libraria e una più rapida diffusione della cultura.

Il carattere tipografico per secoli è stato un pezzetto di piombo con incisa una lettera o un segno grafico (il glifo). Spalmata di inchiostro grasso la parte superiore in rilievo (l’occhio), il carattere veniva premuto su un supporto di carta, dove lascia la sua impronta.

Un insieme o una famiglia di caratteri, quindi di lettere, numeri e simboli, aventi lo stesso spessore, la medesima larghezza e uguale stile, va a formare il tipo di carattere, detto anche “fonte”, meglio noto con il termine inglese font (il termine inglese font in passato indicava soltanto le varianti, il corsivo per esempio, di un typeface).

 

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2. TUTTO PARTE DAL LATINO

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Non si potevano usare per la stampa le belle lettere impiegate da Gutenberg, quel Gotico (o Blackletter) usato per secoli dai monaci nei loro libri miniati: troppo elaborato e dispendioso, avrebbe richiesto una gran quantità di inchiostro.

Bisognava inventarsi qualcosa di più semplice. Ecco i geni creativi del Rinascimento mettersi al lavoro.

Nel XV secolo, a Venezia, il francese Nicholas Jenson fu ispirato dal carattere lapidario romano, cioè dalle scritte in latino scolpite sulle antiche lapidi, per creare il carattere Roman: (foto sotto) curve regolari, linee dritte, molto leggibili. Un successo in tutta Europa.

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La seconda, grande innovazione fu il corsivo, creato alla fine del Quattrocento dall’editore veneto Aldo Manuzio. Si trattava della versione inclinata del Roman, ed è ancora oggi chiamato Italie dagli anglosassoni proprio per le sue origini italiane.

Si chiamava anche Aldino, dal nome di battesimo di Manuzio, al quale si devono anche la creazione della moderna virgola e del punto e virgola, e la stampa di testi in greco antico e della filosofia: pubblicò infatti l’opera omnia di Aristotele.

Manuzio stampò anche uno dei libri più preziosi di sempre, l'Hypneromachia Poliphili, un romanzo iniziatico che ancora oggi è un mistero da dipanare. Da notare come, in tipografia, quando si cita il titolo di un libro si usi farlo sempre in corsivo (foto sotto).

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Agli stampatori italiani si affiancarono quelli d ’Oltralpe. Il tipografo francese Claude Garamond disegnò una serie di font a cui gli altri si ispirarono per anni.

Il Garamond che conosciamo noi è una sua derivazione e oggi la maggior parte dei romanzi italiani è stampata in Simoncini Garamond. Lo scrittore Alessandro Baricco, per dire, compone i suoi scritti in Garamond (foto sotto).

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Dai disegni del francese prese spunto anche uno degli inventori dei font moderni, l’inglese William Caslon, che nel 1720 usò un innovativo typeface per Il Nuovo Testamento.

Lui, l’italiano Giambattista Bodoni (autore di un’opera fondamentale, il Manuale tipografico) e la famiglia di stampatori francesi Didot si inventarono queste famiglie di rivoluzionari caratteri, che da allora vengono indicati con il loro nome.

Il Caslon (foto sotto), per esempio, fu usato anche per stampare la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Uno dei Didot, inventò inoltre il punto tipografico, classificando i caratteri secondo l’altezza. Ma qual era la differenza tra i font?

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Curiosità: Le macchine per la stampa
Gli eredi di Gutenberg dovevano allineare a mano i caratteri di piombo e poi stampare a braccia con il torchio poche copie all'ora. A fine '800 cambiò tutto.
La linotype, brevettata in America nel 1884, consentiva la composizione tipografica meccanica: il tipografo costruiva righe intere (line of type, in inglese) nella giustezza (la lunghezza della linea) voluta.
La monotype rivoluzionò tutto di nuovo: la macchina era composta da una tastiera e da una fonditrice-compositrice.
L'operatore digitava e produceva un nastro di carta perforato, mentre un altro governava la fonditrice che sfornava i caratteri della pagina.
Era la composizione a caldo, con una lega di piombo-stagno-antimonio iniettata in matrici di bronzo. Fu sostituita da quella a freddo alla fine degli Anni'60.

 

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3. GRANDI FAMIGLIE

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In buona sostanza, la differenza tra i font stava nel contrasto tra bastoni e grazie.

Era nata la prima classificazione dei caratteri tipografici, che fu codificata nell’Ottocento secondo un sistema abbastanza complicato: si cominciarono a dividere i font con le grazie (ovvero quegli allungamenti e allargamenti posti alle estremità delle lettere, ripresi dalla lapidaria romana: in inglese, serif) da quelli senza grazie (sans serif), cioè composti essenzialmente da bastoni.

Per complicare le cose, i serif si distinguevano in ordine di apparizione: i primi a essere creati erano i font Old Style, che comprendevano il Gotico di Gutenberg e tutti i font detti Romani antichi, come i Veneziani, o Umanisti, e i Garald nati dai disegni di Manuzio e Garamond.

Poi erano entrati in scena i Transizionali, a partire dal Baskerville, dal nome dell’omonimo creatore, che richiedevano una maggiore precisione e più ordine nel disegno. Per finire erano apparse le famiglie di caratteri Bodoniani o Didoniani (da Didot), chiamati anche Romani moderni, che diventavano sempre più geometrici, con grazie molto sottili a formare angoli retti con le aste.

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A fine ’800, con la Seconda rivoluzione industriale, l’avvento della pubblicità creò la necessità di font sempre più grandi che dovevano evidenziare il messaggio su manifesti e inserzioni, sulle scatole di sapone come sui mezzi di trasporto.

A metà del secolo si era andata sviluppando una nuova tecnica tipografica, la cromolitografia, che permetteva di stampare su carta immagini a colori con le scritte, usate per decorare scatole, mobili e prodotti vari.

La cromolitografia aveva aperto il mondo a font che miravano ad attirare l’attenzione sull’oggetto, più che facilitare la comprensione della parola scritta: caratteri di grande impatto visivo, ma poco leggibili, come i Slab Serif, o Egiziani, nati con gli scavi archeologici e la moda dell’egittologia, o come i Clarendon Serif, audaci, fatti apposta per stupire, e i Glyphic Serif, che simulavano uno spessore triangolare, quasi fossero scolpiti sulla pietra.

Ma il XIX secolo non era solo l’epoca dei font fantasiosi. Personaggi come i Caslon (arrivati al quarto della dinastia) si erano sbarazzati delle grazie per favorire lo sviluppo dei Sans Serif, meglio noti come bastoni.

Con l’arrivo del nuovo secolo nacquero famiglie di font dal nome programmatico: Grotteschi (a fine ’800), che spesso riprendevano il Gotico, Geometrici (a partire dagli Anni ’20 del ’900) e neo Grotteschi (nel secondo dopoguerra, foto sotto).

Insomma, per farla breve, la tipografia stava diventando una scienza complessa che doveva rispondere a nuove esigenze.

 

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4. IL FUTURO È DI... FUTURA E LA DISPUTA NEL TERZO REICH

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Bisognava inventare qualcosa di più dinamico, veloce da leggere anche su giornali e documenti.

Il Gill Sans, dello scultore inglese Eric Gill, dipinto per la prima volta nel 1926 sull’insegna di una libreria di Bristol, era leggibile anche stampato piccolo; un successo innegabile visto che da allora ha dominato sulla stampa britannica e persino sull’orario dei treni.

Venne infatti adottato dalle ferrovie di sua maestà. Il font Johnston, invece, fu progettato apposta per la metropolitana di Londra.

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I font Geometrici, che presero piede con il nuovo secolo, erano la modernità, nascevano insieme con le rivoluzioni artistiche del Novecento, in primo luogo il Bauhaus, che tra gli Anni '20 e ’30 introdusse un nuovo gusto nel mobilio, nell’architettura e nella grafica.

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In Germania soffiava una ventata di novità, che si concretizzò con la nascita del carattere Futura, a opera di Paul Renner, nel 1928. Un font Sans Serif capostipite dei font Geometrici, basato com’è su tre figure: cerchio, triangolo e quadrato.

Ancora oggi è fra i font più usati, infatti la Nike, per esempio, usa il Futura nella versione Bold Condensed Oblique, un neretto corsivo dai caratteri serrati.

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La rivale Adidas, invece, ha dottato il font Avant Garde/AdiHaus, un carattere “proprietario”, ovvero di proprietà dell’azienda che lo stampa sulle sue scarpe sportive: si tratta di una variante dell’Avant Garde, un elegante font creato nel 1970 per la rivista omonima.

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Non che le grazie fossero state dimenticate. Anzi, stavano nascendo nuovi Serif che sarebbero presto diventati molto popolari, come il Rockwell, un Egiziano con le grazie rettangolari, o il Times New Roman (foto sotto), ideato per il quotidiano inglese The Times, il font che molti di noi usano nei programmi di scrittura.

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Entrambi scaturivano dal lavoro della tipografia Monotype, una holding del XX secolo, che con i font di successo aveva introdotto, nell’ultimo decennio dell’800, una macchina per la 
stampa rivoluzionaria, la monotype.

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Il nazismo riportò in auge i font antichi, i Blackletter dal sapore medievale: Gutenberg aveva usato il Textura per la sua Bibbia; Jenson nel 1470 aveva inventato un’altra variante della grande famiglia del Gotico, l'Antiqua.

Ma nei Paesi di lingua tedesca, su impulso dell’imperatore Massimiliano I d ’Asburgo, dal 1513 si era diffuso il Fraktur, ennesima variazione sul tema. Ai tedeschi il Gotico piaceva, e tanto, faceva parte della loro identità culturale.

Già nell’800 si era aperta una disputa tra Antiqua, visto come carattere non-tedesco, una versione poco seria, insomma, e Fraktur (foto sotto), nero, denso, considerato più sobrio, il vero carattere fondativo del Reich, l’Impero germanico.

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Goethe, che preferiva l’Antiqua, era stato riportato sulla retta via del Fraktur addirittura dalla madre. La questione era cruciale anche fra le alte sfere: il cancelliere Bismarck non li apriva proprio i libri in Antiqua.

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La disputa continuò fino alla Grande guerra: c’era chi diceva che l’Antiqua aumentasse la miopia, chi sosteneva che facilitasse l’apprendimento del tedesco agli stranieri.

Il Terzo Reich nel 1936 aveva creato persino un manuale, Organisationsbuch der NSDAP, per definire lo standard dell’iconografia del partito nazista, inclusi font, loghi e bandiere. Inizialmente usò il Fraktur per la sua propaganda come la sola, vera scrittura tedesca; poi lo mise fuorilegge nel 1941, dichiarandolo "scrittura giudaica”.

L’Antiqua fu imposto come il carattere ufficiale del nazismo, anche se nell’immaginario collettivo restano, macabri, i simboli runici SS adottati dalle squadre Schutzstaffel.



5. CHE CARATTERE USA MCDONALD’S, YOUTUBE E GOOGLE?

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Arrivò dalla Germania anche l’ispirazione per il nuovo carattere che avrebbe maggiormente condizionato la grafica nella seconda metà del Novecento, l’Helvetica.

In una fonderia tedesca nel 1896 era nato il font Akzidenz Grotesk, un Sans Serif geometrico che sarebbe stato adottato negli Anni ’50 dalla catena di fastfood McDonald’s (ma la “M” dai due archi dorati contenuta nel logo fu ispirata direttamente dal co-fondatore dell’azienda, Richard McDonald, e progettata da un architetto). 

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Questo fu preso come modello, nel 1957, dallo svizzero Max Miedinger che, su un’idea di Eduard Hoffmann, direttore della fonderia Haas di Munchenstein, disegnò il Neue Haas Grotesk.

Il nome del nuovo carattere fu cambiato in Helvetica, cioè l’appellativo latino della Svizzera, quando il font fu dato alle stampe nella sua forma definitiva nel 1961.

Il designer italiano Massimo Vignelli nel 1989 l’ha trasformato nel font della segnaletica di New York. Lo hanno usato per il loro logo multinazionali del food (Nestlé), linee aeree (Lufthansa, Pan Am), griffe di moda (Fendi), compagnie petrolifere (Agip), produttori d'auto (Fiat).

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Piace perché è un font neutro che sta bene su tutto, il preferito dalla pubblicità. Nell’anno del cinquantenario è stato celebrato pure in un film, Helvetica (2007) di Gary Hustwit, dove si sostiene che ha reso più forte persino il messaggio della Coca-Cola (“it’s a real thing”).

Perché il carattere è potere, esprime parole attraverso concetti visuali. Per questo, dietro alla scelta di un font, c’è uno studio ben preciso sul messaggio che si vuole trasmettere.

Il Gotham ha portato Barack Obama alla presidenza nella campagna elettorale del 2007: la scritta "Hope” nel manifesto disegnato dall’artista Shepard Fairey, “Obey”, è diventato un iconico grido di battaglia e oggi si trova nei musei.

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YouTube, per esempio, usava fino al 2017 l’Alternate Gothic, un font progettato nel 1903 dall’americano Morris Fuller Benton per essere impiegato nei titoli di giornali, che avendo le colonne strette richiedevano un carattere alto e smilzo, un po’ come il Gotico. Oggi, che è una media company globale, ha creato il suo font proprietario.

Coogle, invece, ha inventato un nuovo font gratuito (eh sì, perché i font si pagano): si chiama Noto (dall’espressione no more tofu!) e dovrebbe evitare quei fastidiosi quadratini (detti “tofu”) con cui i programmi di scrittura traducono lettere, accenti e segni grafici di idiomi poco diffusi.

Pare che funzioni in 800 lingue, assicura Google, persino con il tibetano e con le lingue morte come il sumero, il fenicio e la lineare B usata nell’antica Grecia.

 

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