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Fortunati si nasce?

Transitare su un ponte un istante prima del crollo. Trovarsi, non una, ma tre volte nelle vicinanze di un attacco terroristico.

Essere colpiti da un fulmine in sette diverse occasioni. Fortunati a essere vivi? O sfortunati a essersi imbattuti in eventi così negativi?

Cronaca e vita quotidiana obbligano spesso a interrogarsi su che cosa siano la buona e la cattiva sorte, il caso e il destino.

Ma anche tante discipline – dalla psicologia alla filosofia fino all’economia, oltre naturalmente alla matematica (il concetto stesso di fortuna è strettamente legato a quello di caso e di probabilità) – indagano per trovare un aspetto “misurabile” in quella che definiamo fortuna.

“Fattore C”? No: è solo questione di personalità. Il segreto perché tutto vada bene… è crederci.

 

1. Aiuta gli audaci

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Le ricerche ormai dimostrano che ciò che viene percepito come buona stella o “sfiga nera” ha più a che fare con la psicologia che con la probabilità.

Fortuna e sfortuna non sarebbero insomma qualità oggettive del mondo, ma giudizi soggettivi, mutevoli e perfino contraddittori, del tutto legati a fattori contingenti.

Un fattore che sicuramente influenza le nostre valutazioni in questo campo è la personalità.

Tante ricerche, in particolare quelle dello psicologo inglese Richard Wiseman, che ha dedicato i suoi studi proprio a questi temi, avvalorano quello che in fondo sapevano già i Latini: la fortuna aiuta gli audaci.

Credere di avere la sorte dalla propria parte innesca una sorta di circolo virtuoso: rende meno ansiosi, più sicuri di sé, rilassati, positivi.

Alla fine le persone che si definiscono “fortunate” sono in realtà quelle più aperte alle opportunità, in grado di vedere e cogliere le occasioni quando si presentano.

Ma non c’è solo questo. Quando si parla di caso e sorte, è proprio il carattere di ciascuno a far catalogare una certa situazione come positiva o negativa, indipendentemente dall’evento in sé. Diversi studi lo dimostrano in modo convincente.

Gli psicologi Steven Hales e Jennifer Johnson, per esempio, hanno presentato a un gruppo di persone racconti veri di storie “ambigue”, come quella dell’uomo sopravvissuto a due bombe atomiche.

Tsutomu Yamaguchi, così si chiamava (ed è morto nel 2010, all’età di 93 anni), si trovava all’interno della zona mortale quando il 6 agosto 1945 fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima, e poi di nuovo, tre giorni dopo, a Nagasaki.

Chi nei test psicologici sulla personalità era risultato ottimista tendeva a definire le persone come Yamaguchi fortunate; i pessimisti, viceversa, vedevano il lato negativo di quegli scenari, e propendevano per pensare che fosse stata una bella scalogna trovarsi 2 volte in simili circostanze. La stessa storia, insomma, dice a ciascuno qualcosa di diverso.

Nella foto sotto, lancio di lanterne durante il festival Yi Peng, in Thailandia. Le luci che salgono in cielo simboleggiano la sfortuna che se ne va.

 

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2. Con la giusta enfasi

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Ma a influenzare i giudizi di sfortuna non è solo la personalità. È anche, in un certo senso, questione di contesto.

O meglio di framing, come viene definito in termini scientifici l’effetto descritto dagli psicologi israeliani Amos Tversky e Daniel Kahneman, famosi per aver messo in luce l’irrazionalità dei meccanismi con cui prendiamo decisioni e ci formiamo opinioni.

In pratica, a seconda di come un problema viene presentato o raccontato, l’atteggiamento delle persone cambia radicalmente (anche se la sostanza del fatto narrato resta la stessa).

Vale nel caso della scelta di una terapia o della somma da puntare in una scommessa, come quando si tratta di esprimere un giudizio sui casi della vita.

Hales e Johnson, gli psicologi che hanno testato il ruolo della personalità nei giudizi sulla fortuna, hanno presentato a vari gruppi di persone il racconto di una giocata a una lotteria simile al Superenalotto.

In una versione, il protagonista descriveva con parole di entusiasmo e incredulità la sua esperienza: era la prima volta che provava, e aveva azzeccato cinque numeri su sei.

Nell’altra, si rammaricava di aver mancato per un soffio la vincita eccezionale, avendo indovinato cinque numeri su sei. I due racconti descrivono esattamente la stessa situazione.

Mentre però nel primo caso la maggioranza delle persone descrive il protagonista come fortunato, sentendo racconti simili al secondo quasi tutti sono pronti a dire: “che sfortuna!”.

Una differenza eclatante. Bastano insomma le parole, senza cambiare i fatti, a manipolare la reazione delle persone.

Come dicono gli stessi autori dello studio, sembra proprio che la fortuna sia una sorta di “illusione cognitiva, un mero espediente narrativo usato per dar forma a storie di successo o di fallimento”.

I gesti scaramantici sono comuni ovunque. Nella foto sotto, un “giro” sul tallone sui testicoli del toro (Milano, galleria Vittorio Emanuele).

 

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3. Alternative mancate

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Anche la prospettiva da cui si guarda un evento, se si è interessati in prima persona o dall’esterno, e il confronto con le possibilità alternative che la sorte avrebbe potuto riservare, sono fattori che influenzano potentemente il giudizio.

«Mi stavo preparando per andare ad Haiti, correvo in corso Monza, sono inciampata e mi son rotta una vertebra.
Uscita dall’ospedale, un fulmine ha colpito un pino sul viale, il pino è caduto e mi ha travolta. Altra vertebra incrinata, non le dico i lividi.
Ero anche finita sul giornale. Allora ho deciso di rimanere e aiutare i migranti, ma mi hanno investita e son di nuovo tutta rotta. Insomma, se ci pensa son miracoli!», raccontava nella sala d’attesa di un medico una suora.

Miracoli un corno, hanno commentato tra mille ironie varie persone sulla pagina Facebook dell’amica che ha riferito l’episodio (reale anche se sembra inventato).

Ma non l’avrebbero forse pensata tanto diversamente dalla suora le persone intervistate per uno studio dallo psicologo norvegese Karl Halvor Teigen, oggi professore emerito all’Università di Oslo.

Teigen ha contattato 85 turisti che erano in vacanza nel Sud-est asiatico quando si verificò lo tsunami il 26 dicembre del 2004. Come trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, con una vacanza (costosa) rovinata, dal punto di vista di chi guardava da casa.

Ma, a due anni di distanza, quando ormai tutti sapevano di che terribile disastro si fosse trattato, il 95 per cento dei turisti che si era trovato lì si era definito fortunato, anche se non aveva corso rischi in prima persona.

L’elemento chiave che determina il giudizio in casi come questo è il paragone tra quello che è accaduto e quello che sarebbe potuto accadere. Gli esperti lo chiamano “ragionamento controfattuale”.

Nella vita reale entra in gioco quando capita un evento negativo o eccezionale, e l’alternativa che ci viene in mente è l’evento “normale”.

Ma se per esempio ci si trova sulla scena di un disastro, anche cavarsela con ferite serie fa sentire la maggior parte delle persone come fortunati sopravvissuti.

Il controfattuale, in questo caso, sarebbe stato lasciarci le penne. «Il pensiero controfattuale può diventare una strategia di adattamento: ci si sente meglio a pensare che le cose potevano anche andare molto male.

Nella foto sotto, nastrini dei desideri (detti anche del Bonfim) davanti a una chiesa di Salvador de Bahia (Brasile).

 

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4. Parcheggio e lavoro

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Trovo sempre parcheggio, io!!! Oltre a personalità e contesto, anche il puro e semplice caso gioca un ruolo importante nell’influenzare l’idea che ciascuno si fa del cosiddetto “Fattore C” (proprio o altrui che sia).

Una simulazione basata sulla teoria dei giochi ha analizzato la famosa questione della ricerca del parcheggio: perché c’è chi becca sempre un posticino libero nella zona più piena, e chi deve rassegnarsi a lasciare la macchina lontano?

Secondo Alan Kirman, economista alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dipende molto da com’è andata – ed è qui che il caso ci mette lo zampino – le prime volte.

I lavoratori che all’inizio hanno trovato posto nella zona affollata vicino all’ufficio, successivamente continueranno a cercarlo, e spesso anche a trovarlo, nei paraggi.

Complice il fatto che chi in partenza non ha trovato dove posteggiare si è convinto che tentare sia inutile, e rassegnato mette la macchina lontano, lasciando i posti liberi a quanti, a loro volta, credono di essere fortunati col parcheggio.

E sul lavoro? Ciò che ciascuno di noi pensa riguardo alla fortuna, inoltre, può finire per avere conseguenze ben reali. E dove meno ce lo aspetteremmo.

Per esempio, alcuni studiosi di economia suggeriscono che chi è convinto di essersi fatto da solo, che la buona stella e le combinazioni fortunate contino poco nel successo, è meno generoso e poco propenso ad aiutare gli altri.

È quanto sostiene lo studioso Robert Frank, professore di economia alla Cornell University (Usa). Pensieri che alla fine potrebbero anche mettere fine o rallentare il ciclo positivo.

Tra le persone arrivate, infatti, chi sottovaluta il ruolo della sorte è meno simpatico di chi ammette che spesso, oltre che per l’impegno e le qualità personali, i risultati si ottengono grazie a una buona dose di... “Fattore C”.

Questa ammissione lo rende più umile e attraente rispetto ai fautori della teoria opposta, e gli attira probabilmente nuove opportunità e benevolenza. Ovvero altra fortuna.

 

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5. I talismani? Funzionano

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Per chi ci crede, ovviamente, è la scoperta dell’acqua calda.

Ma anche gli scienziati si stanno convincendo del potere dei portafortuna, sebbene non per ragioni soprannaturali.

Qualche anno fa, alcuni ricercatori dell’Università di Colonia hanno invitato un gruppo di studenti a portare con sé il proprio “talismano” per un esperimento. Gli oggetti sono stati presi in consegna con la scusa di fotografarli.

Poi a metà degli studenti sono stati restituiti prima che iniziassero quiz al computer e prove di abilità, come mandare in buca una pallina da golf, mentre l’altro gruppo non li ha riavuti indietro per i test. Chi aveva con sé il portafortuna, è andato meglio.

Non solo: alla richiesta di fissare in anticipo il numero di parole da trovare risolvendo alcuni anagrammi e la soglia di tempo dopo la quale avrebbero mollato, le persone che avevano con sé l’amuleto si sono date obiettivi più ambiziosi.

Erano più convinti di potercela fare. Anche solo dire “tengo le dita incrociate per te”, o l’inossidabile “in bocca al lupo”, può quindi servire, perché dà fiducia.

 

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