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Geroglifici egizi: decodificati grazie alla Stele di Rosetta

“Ce l’ho fatta! Ecco la chiave…!”, esclamò Jean-François Champollion balzando sulla sedia del suo studio. Poi svenne.

Era il 14 settembre 1822: la comprensione dei geroglifici finalmente era diventata realtà.

È vero, lo studioso francese era un genio e conosceva un’infinità di lingue, ma come era riuscito là dove per decenni gli altri avevano fallito?

La risposta è semplice: grazie alla Stele di Rosetta, il reperto archeologico che più di ogni altro aprì agli storici la strada per svelare i misteri della millenaria civiltà egizia.

Il suo aspetto è quello che è, eppure questa lastra mutila di granodiorite, con la sua iscrizione (incompleta) redatta in caratteri piccoli come la lista degli ingredienti di un sugo pronto, ha un’importanza innegabile. La sua storia non è solo un’affascinante avventura alla Indiana Jones.

La sua realizzazione, la sua scoperta e la sua decifrazione raccontano, infatti, anche tre momenti storici significativi, per l’Egitto e il mondo: la storia dei re macedoni che governarono sulla Terra dei faraoni conquistata da Alessandro Magno; la storia dell’antagonismo tra francesi e britannici in Medio Oriente, durante la campagna d’Egitto di Napoleone; la storia delle teorie e delle dispute accademiche che portarono alla decrittazione dei geroglifici.

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1. La scoperta

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Rinvenuta nel 1799, nell’antica città portuale egizia di Rosetta (l’odierna el-Rashid), la celebre lastra è grande più o meno quanto la porta di un frigorifero e spessa quasi 28 centimetri.

La sua particolarità? L’iscrizione, scalpellata nel 196 a.C. in tre diverse grafie: quella greca classica (la lingua della dinastia regnante, che per un migliaio di anni diventò anche la lingua ufficiale della pubblica amministrazione), il demotico (la scrittura quotidiana e popolare della lingua egizia) e il geroglifico (i “segni sacri incisi” usati dai sacerdoti).

All’epoca, di queste tre scritture solo una, il greco, era comprensibile. Quanto ai misteriosi segni egizi, ormai dal V secolo d.C. nessuno ne capiva più il significato.

Per secoli intellettuali e studiosi si erano spremuti le meningi, ma quei disegni minuti sarebbero rimasti ancora a lungo affascinanti scarabocchi se non fosse comparsa la nostra stele.

A notarla, tra i materiali di riempimento portati dalle maestranze locali per il potenziamento di Fort Julien (come i francesi avevano ribattezzato la fortezza mamelucca di Rosetta), era stato un soldato napoleonico, il 15 luglio 1799.

Le truppe dell’imperatore dei francesi erano sbarcate nella Terra dei faraoni l’anno prima, per la campagna d’Egitto (1798- 1801), progettata da Bonaparte per colpire il dominio britannico nel mar Mediterraneo.

Il capitano Pierre- François Bouchard, cui viene comunemente attribuita la scoperta, intuì l’importanza di quella strana pietra incisa recuperata dai suoi soldati e la mostrò al generale Jacques François Menou, che decise di portarla con sé ad Alessandria d’Egitto.

A nulla valsero, due anni dopo, i tentativi di nasconderla fra i propri effetti personali: con la resa francese, i vincitori inglesi requisirono la stele come bottino di guerra. E, nel 1802, re Giorgio III la donò al British Museum, dove si trova ancora oggi.

Nel frattempo, però, i francesi non erano rimasti con le mani in mano: avevano fatto alcune copie della particolare iscrizione e su quelle cominciarono a scervellarsi.

La parte in greco rivelò presto che si trattava di un decreto, emanato dai sacerdoti egizi riuniti a Menfi, l’antica capitale dell’Egitto: il clero vi celebrava il neo-incoronato tredicenne faraone Tolomeo V Epifane, elencando le tasse da lui cancellate e i benefici apportati al Paese, e attribuendogli anche lo status di divinità (un accessorio indispensabile per il sovrano degli Egizi).

 

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2. Il faraone bambino

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Ma, proprio come certe apparentemente innocue dichiarazioni politiche dei nostri giorni, quel testo scritto in burocratese ed emozionante quanto una circolare comunale mascherava sotterranee intenzioni.

Il periodo era piuttosto delicato: da ormai più di 100 anni l’Egitto era in mano a una dinastia di sovrani macedoni, i Tolomei, diretti discendenti di Tolomeo Sotere, uno dei generali di Alessandro Magno che alla morte del grande condottiero si erano spartiti il suo immenso impero.

Reso orfano da una congiura, Tolomeo V era stato costretto a salire sul trono a 6 anni: mentre veniva manovrato da vari reggenti, in tutto il Paese erano scoppiate rivolte che avevano ritardato la sua incoronazione.

«Per cercare di ristabilire il dominio supremo e divino dei re tolemaici sull’Egitto, il re dovette quindi negoziare la propria autorità e proteggerla prendendo in prestito la forza invincibile degli dèi o, più precisamente, dei sacerdoti», spiega lo storico dell’arte Neil MacGregor, nel saggio La Storia del mondo in 100 oggetti (Adelphi).

Otto anni dopo la sua ascesa al potere, il potentissimo clero egizio concesse al re adolescente un’incoronazione solenne a Menfi, la città sacra simbolo degli antichi faraoni, per rafforzare agli occhi degli Egizi la sua posizione di sovrano legittimo.

Ma in cambio Tolomeo fu costretto a promettere ai sacerdoti ciò che venne riportato sulla stele nel 196 a.C.: sostanziose agevolazioni fiscali e il privilegio di non doversi più presentare ad Alessandria, la nuova capitale scelta dai regnanti macedoni, mantenendo la loro incontrastata autorità a Menfi.

 

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3. Nelle mani giuste

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Collocata nel tempio della città reale di Sais (oggi Sa el-Hagar), centro della resistenza tolemaica, la stele venne spostata a Rosetta alla fine del IV secolo e qui i francesi la ritrovarono circa 1.400 anni dopo.

Champollion ne ebbe una copia fra le mani nel 1808: ma come riuscì a risolvere il rompicapo dei geroglifici?

«Per gli studiosi non contava tanto ciò che diceva la stele, quanto il fatto che lo dicesse tre volte e in tre lingue diverse. E che una di queste fosse comprensibile», nota MacGregor.

Ma Champollion aveva un aiuto in più: l’assoluta padronanza della lingua copta, che lui stesso, a 17 anni, aveva riconosciuto come la discendente diretta dell’antico egizio, benché scritta con caratteri basati sull’alfabeto greco.

In pratica, poteva dire di sapere come parlavano i faraoni, anche se gli rimaneva da scoprire il significato di tutti quei disegnini che usavano per scrivere la loro lingua.

La decifrazione fu il risultato di almeno due geniali illuminazioni: una di Champollion, che intuì che ogni geroglifico poteva avere un significato simbolico, pittografico e fonetico; una del brillante studioso inglese Thomas Young, che ipotizzò che i caratteri contenuti nei “cartigli”, quella specie di ovali che nelle iscrizioni egizie contengono gruppi di geroglifici, sulla Stele di Rosetta indicassero il nome del faraone Tolomeo.

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Ma che cosa sono i geroglifici? “Si tratta di un sistema complesso, di una scrittura allo stesso tempo figurativa, simbolica e fonetica di uno stesso testo, di una stessa frase, direi quasi di una singola parola”: così Champollion spiegò i geroglifici nella sua famosa Lettre.

Ma che cosa voleva dire esattamente? Il senso delle sue parole era che, un po’ come nei rebus, ogni geroglifico può significare: ciò che rappresenta (valore pittografico), una consonante o gruppi di consonanti (valore fonetico) o una parola diversa a seconda del contesto in cui è inserita (valore ideografico).

Un esempio? Il segno dell’anatra, presente in diverse iscrizioni, significa effettivamente “anatra”, ma simboleggia anche la parola “figlio”, quando è associata al Sole come epiteto di un faraone, e il suono fonetico “sa”, che può servire a scrivere vocaboli che nulla hanno a che vedere con il pennuto.

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4. Eureka!

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Estendendo il metodo ad altri cartigli e confrontando la traduzione della parte in greco, Champollion riuscì a ottenere il valore di molti segni, fino ad arrivare alla comprensione di gran parte del testo egizio della stele.

Fu allora che balzò sulla poltrona, quel 14 settembre 1822.

E, due settimane dopo, presentò la sua scoperta ai colleghi, leggendo all’Accademia reale di iscrizioni e belle lettere di Parigi la celebre Lettre à M. Dacier (l’allora segretario dell’istituto).

Da quel momento, per tutti i 10 anni che lo separavano dalla morte, non smise di studiare e visitare collezioni archeologiche in Italia e in Egitto, raccogliere e decifrare geroglifici, arricchendo così il vocabolario e perfezionandone la traduzione.

Il 1° gennaio 1829, a Wadi Halfa (nell’odierno Sudan), di fronte all’invalicabile seconda cateratta del Nilo, scrisse a Dacier:
“Ora sono veramente fiero di poter dire che [...] non c’è nulla da modificare nella nostra Lettera sull’alfabeto
dei geroglifici. Il nostro alfabeto è valido: esso si applica con uguale successo tanto ai monumenti egizi del tempo dei Romani e dei Lagidi, quanto, cosa ancor più interessante, alle iscrizioni di tutti i templi, palazzi e tombe delle epoche faraoniche”.

Così i francesi ebbero la loro rivincita: agli inglesi il trofeo, a loro la gloria eterna.  Nella foto sotto, il pubblico esamina con grande interesse la stele egizia esibita al British Museum, nel 1874. L’importantissimo reperto archeologico era stato donato al museo di Londra da re Giorgio III nel 1802, e ancora oggi è l’oggetto che richiama più visitatori.

 

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5. Champollion superstar

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Genio precocissimo e fuori dal comune, Jean-François Champollion (1790- 1832) era dotato di una memoria eccezionale, oltre che di una passione incrollabile per l’Oriente.

Era solo un ragazzino quando cominciò a seguire le sue inclinazioni al liceo di Grenoble, studiando latino, greco ed ebraico.

Continuò poi con l’arabo, l’aramaico e la lingua copta, quella che tanto gli fu utile nella decifrazione dei geroglifici.

Tra costanti problemi economici, completò il suo bagaglio di lingue impossibili a Parigi, aggiungendo, tra le altre, anche l’avestico, il sanscrito, il persiano e il cinese.

La sua passione era così profonda che, parlandogli delle proprie ricerche, riuscì ad affascinare persino il suo idolo, Napoleone, durante un incontro casuale a Grenoble.

Dopo aver tradotto la Stele di Rosetta, enunciò i principi generali della scrittura geroglifica nel 1824 e, due anni dopo, venne nominato direttore della sezione egizia del museo del Louvre.

Profetico ciò che scrisse di sé, nel 1828: “Io sono tutto per l’Egitto e l’Egitto è tutto per me”. Un anno prima di morire, il padre dell’egittologia fu infatti chiamato a coprire la cattedra di Antichità egizia a Parigi.

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