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I sei giorni che hanno cambiato e infiammato il Medio Oriente nel 1967

Il 7 aprile 1967 alcuni aerei da guerra Mirage israeliani abbatterono sei MiG dell’aviazione siriana durante una scaramuccia sul confine meridionale della Siria.

Uno precipitò proprio sulla capitale del Paese, Damasco.

Si trattava solo dell’ultimo sviluppo di un’escalation di tensione tra i vicini arabi e Israele, che aveva conosciuto scontri di confine fin dalla sua creazione nel 1948.

Questa volta, però, l’umiliazione patita dalla Siria sarebbe sfociata in un nuovo conflitto arabo-israeliano: la Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967.

Il punto di rottura si ebbe quando l’Unione Sovietica, alleata della Siria, il 13 maggio informò Damasco che Israele era sul punto di lanciare un’offensiva. 

Si trattava però di una menzogna, parte di una più vasta strategia sovietica nell’ambito della Guerra Fredda.

La Siria aveva un patto difesivo con il leader egiziano Gamal Abd el-Nasser, che prevedeva il suo intervento in caso di attacco israeliano.

In nome di un fronte comune arabo contro la potenziale aggressione di Israele, anche il re Hussein di Giordania il 30 maggio firmò un accordo di difesa comune con Nasser: a quel punto uno scontro aperto avrebbe finito per coinvolgere anche l’esercito giordano.

Nasser spostò quindi truppe nella penisola del Sinai, dove le Nazioni Unite avevano inviato una forza di pace dopo la guerra del 1956 tra Egitto e Israele. All’arrivo delle truppe egiziane le Nazioni Unite però si ritirarono, e il Sinai divenne di fatto una zona di guerra.

Il sospetto reciproco, l’inganno perpetrato dall’Unione Sovietica e il timore di Israele di vedersi annientato portarono il primo ministro israeliano Levi Eshkol e i suoi generali a ritenere che lo scontro fosse inevitabile.

Non era ben chiaro perché Nasser lo cercasse – gran parte del suo esercito era già impegnata nello Yemen – ma una decrescita della tensione sembrava ormai fuori discussione.

Le circostanze avevano dunque portato le parti in causa sulla soglia della guerra aperta. Ecco la cronaca dettagliata di quei drammatici eventi.

1. Giorno 1, lunedì 5 giugno 1967

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Giorno 1, lunedì 5 giugno 1967: ISRAELE LANCIA UN ATTACCO MASSICCIO
L’aviazione egiziana viene spazzata via in un colpo solo.

La guerra ebbe inizio alle 7.45 del mattino con una mossa spettacolare e decisiva chiamata Operazione Focus

L’aviazione militare israeliana al completo (vennero lasciati a terra solo dodici aerei) si alzò in volo a bassa quota, per non essere intercettata dai radar egiziani, giunse indisturbata sull’obiettivo e spazzò via la quasi totalità della flotta aerea dell’Egitto mentre si trovava ancora a terra.

“Lo spirito degli eroi di Israele ci accompagnerà in battaglia”, proclamò il capo dell’aviazione israeliana. “Da Joshua Bin-Nun, da re David, dai Maccabei e dai combattenti del 1948 e del 1956 riceveremo la forza e il coraggio per colpire gli egiziani”.

Quando il feldmaresciallo egiziano Abd al-Hakīm ’Āmir fu informato che un contrattacco era impossibile perché quasi tutti gli aerei egiziani (298 in totale) erano andati distrutti “crollò completamente”, come raccontò un suo subordinato.

“Non lo avevo mai visto in quelle condizioni”. Senza una copertura aerea, le truppe egiziane nel deserto del Sinai erano condannate: di fatto Israele aveva già vinto la guerra e, quando scesero in campo i suoi carri armati, gli egiziani vennero subito respinti verso il Canale di Suez.

In appoggio all’Egitto entrarono in scena le aviazioni irachena e giordana, ma Israele sconfisse anche quelle.

Quando la Giordania cominciò a sparare sulle postazioni israeliane attorno a Gerusalemme, Israele si rivolse a re Hussein: “Rimanete fuori dalla guerra e non vi accadrà nulla”.

Per tutta risposta i giordani intensificarono il fuoco, segnando così il proprio destino. Pochi giorni dopo, l’esercito giordano sarebbe stato spazzato via, e Hussein avrebbe dichiarato: “Non abbiamo mai subito una sconfitta così pesante”.

2. Giorno 2, martedì 6 giugno 1967

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Giorno 2, martedì 6 giugno 1967: LA RESISTENZA GIORDANA CEDE
Le truppe di re Hussein cercano di opporsi all’avanzata di Israele e Gerusalemme.

Il 6 giugno l'esercito egiziano entrò in rotta completa. I soldati abbandonarono le armi e nella ritirata almeno 10mila uomini persero la vita.

A un certo punto, nel caos dello scontro, l’artiglieria egiziana sparò sui suoi stessi uomini. Nello stesso tempo i media egiziani raccontavano un’altra versione, asserendo che l’esercito di Nasser aveva “spazzato via” il nemico e stava penetrando in territorio israeliano.

La verità era ben diversa: l’esercito egiziano si ritirò in massa, senza nemmeno tentare di tenere le posizioni o di eludere la potenza aerea nemica con combattimenti notturni. Chi fu a dare quell’ordine di ritirata è un tema dibattuto per anni. Per i sostenitori di Nasser, era stato il feldmaresciallo ’Āmir.

Sia Nasser sia ’Āmir sostennero che la colpa della disfatta fosse di un intervento di Stati Uniti e Gran Bretagna al fianco di Israele, oppure della cattiva qualità delle armi fornite all’Egitto dall’Unione Sovietica.

Il mondo arabo fu spazzato da una ventata di propaganda anti-americana, tanto che in molti luoghi folle inferocite assalirono edifici di proprietà degli Usa.

Ma in realtà la responsabilità di quella repentina sconfitta era della pessima diplomazia di Nasser, della debolezza del suo esercito e dell’attacco preventivo scagliato da Israele.

Nello stesso tempo si combatteva per le strade di una Gerusalemme controllata – fin dal 1949 (ossia dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano) – per metà dagli israeliani (la parte ovest) e per metà dai giordani (la parte est).

Paracadutisti israeliani impiegati come fanteria accerchiarono le mura della città vecchia – sede del santuario islamico della Cupola della Roccia, nonché del Muro del Pianto e di altri luoghi sacri ebraici – ma non riuscirono a entrarvi.

Nel contempo altri paracadutisti assalirono i bunker della “Collina delle Munizioni” appena a nord della città, che era in mano giordana.

La battaglia cominciò all’1,25 del mattino. I soldati giordani combatterono come leoni, uccidendo e ferendo un gran numero di israeliani al grido di “Allahu Akbar” (“Dio è grande”).

Alle 4.30 Israele si era ormai fatto strada tra le postazioni nemiche, ma i suoi carri armati Sherman non riuscivano ad abbassare le bocche da fuoco a sufficienza per poter sparare sulle linee giordane e i paracadutisti non riuscivano a passare nelle strette trincee a causa dei loro voluminosi zaini.

Tuttavia, la resistenza giordana piano piano cedette. Uno degli ufficiali sulla Collina avvertì via radio: “Stiamo terminando le munizioni. Tra poco non potrò più parlare con voi, ma spero che voi sentirete parlare di me e dei miei uomini”.

Re Hussein in un dispaccio si rivolse ai suoi uomini dicendo: “Uccidete il nemico ovunque lo troviate, a mani nude, con le unghie e con i denti”.

Alla fine sulla Collina persero la vita 71 giordani e 53 israeliani, e dopo la guerra Israele eresse sul posto un monumento per onorare la memoria dei caduti di entrambe le parti.

Le truppe giordane dunque non si diedero alla fuga, ma dovettero cedere di fronte alla superiore forza di Israele.

3. Giorno 3, mercoledì 7 giugno 1967

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Giorno 3, mercoledì 7 giugno 1967: ISRAELE CONQUISTA GERUSALEMME
La città vecchia cade, entrano i bulldozer e la popolazione palestinese viene messa sotto controllo militare israeliano.

Il 7 giugno Israele conquistò la città vecchia penetrando all’interno delle mura dalla Porta di Sion e dalla Porta dei Leoni, e i soldati corsero a pregare sotto il Muro del Pianto.

Entro le dieci del mattino Gerusalemme era completamente in mano israeliana.

Un ufficiale disse ai suoi uomini: “Ecco l’antica Gerusalemme, che abbiamo sognato e desiderato per generazioni. Noi saremo i primi ad entrarci. La nazione ebraica aspetta la nostra vittoria. Israele attende questo storico momento. Siatene orgogliosi. Buona fortuna”.

Un ufficiale dei servizi segreti israeliani descrisse così l’ingresso nella Cupola della Roccia:
“Eravamo lì sul nostro mezzo blindato, dopo due giorni di combattimenti, con i colpi di fucile che ancora esplodevano nell’aria, e d’improvviso ci ritrovammo a entrare in questo enorme spazio aperto che avevamo visto tutti tante volte in fotografia. Anche se personalmente non sono religioso, non credo che qualcuno sia rimasto immune dall’emozione di quel momento”.

Poco dopo, un comandante israeliano annunciò via radio: “Har ha-Bayit be-Yadenu” (“Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”). I soldati israeliani non riuscirono a trovare da soli la strada fino al Muro del Pianto: diede loro indicazioni un palestinese del posto.

Giunse poi il capo dei cappellani militari dell’esercito israeliano, Rabbi Shlomo Goren, che suonò uno shofar (una tromba rituale fatta con un corno di ariete) davanti al Muro e proclamò di “essere arrivato lì per non andarsene mai più”.

Rabbi Goren propose anche all’esercito di far saltare in aria il santuario islamico al di sopra del Muro: i soldati rifiutarono, ma fecero comunque distruggere dai bulldozer militari duecento case che sorgevano nei pressi del Muro, creando un ampio spazio aperto per accogliere i futuri visitatori.

Alle 14.30 arrivò anche il Ministro della difesa israeliano, Moshe Dayan, che diplomaticamente dichiarò: “Abbiamo riunificato la città, la capitale di Israele, perché nessuno la divida mai più. Ai nostri vicini arabi offriamo, ancora una volta, la nostra mano per la pace”.

Israele conquistò anche il territorio della Cisgiordania e da quel momento un milione e 250mila palestinesi rimasero sotto la sua occupazione militare.

Nel frattempo in Egitto la radio mentiva alla popolazione dicendo che l’esercito egiziano era alle porte di Tel Aviv, proprio mentre le truppe israeliane si facevano invece strada negli Stretti di Tiran tra il Sinai e la penisola araba.

In effetti c’era ancora solo qualche unità egiziana che cercava di combattere: nella base aerea di Bir Gafgafa, nel cuore del Sinai, i carri armati egiziani rallentarono l’avanzata israeliana.

Anche i pochi aerei rimasti integri dopo l’attacco preventivo di Israele continuarono a lanciarsi in sortite – più simili a missioni suicide – e i soldati israeliani rimasero così sorpresi che sulle prime presero i MiG egiziani per i loro Mirage.

4. Giorno 4, giovedì 8 giugno 1967 e giorno 5, venerdì 9 giugno 1967

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  • Giorno 4, giovedì 8 giugno 1967: LA SIRIA NEL MIRINO DI ISRAELE
    Messi fuori gioco Egitto e Giordania, Israele punta verso nord.
    Le truppe israeliane in avanzata nel Sinai avevano già smesso di fare prigionieri e avevano cominciato a lasciare che i nemici sconfitti si allontanassero da soli verso il Canale di Suez, catturando solo gli ufficiali egiziani di alto grado in vista di eventuali scambi di ostaggi.
    Israele non era più in grado di gestire un numero così elevato di prigionieri e feriti egiziani (gli arabi per contro riuscirono a catturare solo quindici soldati israeliani). In seguito, un comandante israeliano di una unità di carri armati riferì di aver ordinato ai suoi uomini:
    “Non uccidete nessun soldato nemico. Tentate di catturarli e poi lasciateli andare, in modo che spargano la voce che gli israeliani non intendono uccidere. Insomma lasciate che tornino a casa”.
    L’8 giugno, con gli eserciti egiziano e giordano ormai sbaragliati, Israele puntò verso il fronte settentrionale: la Siria.
    Ma valeva la pena di scatenare una terza offensiva? Il Ministro della difesa Moshe Dayan era contrario, ,anche perché c'era il pericolo di un intervento sovietico.
    Sembrava dunque che il conflitto si dovesse concludere il quarto giorno, con Israele ormai in possesso del Sinai e della Cisgiordania, e che la Siria ne sarebbe uscita indenne.
    L’Unione Sovietica, dal canto suo, fece sapere che non avrebbe tollerato ulteriori azioni aggressive da parte di Israele.
    Alle 19.10 il Primo Ministro Levi Eshkol riunì il suo consiglio e propose di tentare l’invasione almeno di una parte delle Alture del Golan, contro il parere di Dayan.
    Un ministro dichiarò che l’acquisizione delle Alture del Golan e la conseguente rottura diplomatica con l’Unione Sovietica erano situazioni preferibili al lasciare la Siria impunita solo per conservare buoni rapporti con Mosca.
    Altri espressero parere contrario, sostenendo che rompere con Mosca avrebbe significato rompere anche con numerosi altri Paesi afro-asiatici.
  • Giorno 5, venerdì 9 giugno 1967: OCCHI PUNTATI SULLE ALTURE DEL GOLAN
    Dayan cambia idea e la Siria viene sbaragliata.
    Nelle prime ore del mattino Nasser, che aveva accettato finalmente la situazione, contattò la Siria sconsigliandole di combattere contro Israele.
    “Mantenete intatto il vostro esercito”, disse. “Questa battaglia ormai l’abbiamo persa: Dio sarà con noi in futuro”.
    Nel frattempo il Ministro della difesa israeliano Dayan, che pure si era opposto all’idea il giorno prima, decise di attaccare.
    Quando l’esercito israeliano cominciò a bombardare le Alture del Golan, il Primo ministro Eshkol si infuriò.
    L’atteggiamento di Dayan in quel momento pareva così incoerente che soltanto uno psicologo avrebbe potuto venirne a capo.
    Ma ormai il dado era tratto, e sul fronte settentrionale cominciò un’ultima battaglia che avrebbe visto le forze arabe umiliate ancora una volta.





5. Giorno 6, sabato 10 giugno 1967

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Giorno 6, sabato 10 giugno 1967: L’UNIONE SOVIETICA SI PREPARA A BOMBARDARE ISRAELE
Dopo la scon tta della Siria, Mosca è pronta a intervenire.

Quando le truppe siriane si ritirarono, all'orizzonte si profilò una nuova - e per Mosca inaccettabile - prospettiva: che Israele avesse nel mirino la stessa Damasco.

Il premier sovietico Aleksej Kosygin contattò Washington e disse agli americani:
“Siamo arrivati a un punto critico. Se le azioni militari non termineranno entro le prossime ore, dovremo prendere una decisione unilaterale che potrebbe portarci a uno scontro, che a sua volta potrebbe portare a una catastrofe... Vi proponiamo dunque di esigere da Israele una cessazione incondizionata delle sue azioni militari nelle prossime ore”.

Visto che gli aerei israeliani seguitavano a sorvolare Damasco, l’Unione Sovietica si preparò a bombardare Israele. A quel punto il presidente americano Lyndon Baines Johnson e le Nazioni Unite costrinsero gli israeliani ad arrestarsi a poca distanza dalla capitale siriana.

Il Ministro degli esteri israeliano Abba Eban telefonò al premier Eshkol. Gli rispose sua moglie, che poi riferì al marito: “Eban ti chiede di fermare la guerra perché le Nazioni Unite lo stanno pressando”.  Così alle 18.30 fu ordinato il cessate il fuoco.

Al prezzo di meno di mille morti, le forze israeliane erano ora a soli cinquanta chilometri da Amman, a sessanta chilometri da Damasco e a centodieci chilometri dal Cairo.

La vittoria nella Guerra dei Sei Giorni diede a Israele una soluzione militare al problema politico della sua legittimazione. Ma i semi della discordia continuarono a crescere.

Gli arabi, pur umiliati, rifiutarono di accettare la sconfitta, coloni israeliani si trasferirono nei nuovi territori occupati e i palestinesi proseguirono la loro resistenza, il che portò a un altro conflitto – la Guerra del Kippur del 1973 – e a un lascito di odio reciproco di cui il Medio Oriente è prigioniero ancora oggi.






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