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Gli atleti che hanno fatto storia alle Olimpiadi

Ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro saranno oltre 10mila gli atleti che si sfideranno per la vittoria.

Si tratta delle prime Olimpiadi che si tengono nell’America meridionale, ma sono i XXXI Giochi olimpici dell’epoca moderna.

Dalla prima edizione, che per iniziativa del barone francese Pierre de Coubertin si svolse ad Atene nel 1896 (un enorme successo, anche se il livello tecnico dei 241 atleti, tutti dilettanti, provenienti da 14 nazioni, era basso), molto è cambiato: i risultati sportivi di oggi erano impensabili un secolo fa.

Ma ogni atleta sogna ancora di compiere un’impresa sportiva degna di entrare nel cuore della gente e di restarvi impressa come un’icona immortale, oltre che restare scritta negli annali dei Giochi.

Come hanno fatto gli eroi dello sport, le donne e gli uomini che hanno fatto storia alle Olimpiadi: dall’eroico finlandese Paavo Nurmi all’americano Fosbury, che reinventò la tecnica del salto in alto; dal nero Owens che sfidò Hitler al nostro grande Pietro Mennea.

Ecco i campioni olimpici le cui imprese sportive resteranno per sempre impresse nella memoria del mondo.

1. Jesse Owens, il nero che sfidò Hitler

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Le Olimpiadi del 1936 si tennero a Berlino, in Germania, e dovevano essere una glorificazione del nazismo, al potere con Hitler da tre anni.

Della squadra degli Stati Uniti però faceva parte un ragazzo nero di 23 anni, James Cleveland Owens, detto Jesse, che avrebbe lasciato un’impronta indelebile su quella edizione dei Giochi, diventando una delle icone dello sport di tutti i temp.

Il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nel 100 metri, il giorno dopo quella nel salto in lungo e il 5 quella dei 200 metri. Il 9 agosto infine venne inserito all’ultimo momento nel quartetto della staffetta 4x100, che trascinò al trionfo.

Jesse, figlio di povera gente, si era appassionato all’atletica alle scuole medie grazie a un professore di ginnastica, Charles Riley.

Con i suoi successi nell’atletica poté iscriversi all’università e quindi proseguire la sua carriera di sportivo. A Berlino si presentò come favorito, avendo stabilito da poco il record del mondo.

Nella finale scattò in modo imperioso, guadagnando un tale vantaggio da poter controllare nel finale il ritorno del compagno di squadra, Ralph Metcalfe, un altro nero, che arrivò secondo.

La leggenda vuole che Hitler dopo la gara si rifiutasse di stringergli la mano. In realtà, il comitato olimpico aveva chiesto al dittatore di essere imparziale e di salutare tutti o nessuno, e Hitler aveva scelto la seconda strada.

Lo stesso Jesse Owens fece notare di essere stato trattato peggio dallo stesso presidente americano, Roosevelt, che si rifiutò di incontrarlo per non inimicarsi gli elettori razzisti del Sud: Hitler, almeno, gli aveva regalato un suo ritratto autografato.

In quei Giochi la Germania vinse 101 medaglie di cui 38 d’oro, superando gli Stati Uniti che se ne aggiudicarono 57 in tutto e l’Italia che ne vinse 27.

Owens è morto nel 1980; quattro anni dopo la città di Berlino gli ha dedicato un viale vicino allo stadio Olimpico.

 

2. Mark Spitz, detto “lo Squalo”

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Le Olimpiadi del 1972 a Monaco di Baviera, in Germania, sono tristemente famose per l’uccisione di 11 atleti israeliani per mano di terroristi palestinesi.

Sul piano sportivo il protagonista assoluto di quella edizione fu un ragazzo americano di origini ebraiche, Mark Spitz, che oltre a muscoli formidabili sfoderava uno smagliante sorriso sotto gli inconfondibili baffi scuri.

Mark era nato a Modesto (California) nel 1950, ma aveva cominciato a nuotare alle Hawaii dove la famiglia si era trasferita. Il suo primo allenatore fu il padre, Arnold, che gli ripeteva sempre: «Nuotare non è tutto, vincere sì».

Spitz arrivò alle Olimpiadi tedesche dopo una cocente delusione in quelle precedenti di Città del Messico, dove aveva vinto solo nelle staffette 4x100 e 4x200 stile libero.

Nei quattro anni successivi si allenò intensamente per i criteri di allora (scendeva in vasca tre volte la settimana, oggi gli allenamenti sono quotidiani) e a Monaco si presentò concentratissimo.

Vinse tutte e sette le gare cui partecipò: 100 e 200 stile libero, 100 e 200 farfalla, 4x100 e 4x200 stile libero e infine 4x100 mista.

In tutte le vittorie stabilì il record del mondo, un’impresa mai riuscita a nessun altro nuotatore (il nuotatore americano Michael Phelps nei Giochi olimpici di Pechino nel 2008 vinse 8 medaglie d’oro battendo il record di Spitz, ma migliorò un solo record mondiale).

Dopo i Giochi di Monaco Mark abbandonò il nuoto agonistico: «Cosa potrei fare di più? Mi sento come un fabbricante di automobili che ha fabbricato la macchina perfetta», disse.

 

3. Dick Fosbury, reinventò la tecnica del salto e Paavo Nurmi, l’eroico fondista del Nord

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Dick Fosbury: reinventò la tecnica del salto
Richard Douglas Fosbury, detto Dick, è nato a Portland (Oregon, Usa) nel 1947. Al liceo saltava in alto, ma con la tecnica dell’epoca, il salto ventrale, non superava 1,5 metri. Intuì allora che gettando indietro tronco e testa e facendoli passare per primi, sarebbe “scivolato” sopra l’asticella.
Con la traiettoria di avvicinamento, semi circolare invece che rettilinea, avrebbe anche sfruttato la forza centrifuga e acquistato energia.
Così fece alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Nei 12 salti di gara, alzò progressivamente l’asticella dai 2 m delle qualificazioni fino ai 2,29 m con cui vinse la gara e cambiò la storia dell’atletica.

 

Paavo Nurmi, l’eroico fondista del Nord
Uno dei più grandi fondisti di tutti i tempi nacque a Turki (Finlandia) il 13 giugno 1897: Paavo Nurmi.
Si presentò alle Olimpiadi di Anversa nel 1920 vincendo 3 medaglie d’oro (10mila metri, corsa campestre individuale e a squadre) e una d’argento (5mila metri).
Nelle Olimpiadi successive, a Parigi, Nurmi vinse le 5 gare cui partecipò, tra le quali quella dei 1.500 e dei 5.000 a una sola ora di intervallo l’una dall’altra.
La gara di corsa campestre si tenne con 45°C di temperatura; dei 38 partecipanti, 23 abbandonarono e 9 furono portati via in barella all’arrivo.
Da allora la campestre non è più specialità olimpica. Nurmi vinse ancora la medaglia d’oro dei 10mila metri ad Amsterdam nel 1928 prima di ritirarsi.

 

4. Nadia Comaneci: perfetta a 14 anni

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Gli spettatori che il 18 luglio 1976 affollavano il palazzetto dello sport di Montreal (Canada) nelle finali olimpiche delle parallele asimmetriche capirono subito di assistere a un evento eccezionale.

Una ragazzina rumena di 14 anni, Nadia Comaneci, quasi una bambina con i suoi 35 kg di peso distribuiti in 153 cm di altezza, stava eseguendo l’esercizio volteggiando come una libellula, senza la minima sbavatura o esitazione.

Al termine dell’esibizione i giudici le attribuirono per la prima volta nella storia il punteggio di 10, il massimo assoluto: la perfezione.

Perfino i computer andarono in tilt: erano programmati per arrivare al massimo fino a 9,99 e non c’era modo di inserire il 10. Si dovette aggirare l’ostacolo inserendo il voto “1” e moltiplicarlo per dieci volte.

Nadia ottenne lo stesso punteggio altre sei volte in quelle Olimpiadi, vincendo tre medaglie d’oro (concorso generale individuale, trave e parallele asimmetriche), una d’argento (concorso generale a squadre) e una di bronzo (corpo libero).

Quella ragazzina che stava cambiando la storia della ginnastica era nata nel 1961 a Onesti, nel centro della Romania, ed era stata scoperta per caso a sei anni da un allenatore del posto, Bela Karoly.

I suoi metodi erano rigidi: sveglia alle 5.30, sette ore di allenamento al giorno (più la scuola!). In gara Nadia non sorrideva mai: «Se durante l’esercizio pensassi a sorridere rischierei di vacillare», spiegò ai giornalisti.

Nadia si ritirò dalle competizioni a 22 anni. Nel 1989, dopo il crollo del Muro di Berlino, fuggì a Vienna e si presentò all’ambasciata americana alla quale chiese asilo politico.

 



5. Pietro Mennea, la Freccia del Sud

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Nella finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Mosca del 1980 Pietro Mennea (1952-2013) vinse una gara straordinaria, anche se quell’anno gli sprinter statunitensi erano assenti per protesta contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici.

Mennea correva all’esterno, in ottava corsia. A metà gara, all’uscita dalla curva, era indietro di ben 2 metri rispetto al britannico Allan Wells.

Ma nella seconda parte della gara, con una rimonta incredibile, recuperò il distacco, vincendo per due centesimi di secondo.

Gli spettatori italiani avevano ancora negli occhi un’altra sua impresa, avvenuta l’anno prima nell’aria rarefatta di Città del Messico.

Durante le Universiadi (cioè le Olimpiadi riservate agli studenti universitari, a cui Mennea partecipò in quanto iscritto a Scienze politiche) aveva frantumato il record mondiale dei 200 metri, portandolo a 19”72, uno dei record più longevi nella storia dell’atletica (sarebbe stato battuto solo 17 anni dopo da Michael Johnson, ma rimane ancora record italiano ed europeo).

Mennea, soprannominato “la Freccia del Sud”, è stato l’unico velocista nella storia a essersi qualificato per quattro finali olimpiche consecutive, dall’edizione di Monaco del 1972 (medaglia di bronzo) a quella di Los Angeles del 1984 (dove finì settimo).

 






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