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I robot che fanno il nostro lavoro: 5 scenari del prossimo futuro

Cosa succederà se in futuro i robot lavoreranno al posto nostro?

Secondo alcuni futurologi, nei prossimi decenni gli algoritmi e le automazioni ci condanneranno a un destino di “disoccupazione tecnologica”.

Presto tutti i nostri lavori verranno svolti da robot e le intelligenze artificiali (IA) diventeranno un elemento pervasivo di ogni aspetto della nostra vita. Ma, senza cose da fare e senza una routine regolare, quali prospettive ci aspettano?

Scivoleremo nella depressione affondati nei nostri divani, vivremo una vita in perenne vacanza, o troveremo il tempo per risolvere problemi globali come la crisi climatica mondiale?

Avremo più tempo libero o saremo depressi e senza soldi? Vediamo 5 possibili scenari…

 

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1. Alcuni mestieri non scompariranno

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Quanti di noi effettivamente perderanno il lavoro a causa dei robot?

Nelle nazioni più avanzate tra il 10 e il 30 per cento dei mestieri sarebbe automatizzabile, potrebbe cioè essere affidato interamente alle macchine.

Il settore manifatturiero ha cominciato ad affrontare perdite di questo genere; quello alimentare, dell’amministrazione e della contabilità sono i prossimi della lista, e alla fine anche gli autisti potrebbero essere sostituiti da veicoli autonomi.

Rimarranno in mani umane molti mestieri manuali e/o poco pagati, come l’idraulico, la badante o la babysitter. Basta però dare un'occhiata al passato per capire che non tutti perderemo il nostro lavoro.

Secondo Luke Martinelli, analista politico dell'Università di Bath, previsioni del genere erano già state fatte nel Diciannovesimo secolo e di nuovo negli anni Trenta, e non si sono mai avverate.

"Io penso che gli esseri umani non smetteranno mai di dover lavorare", dice Martinelli. "Faranno solo lavori diversi". Verosimilmente, all'uomo resteranno i mestieri basati sulla creatività e sulle capacità di relazione interpersonale.

Ma esistono anche visioni più pessimistiche del futuro, secondo le quali i robot arriveranno a fare praticamente tutto al posto nostro: sul fronte creativo, per esempio, i sistemi di apprendimento automatico stanno già ora sfornando dipinti, sculture, musica e persino trailer cinematografici che risultano indistinguibili dall'arte umana.

Portato all’estremo, questo scenario ci vedrebbe nel giro di poco alla mercé dei nostri nuovi padroni robotici.

Di fatto in Nuova Zelanda già esiste un "politico-IA" di nome Sam, che può parlare ai potenziali elettori senza rischi di sfiducia o cattiva interpretazione, e si dice persino che si candiderà per il parlamento alle prossime elezioni.

Forse quello è effettivamente un mestiere che i robot farebbero meglio di noi...

 

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2. Diventeremo tristissimi

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Nel 1929 in Austria un’azienda tessile che dava lavoro a quasi tutti gli abitanti del villaggio di Marienthal chiuse i battenti all’improvviso, e l'intera comunità si ritrovò disoccupata da un giorno all’altro.

L'evento ispirò il lavoro di tutta la vita della sociologa Marie Jahoda, sfociato nella sua “teoria della deprivazione" sulla disoccupazione.

Dopo aver passato settimane a Marienthal, la sociologa propose la sua spiegazione per le difficoltà psicologiche provate da chi si trovava senza occupazione: il lavoro umano non è soltanto un mezzo di sostentamento, ma serve anche a soddisfare necessità psicologiche fondamentali che includono lo status sociale, il contatto con gli altri e la strutturazione del tempo.

La teoria tuttavia non è stata testata in maniera rigorosa prima del 2019, quando Andrea Zechmann e Karsten Paul dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen- Norimberga, in Germania, hanno deciso di intervistare centinaia di persone in cerca di lavoro.

Il loro studio ha confermato che la disoccupazione provoca stress per la mancata soddisfazione di sette diversi bisogni psicologici, il più importante dei quali è lo scopo collettivo: il lavoro rende significative le nostre esistenze.

In altre parole, la disoccupazione di massa provocata dall’avvento dei robot ci renderebbe tristi. Quanto, è difficile dirlo: possiamo basarci solo sui dati degli studi a lungo termine sulla disoccupazione.

“Il benessere di una persona rimane stabile per mesi o anche per qualche anno dopo la perdita dell’impiego”, dice la Zechmann. “Questo ovviamente significa che molti di quelli disoccupati per un lungo periodo cadono in depressione”.

In ogni caso questa è una valutazione riferita a un mondo in cui la gente può continuare a cercare un nuovo lavoro: che cosa accadrebbe a chi si trovasse senza nessuna prospettiva di un nuovo impiego non è altrettanto prevedibile.

 

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3. Avremo più tempo per altre cose

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Se ci ritrovassimo con un enorme buco vuoto nella nostra routine lavorativa, un modo per riempirlo sarebbe infilarci altro lavoro, ma del tipo non pagato.

"Dal mio punto di vista”, dice la Zechmann, "la cosa veramente importante in un mondo post-lavorativo è che le persone possano sostituire l’impiego con altre attività che abbiano uno scopo, per esempio il volontariato, come molti già fanno. Quella è un’attività utile per la collettività, che ci mette al servizio di un fine superiore”.

Un altro scopo che potremmo darci sarebbe quello di aiutare a risolvere i problemi più pressanti del mondo.

Prima che gli scienziati diventassero professionisti retribuiti, i “filosofi naturali” per secoli si sono finanziati da soli: ancora sul finire degli anni Trenta Guy Callendar, l’uomo che ha scoperto il cambiamento climatico, era più un hobbista che un accademico qualificato.

Oggi i volontari e i “citizen scientists”, i cittadini che aiutano nelle ricerche scientifiche, monitorano le popolazioni di farfalle e l’inquinamento delle spiagge. Chi non ha un lavoro potrebbe insomma andare a ingrossare questi ranghi.

E se qualcuno preferisse non riempire il tempo libero con altro lavoro, potrebbe passare la vita a combinare matrimoni e a organizzare balli dell’alta società, stile "Jane Austen” nell’Ottocento?

L’idea in sé potrebbe sembrare attraente, ma pochi di noi avrebbero le risorse per attuarla: considerate che il signor Darcy, il protagonista di “Orgoglio e Pregiudizio”, guadagnava più di 6 milioni di euro all’anno in valuta di oggi.

Anche Guy Callendar aveva potuto dedicarsi a raccogliere dati climatici nel tempo libero perché aveva alle spalle una magione di ventidue stanze e un laboratorio serra ereditati da suo padre, un ingegnere delle macchine a vapore.

E in ogni caso organizzare matrimoni sarà probabilmente un lavoro da robot: già oggi le app di appuntamenti usano gli algoritmi e l’apprendimento automatico per aumentare le nostre chances di trovare l’anima gemella.

 

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4. Verremo pagati per non fare nulla

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In un futuro con poco lavoro la spaccatura tra ricchi e poveri aumenterà in maniera esponenziale e una piccola élite tecnologicamente preparatasi impadronirà dei mestieri rimasti, tutti molto ben pagati.

Nel 2019 la Commissione Europea, in un report sulle Intelligenze Artificiali e il lavoro, ha sottolineato un rischio per le mansioni meno remunerate e altamente ripetitive, che potrebbe "esacerbare le disuguaglianze in modo significativo".

Nello stesso rapporto si esplora anche l'idea di un reddito basilare universale per aiutare a colmare la spaccatura.

Esistono schemi diversi per un progetto del genere, ma l'obiettivo fondamentale sarebbe fornire a chiunque un'entrata regolare per poter affrontare i costi essenziali per un'esistenza dignitosa. Alcuni schemi lo propongono come universale e indiscriminato, altri lo regolamenterebbero con determinati criteri.

Ci sono già alcuni test in corso, per esempio un progetto finanziato da un'associazione benefica americana che riguarda 120 villaggi in Kenya, su un arco temporale di dodici anni.

Ma, come spiega Luke Martinelli, che studia il concetto di reddito di base, progettare dei test realistici per un progetto del genere non è facile: "Nel caso del Kenya quel che si sta facendo è semplicemente dare alle persone del denaro. Non si sta considerando l'altra metà dell'equazione, dove, in assenza di un ente benefico coinvolto, lo Stato si procurerebbe quello stesso denaro con le tasse".

Nella realtà il sistema finirebbe per essere finanziato, tramite le tasse, dai lavoratori ben retribuiti che ancora rimarrebbero. Il consenso generale è che il reddito di base dovrebbe fornire solo il necessario per vivere senza il minimo lusso, il che significa che gran parte della gente continuerebbe comunque a cercare almeno un lavoro part-time.

Secondo Martinelli questo farà peggiorare la situazione per alcuni, ma darà ad altri l’opportunità di esplorare nuove forme di lavoro.

 

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5. Probabilmente resteranno i lavori di casa

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Quando ci si immagina un futuro post-lavorativo in genere non si tiene conto delle mille faccende domestiche (non pagate) che pure occupano una certa parte delle nostre vite.

Anche chi avrà entrate sufficienti a vivere e una qualche forma di impegno comunitario che gli fornisce uno scopo dovrà comunque lavare i piatti e mettere a dormire i bambini.

Secondo Helen Hester, ricercatrice nel campo del tecnofemminismo, le macchine che abbiamo introdotto finora nei lavori di casa offrono solo un aiuto limitato, perché di fatto il tempo che risparmiamo grazie a esse lo impegniamo nuovamente in ulteriori pulizie e in altre attività con i bambini.

Per esempio da uno studio del 2016 dell’Università di Oxford è emerso che negli Stati Uniti una donna in media passa a pulire e cucinare due ore in meno al giorno rispetto a quanto accadeva negli anni Venti.

Un’ora e più di quel tempo è, però, riassorbita dalla cura dei figli. Insomnia, le faccende domestiche non spariranno mai, non importa quanti robot metteremo in campo.

Secondo Hester dovremmo essere più aperti all’idea di automatizzare in parte anche le cure parentali, per esempio impiegando i robot per aiutarci a badare ai bambini e agli anziani.

Ma, aggiunge, c’è un “ valore morale” collegato al fare di persona queste attività che spesso ci porta a “scartare di default l’idea dell’automazione”.

In altre parole, forse l’ostacolo principale all'accogliere più robot nelle nostre case non è di natura tecnologica, ma nasce piuttosto dalle nostre personali riserve all’idea di lasciare alle macchine faccende che consideriamo nostre.

 








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