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Il bike sharing (bici condivise): tutto quello che c’è da sapere

Oggi, le bici condivise sono 18 milioni in 1.608 città e crescono a ritmo vertiginoso.

Secondo i Media Research, a fine 2017 il mercato mondiale valeva 1,5 miliardi di dollari, e nel 2019 raggiungerà i 3,5 miliardi.

Il mercato più grande è la Cina, e l’Italia è al 4° posto mondiale. Insomma, le due ruote sembrano una gallina dalle uova d’oro.

Il bike sharing è poco efficace contro il traffico e l’inquinamento. Offre guadagni incerti e molto risicati. Eppure sta esplodendo in tutto il mondo. Perché è una miniera di dati (e non solo).

A cosa è dovuto questo boom? Scopriamolo insieme!

 

In sintesi:
• Negli ultimi 4 anni il bike sharing è esploso in tutto il mondo, con 18 milioni di bici condivise in 1.608 città.
• Il servizio consente di raccogliere dati sulle abitudini dei ciclisti e perciò fa gola alle società di trasporto.
• Le bici condivise riducono poco il traffico, ma migliorano la salute degli utenti favorendo l’attività fisica.

 

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1. Uova d'oro?

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Il loro arrivo fu annunciato da manifesti affissi nella notte: «Abitanti di Amsterdam! Il terrore su asfalto della borghesia motorizzata è durato abbastanza. Sacrifici umani sono resi ogni giorno all’ultimo idolo degli idioti: l’automobile. Il soffocante monossido di carbonio è il suo incenso, la sua immagine contamina migliaia di canali e di strade. Il nostro piano ci libererà da questo mostro».

Era il luglio del 1965, e Luud Schimmelpennink, esponente dei Provo, un gruppo di anarchici olandesi, ebbe un’idea rivoluzionaria: per combattere il consumismo e difendere l’ambiente, bastava sostituire le macchine con migliaia di bici gratis per tutti.

La proposta fu bocciata dal Comune, ma i Provo non si arresero: presero 50 bici, le dipinsero di bianco, «simbolo di semplicità e pulizia, in contrasto con la vanità e la violenza dell’automobile», e le lasciarono sulle strade. Dovettero ritirarle dopo un mese: una legge imponeva che fossero chiuse con lucchetti per evitare i furti. 

Schimmelpennink non lo sapeva, ma aveva inventato una formula destinata a un successo planetario: il bike sharing. Oggi, a distanza di 50 anni, le bici condivise sono 18 milioni in 1.608 città e crescono a ritmo vertiginoso.

Secondo i Media Research, a fine 2017 il mercato mondiale valeva 1,5 miliardi di dollari, e nel 2019 raggiungerà i 3,5 miliardi. Il mercato più grande è la Cina, e l’Italia è al 4° posto mondiale. Insomma, le due ruote sembrano una gallina dalle uova d’oro.

A cosa è dovuto questo boom? Il successo sembra inspiegabile: gli studi hanno dimostrato che i pedali sono poco efficaci nel ridurre lo smog e il traffico nelle città. In più il servizio offre margini di guadagno molto risicati, tanto che – senza finanziamenti pubblici – molte aziende sono fallite dall’oggi al domani.

In realtà, come vedremo, le bici condivise sono l’avanscoperta dei trasporti del futuro, gestiti da compagnie che integreranno diversi servizi di sharing economy, l’economia della condivisione: l’uso di mezzi a prescindere dal loro possesso.

Il fenomeno, infatti, non è banale: Peter Midgley dell’International Road Federation ha portato il caso all’attenzione dell’Onu, affermando che «c’è un urgente bisogno di linee guida, per gestire i servizi in modo efficiente. Ci vorrebbe un database globale che metta in condivisione le esperienze delle città».

 

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2. Effetti collaterali

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Spesso infatti il bike sharing, nonostante le intenzioni ecologiste, ha causato gravi ricadute sull’ambiente.

In Cina, ma anche in Europa, montagne di bici sono state abbandonate lungo le strade, sui binari dei treni o dei tram, sugli alberi e persino nei fiumi. Perché?

Per effetto della tecnologia: nel 2014, infatti, sono state inventate le bici a flusso libero, geolocalizzabili con un ricevitore Gps collegato a un lucchetto. Basta avvicinare uno smartphone, inquadrare il codice della bici con la fotocamera dell’app dedicata, e la bici si sblocca.

In questo modo non è più necessario riportare i mezzi alle stazioni di aggancio per terminare il noleggio: si può lasciare la bici ovunque, basta solo chiuderne il lucchetto.

Dunque, più libertà ma anche più rischi per l’ambiente: lo scorso febbraio la GoBee Bike, una società di Hong Kong, ha deciso di uscire dal mercato europeo (Italia compresa) perché il 60% della sua flotta aveva subìto danni.

Perfino Amsterdam, paradiso mondiale delle bici, è arrivata a bandire quelle a flusso libero: gli abitanti non riuscivano più a parcheggiare i propri mezzi per l’invasione di quelli a noleggio.

La soluzione? Creare software che guidino gli utenti a lasciare i mezzi in determinate aree, terminando l’addebito solo se si parcheggia in modo corretto. Nel frattempo, ognuno si arrangia come può: In Cina, il governo ha emanato linee-guida per regolare il settore.

Le città hanno creato aree riservate per le bici condivise, con addetti del Comune che aiutano i ciclisti a parcheggiarle. La Cina, infatti, è il locomotore mondiale del bike sharing.

A Pechino sono nate le startup Ofo (2014) e Mobike (2015) che hanno inventato il sistema delle bici a flusso libero, rendendo più facile aprire il servizio: non bisogna più costruire le stazioni di ancoraggio, che sono il costo maggiore di avviamento.

Ma è un sistema complesso da gestire: una bici costa da 100 € in Asia a 1.700 € per le bici elettriche in Occidente. E, soprattutto, pesano la manutenzione e la ridistribuzione delle bici in città, con furgoni attivi notte e giorno.

Per avere un’idea concreta, a Barcellona il servizio (7mila bici e 600 stazioni) costa 15,6 milioni l’anno, 2.200 € a bici. A Milano il servizio BikeMi (4.650 bici e 283 stazioni) costa 6 milioni l’anno, 1.300 € a bici.

Ma a fronte di queste spese, le tariffe di noleggio – che per i primi 30 minuti sono gratis o costano 15-30 centesimi – non riescono a coprire i costi di gestione. Che, spesso, sono compensati da fondi pubblici.

 

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3. Ricavi, poster e sconti al bar

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  • Ricavi e poster
    A volte invece, come nel caso di BikeMi, il servizio è affidato a società private che lo gestiscono in cambio di vari spazi pubblicitari in città: sta a loro trovare sponsor e intascarne gli utili.
    È la formula “bici per poster”: a Milano copre 2⁄3 dei ricavi. Ma questo sistema funziona nel centro delle grandi metropoli: in periferia e nelle città medio-piccole (che in Italia sono la maggioranza) no.
    E per le società che gestiscono le bici a flusso libero, che non ricevono finanziamenti pubblici né sponsor, e sono più esposte a vandalismi, i guadagni sono ancora più risicati.
    Tanto più se devono andare a recuperare le due ruote abbandonate in luoghi improbabili.
    E così diverse startup, come BlueGogo e Coolqi, hanno dichiarato bancarotta, mettendo a rischio milioni di euro in depositi cauzionali versati dagli utenti.
    Anche in Italia le imprese naufragate non sono state poche: «Le bici condivise vanno inserite in un piano generale della mobilità», avverte Giorgio Ceccarelli della Federazione Italiana Amici della Bicicletta. «Vanno integrate col trasporto pubblico, e create piste ciclabili, facendo un piano finanziario realistico. Altrimenti il fallimento è inevitabile».

 

  • Sconti al bar
    Eppure, le giganti cinesi Ofo e MoBike hanno raccolto finanziamenti per 1 miliardo di dollari ciascuna. Come si spiega?
    Per capirlo, basta vedere chi ha investito: in Ofo ha puntato il gigante del commercio online Alibaba, e Mobike è stata acquisita da Meituan-Dianping, colosso della vendita di coupon per ristoranti e consegne di cibo a domicilio.
    «Alle società che vendono prodotti e servizi sul Web interessa conoscere i nostri dati, i comportamenti dei ciclisti in città: quali tragitti fanno, dove si fermano, quali locali frequentano», scrive Forbes.
    «Per sapere le loro abitudini i loro gusti, e per inviar loro offerte mirate: grazie alla geolocalizzazione, una catena di caffetterie può invitare i ciclisti a fare una colazione scontata quando passano nei paraggi».
    Ma la pubblicità mirata è solo un obiettivo di breve termine. È il primo passo verso la mobilità del futuro. Nelle città avremo società che ci forniranno diversi servizi di mobilità: bici, ma anche auto in condivisione, offerte nei trasporti pubblici e molto altro.
    Già oggi Uber ha acquisito società di bike sharing, e in Germania il gruppo Moovel offre auto condivise, taxi e biglietti ferroviari. Insomma, come con le società di telefonia, sceglieremo un gestore di trasporti, che sarà il nostro riferimento per la mobilità.
    Per questo, aggiunge For- bes, la competizione è senza esclusione di colpi: chi vince prende tutto.

 

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4. Fondi pubblici e criptovaluta

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  • Fondi pubblici
    Ma perché l’Italia ha attratto tante società? Perché abbiamo un clima mite, favorevole ai viaggi in bici; perché abbiamo il turismo; e per i finanziamenti pubblici.
    In Italia, infatti, molti servizi sono nati grazie a stanziamenti del ministero dell’Ambiente: ha ricevuto altre 407 richieste di finanziamento per nuove stazioni.
    Investimenti a parte, il bike sharing è davvero utile? Serve a ridurre il traffico e l’inquinamento delle città? La risposta è disarmante: poco.
    Elliot Fishman, dell’istituto per i Trasporti sensibili di Melbourne, ne ha esaminato su Transport Reviews l’impatto in varie città del mondo.
    Scoprendo che raramente le bici condivise sostituiscono l’auto: si usano per lo più al posto dei mezzi pubblici (dal 20% al 58% dei casi) o dei tragitti a piedi (dal 22% al 38%).
    Solo a Minneapolis, Melbourne e Brisbane le bici sostituiscono i viaggi in auto nel 20% dei casi; nelle altre città la percentuale è sotto il 10% (Barcellona 9,6%, Lione e Washington 7%), e a Londra e Montreal un misero 2%.
    Ecco le conclusioni di Miriam Ricci, dell’Università del West England, su Research in Transportation Business & Management.
    «Attualmente non c’è alcuna prova che il bike sharing produca riduzioni significative nel traffico urbano e nelle emissioni di CO2, almeno nel breve e medio termine. Il bike sharing può perfino aumentare lo smog, a causa dei camion che girano nelle città per riparare e ridistribuire le bici. In più, il servizio attrae per lo più giovani istruiti, che è probabile siano già ciclisti a prescindere».
    In ogni caso, le bici condivise fanno bene alla salute, perfino se si pedala in città inquinate: una ricerca su Occupational and Environmental Medicine ha analizzato gli effetti sulla salute del bike sharing in 12 città europee (compresa Milano), accertando che grazie alle due ruote si sono evitati da 5 a 73 morti l’anno.

 

  • Criptovaluta
    Dunque le bici sono un’arma spuntata contro lo smog e il traffico?
    Il successo dipende dalla capillarità del servizio, dall’integrazione con altri mezzi pubblici e dalla presenza di corsie riservate.
    Se ragioniamo in termini di pura sostituzione, le bici saranno sempre una componente marginale. Ma importante, perché aumentano la libertà di movimento delle persone in città. La sfida è attrarre anche utenti più pigri.
    Un modo, forse, l’ha trovato oBike, una società di Singapore: gli utenti, pedalando sulle loro bici, potranno guadagnare “oCoins”, una criptovaluta, da usare per comprare video o canzoni. E dire che le bici condivise erano nate per combattere il consumismo.

 

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5. I numeri del bike sharing

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  • I numeri del bike sharing:
    - Nel MONDO: 18,17 milioni di bici condivise in 1.608 città.
    Città mondiali con più bici condivise:
    Pechino: 2,35 milioni
    Shanghai: 1,15 milioni
    Guangzhou e Shenzen: 890 mila
    Hangzhou: 882 mila
    - In ITALIA 39.500 bici in condivisione nel 2017. Oltre 2/3 delle bici italiane circolano in 4 città: MILANO, TORINO, FIRENZE E ROMA.
    18% di italiani (circa 13 milioni) risiedono in città dove è attivo un servizio di bike sharing;
    76% delle bici sono installate nelle regioni del Nord.
    A Gaeta il 90% degli utenti lo usa fra 52 e 364 giorni l’anno.

 

  • Città europee con più bici condivise:
    Londra: 19.145
    Milano: 16.650
    Parigi: 14.500
    Berlino: 13.000

 

  • Percentuale della popolazione che usa il servizio:
    5%: Milano
    6%: Parigi
    8,3%: Brescia
    9%: Londra

 

  • Il bike sharing è già alla 4a generazione
    Il bike sharing non è un fenomeno moderno: ha già 53 anni di storia, durante i quali si sono sviluppate diverse tipologie di servizi.
    - 1965
    AMSTERDAM (Paesi Bassi): circa 50 bici dipinte di bianco vengono lasciate a disposizione gratuita dei passanti.
    - 1991
    DANIMARCA: bici molto pesanti prelevabili da una rastrelliera inserendo una moneta in un distributore.
    - 1996
    PORTSMOUTH (Regno Unito): le bici si sbloccano dal parcheggio inserendo in un lettore una tessera magnetica.
    - 2014
    CINA: bici a flusso libero (free floating). Hanno un localizzatore Gps e si sbloccano con un’app per telefonini.

 

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