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Il generale MacArthur: il “Cesare del Pacifico”

“Io cerco di sentire, invano ma con orecchie assetate, il suono stregato delle trombe che danno la sveglia e i tamburi lontani che battono il passo di marcia.
Nei miei sogni, odo ancora il boato dei cannoni, il crepitio della fucileria, lo strano e luttuoso mormorio del campo di battaglia.
Ma alla fine dei miei ricordi io torno sempre a West Point. C’è sempre il grido, e poi il suo eco: Dovere, Onore, Patria”.

Queste parole fanno parte di uno dei più famosi discorsi mai pronunciati da un capo militare, il cosiddetto “Duty, honor, country speech” che il generale MacArthur pronunciò il 12 maggio 1962 ai cadetti dell’Accademia militare di West Point.

L’epopea degli Stati Uniti nel Pacifico è stata segnata in modo significativo dalla sua figura, la cui importanza è andata ben oltre le singole vicende militari di cui fu protagonista.

Douglas MacArthur (1880-1964) fu uno dei più famosi generali americani. La sua fu una carriera fulminante: nel 1925, quando aveva solo 44 anni, fu promosso Major-General, diventando il più giovane ufficiale dell’esercito a rivestire quel grado. Fu altrettanto noto per la sua autonomia di giudizio e di azione.

Ma chi era il generale MacArthur, l’uomo che combatté i Giapponesi? Per alcuni era un cowboy, per altri era da paragonare allo stratega dell’antica Roma, Giulio Cesare! Scopriamolo insieme.

 

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1. Predestinato e amara sorpresa

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Douglas MacArthur nacque il 26 gennaio 1880 a Little Rock, in Arkansas, in una base dell’esercito americano.

Suo padre era un ufficiale dell’esercito e nel 1899 anche lui intraprese la carriera militare entrando nell’Accademia Militare di West Point, uscendone nel 1903, primo del suo corso.

Alla fine della Grande guerra tornò dai campi di battaglia francesi come eroe pluridecorato, col grado di Brigadier-general. Era iniziata la sua leggenda. Nella foto a sinistra, MacArthur durante la Prima guerra mondiale, in Francia: gli appuntano una delle tante decorazioni ricevute in battaglia. 

Fu poi inviato nelle Filippine, nei luoghi che avrebbero avuto una parte fondamentale nella sua vita. Nel 1930 divenne capo di Stato maggiore dell’US Army, con il grado temporaneo di General: il coronamento di una carriera fulminante.

Cominciò, quindi, ad avere rapporti diretti con il potere politico, con il quale iniziarono i primi attriti dovuti alla volontà del presidente Roosevelt di tagliare il bilancio dell’esercito.

Nel 1937 MacArthur si congedò e fece ritorno nelle Filippine come consulente per la formazione del nuovo esercito di quel Paese, che aveva appena acquisito uno status di semi-indipendenza.

Ma proprio in quegli anni i rapporti tra Stati Uniti e Giappone, sempre più tesi, sfociarono in una vera e propria crisi, e le autorità di Washington decisero di avvalersi ancora dell’esperienza di MacArthur nell’area del Pacifico.

Così il 26 luglio 1941 fu richiamato in servizio e posto al comando del neocostituito quartier generale delle US Army Forces in the Far East (USAFFE, il comando delle forze dell’esercito americano nelle Filippine).

Tuttavia, il suo esordio nel conflitto che scoppiò meno di cinque mesi dopo in Asia non fu dei più felici. 

Il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono la flotta americana a Pearl Harbor e simultaneamente scatenarono la loro offensiva in tutto il Pacifico. Nelle Filippine la notizia dell’incursione alle Hawaii giunse alle 2:30 dell’8 dicembre.

Esistevano piani già predisposti per un attacco preventivo di bombardieri B-17 contro le basi aeree giapponesi a Formosa – da dove si sapeva che sarebbero partite le azioni aeree nipponiche sulle Filippine – ma nonostante questo MacArthur esitò per tutta la mattina.

Il risultato fu che poco dopo mezzogiorno una massiccia incursione aerea sulle basi americane di Clark Field e Iba sorprese a terra e distrusse il 50% degli aerei americani.

Quando una forza di quasi 200 aerei nipponici sorprese a terra tutti i velivoli americani, distruggendone al suolo praticamente la metà, il generale non fu esente da responsabilità: i piloti giapponesi trovarono i cieli sgombri e i velivoli parcheggiati sulle piste.

In pochi minuti la forza aerea americana, uno dei cardini della difesa delle Filippine, fu annientata. In seguito MacArthur non fu in grado nemmeno di contrastare gli sbarchi sulle isole, né di condurre una successiva difesa in modo efficace.

Alla fine, entro i primi giorni del 1942 fu costretto a ritirarsi sulla penisola di Bataan e sull’isola fortificata di Corregidor, nella baia di Manila. Da quest’ultima, dopo un lungo assedio, l’11 marzo 1942 fu evacuato con la moglie e il figlio a bordo di una motosilurante della Marina.

Dopo un’avventurosa navigazione, riuscì poi a imbarcarsi su un bombardiere B-17 che lo portò in Australia.

 

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2. La rivincita

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Appena sbarcato tenne il primo dei suoi celebri discorsi.

Vi pronunciò, rivolto alle Filippine, la parola di rivincita che poi entrò nel suo mito: “Ritornerò!”.

Fu un grido di riscossa che valse a risollevare il morale degli americani, ancora scosso dall’attacco a Pearl Harbor e dalle continue sconfitte subite nei primi sei mesi di guerra.

Così, anche se a MacArthur si poteva imputare più di un errore, la sua reputazione ne uscì paradossalmente intatta. Il 18 aprile 1942 gli fu affidato un nuovo importante comando, quello della Southwest Pacific Area (SWPA), uno dei tre quartier generali strategici in cui a guerra iniziata i comandi statunitensi suddivisero tutta l’area del Pacifico.

Da quel momento ebbe effettivamente inizio la sua lunga rivincita. Per oltre due anni, fino all’agosto del 1944, guidò le forze statunitensi e alleate in una lunga e articolata campagna aeronavale, aeroterrestre e anfibia per la riconquista della Nuova Guinea.

Nel corso di una serie di aspre battaglie – durante le quali spesso si faceva vedere in prima linea – egli costruì un’immagine di sé vincente e carismatica.

Nell’estate del 1944 la guerra nel Pacifico giunse a un punto di svolta nel quale si doveva decidere la principale direttrice strategica da seguire per colpire il cuore del territorio giapponese.

Il 26 luglio 1944, alle isole Hawaii, si tenne un vertice presieduto dal presidente Roosevelt cui parteciparono MacArthur e l’ammiraglio Chester Nimitz, comandante della Pacific Fleet e del quartier generale delle Pacific Ocean Areas (POA).

Contrariamente a quest’ultimo, MacArthur voleva si iniziasse una nuova campagna per la riconquista delle Filippine, anche se quella non era la via più diretta per poi giungere ad attaccare il Giappone.

Alla fine, usando tutta la sua influenza e le sue doti di persuasione, ottenne l’assenso del presidente e si accinse così a mantenere la promessa fatta più di due anni prima in Australia.

Oggi, alcuni autorevoli storici militari ritengono che questa “diversione strategica” verso le Filippine non fece altro che ritardare la vittoria finale americana, e fu dovuta principalmente alla sua forte volontà di tornare a tutti costi su quelle isole.

Ma un’altra chiave di lettura potrebbe invece suggerire che egli stava anche guardando agli equilibri geopolitici del dopoguerra, nell’ambito dei quali il prestigio degli Stati Uniti necessitava di quella “rivincita” e di ribadire la propria influenza sull’area del Pacifico sud-occidentale.

Nella foto in alto a sinistra, Douglas MacArthur sul ponte della corazzata USS Missouri, nel porto di Tokyo, mentre il 2 settembre 1945 controfirma per conto delle potenze alleate la capitolazione del Giappone.

 

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3. Il ritorno

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Le operazioni per il “ritorno” di MacArthur e degli americani nelle Filippine iniziarono il 18 ottobre 1944, e due giorni dopo ci fu il grande sbarco sull’isola di Leyte, nell’area centrale dell’arcipelago.

Nel primo pomeriggio del 20 ottobre, con i combattimenti sulle spiagge ancora in corso, il generale decise subito di scendere personalmente a terra, ma a causa di un’avaria del natante che lo trasportava fu costretto a percorrere con il suo seguito l’ultimo tratto che lo separava dalla terraferma a piedi, con l’acqua alle ginocchia (foto sotto), una scena che diverrà in breve tempo una delle più famose della Seconda guerra mondiale.

Poco tempo dopo, il 18 dicembre 1944, fu promosso General of the Army, il grado che nell’esercito americano corrisponde alla “quinta stella” da generale.

Dopo la riconquista di Corregidor, vi volle tornare il successivo 2 marzo 1945, simbolicamente, così come ne era fuggito tre anni prima: a bordo di una motosilurante.

Le dure battaglie terrestri e aeronavali nelle Filippine furono tra le più aspre di tutta la guerra contro il Giappone e si prolungarono praticamente fino al settembre 1945, cioè un mese dopo la resa del governo di Tokyo.

Finita la guerra, la parabola di MacArthur non era però ancora giunta al termine. Il 2 settembre 1945 – lo storico giorno che pose fine al secondo conflitto mondiale – a bordo della corazzata Missouri fu lui ad apporre la firma per conto delle potenze alleate sul documento di resa del governo nipponico.

Ma un nuovo capitolo della sua vita era già iniziato due settimane prima, il 14 agosto, con la nomina a comandante delle truppe d’occupazione del Giappone, una carica che corrispose, de facto, a quella di governatore del Paese. MacArthur rimase quindi in Asia, in quello che però era un dopoguerra già gravido di nuove tensioni.

Il 1° gennaio 1947 diventò comandante del Far East Command (FECOM), il neocostituito comando strategico statunitense per l’Estremo Oriente, una posizione dalla quale sarebbe nuovamente tornato alla ribalta. Tre anni e mezzo dopo, infatti, una nuova guerra asiatica coinvolse l’America.

 

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4. Oltre il 25° parallelo

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Il 25 giugno 1950 il regime comunista della Corea del Nord invase la parte meridionale del Paese, amministrata da un governo democratico, facendo scattare l’intervento militare delle Nazioni Unite a supporto dei sudcoreani.

Nella sua veste di comandante di tutte le forze statunitensi nell’area – che furono le prime a intervenire – l’8 luglio 1950 MacArthur fu posto a capo del contingente ONU impegnato nel conflitto.

Dopo aver condotto l’estrema difesa del perimetro di Pusan, nella parte sud-orientale della penisola, dopo pochi mesi mise a frutto quella che probabilmente fu una delle sue migliori intuizioni strategiche. Il 15 settembre 1950 la 1a Divisione Marine sbarcò a Inchon, mettendo in atto una brillante manovra di aggiramento anfibio, che riuscì perfettamente.

Tuttavia, nei mesi successivi, la situazione si fece difficile con l’entrata nel conflitto della Cina, che dal 25 ottobre sferrò una controffensiva che entro i primi giorni del gennaio 1951 respinse di nuovo le forze dell’ONU ben addentro al territorio coreano.

Da quel momento i rapporti tra MacArthur e la Casa Bianca, dove dall’aprile 1945 si era insediato il presidente Henry Truman, diventarono sempre più tesi.

Quest’ultimo iniziò infatti a tollerare sempre meno le critiche plateali che il generale faceva alla politica della sua amministrazione, volta a limitare i rischi di uno scontro diretto con l’Unione Sovietica e perseguita con una serie di restrizioni alle operazioni militari in Corea, la più importante delle quali vietava attacchi diretti al territorio cinese.

Alla fine, lo scontro tra il presidente e il “generale ribelle”, come venne definito in un famoso film dove a prestargli il volto era Gregory Peck, giunse al punto di non ritorno. L’11 aprile fu destituito da tutti gli incarichi.

La grande avventura di Douglas MacArthur si concluse una settimana dopo, quando giunse a San Francisco direttamente dalla Corea, con la sua famiglia.

Dei suoi ultimi anni ci restano i memorabili discorsi da lui tenuti al Congresso americano – di fronte al quale pronunciò la celebre frase “i vecchi soldati non muoiono mai” – e a West Point, il 12 maggio 1962, due anni prima della sua scomparsa, che avvenne a Washington il 5 aprile 1964.

 

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5. Un generale “interforze” e la costruzione di un mito

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  • Un generale “interforze”
    Le operazioni condotte dalle forze statunitensi agli ordini di MacArthur in Nuova Guinea (nel 1942-1944) e nelle Filippine (nel 1944-1945) furono molto importanti dal punto di vista tecnico-operativo, e in qualche modo paradigmatiche dei più importanti sviluppi che proprio il secondo conflitto mondiale stava imprimendo alla guerra moderna.
    In entrambe le campagne, infatti, pur essendo un generale dell’esercito, MacArthur ebbe il controllo di tutte e tre le componenti di un moderno strumento militare: quella terrestre, quella navale e quella aerea.
    Alle dipendenze del suo quartier generale della South West Pacific Area (SWPA), in Australia, tra il settembre 1942 e il marzo 1943 si costituirono i comandi della Quinta Forza Aerea, della Settima Flotta e della Sesta Armata statunitensi.
    A questi, per la riconquista delle Filippine, si aggiunsero i comandi della Tredicesima Forza Aerea e dell’Ottava Armata.
    MacArthur seppe, quindi, abilmente dirigere tutta una serie di battaglie aeroterrestri, aeronavali e anfibie, estremamente complesse e, di fatto, “interforze”, secondo un modello che oggi è parte integrante della dottrina NATO e delle principali nazioni occidentali.

 

  • La costruzione di un mito
    Douglas MacArthur fu un generale che seppe costruire in prima persona il suo mito personale, anche attraverso una precisa strategia di comunicazione.
    Durante la Seconda guerra mondiale, l’ufficio stampa del suo quartier generale di Brisbane, in Australia, era uno dei più grandi e meglio organizzati tra tutti gli alti comandi americani ed egli lo sfruttò sapientemente per promuovere la propria immagine.
    Alcune sue imprese furono condite con gesti volutamente teatrali, ai quali venivano immancabilmente invitati giornalisti e fotografi per immortalare l’evento.
    Fu ciò che accadde durante la riconquista delle Filippine, a Leyte e a Corregidor, ma anche nella precedente campagna in Nuova Guinea.
    Il 29 febbraio 1944, per esempio, durante lo sbarco sull’isola di Los Negros, nelle Isole dell’Ammiragliato, egli volle scendere a terra con i combattimenti ancora in pieno svolgimento, e quando un tenente lo avvertì che pochi minuti prima un cecchino giapponese era stato eliminato nelle vicinanze, lui si limitò a rispondere laconicamente: «Questa è la cosa migliore da fare con loro», continuando poi con noncuranza la sua ispezione.

 

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