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Il mondo dopo Greta

C’è un punto di non ritorno nella nostra percezione del problema legato al cambiamento climatico.

È il 20 agosto 2018 quando la quindicenne svedese Greta Thunberg proclama il suo primo sciopero per il clima, dichiarando che non andrà a scuola fino alle elezioni legislative del suo Paese, previste per il 9 settembre.

Non si tratta di una decisione impulsiva, ma di una scelta nata dal timore suscitato dalle eccezionali ondate di calore e dagli incendi senza precedenti che quell’estate assediano la Svezia.

Greta chiede al suo Governo di ridurre le emissioni di anidride carbonica, come previsto dalla conferenza di Parigi sul clima (Cop21) del dicembre 2015, nella quale si è stabilito di limitare il riscaldamento del pianeta a 1,5 °G rispetto ai livelli preindustriali.

Secondo alcune ipotesi scientifiche, un innalzamento superiore ai 2 °C potrebbe infatti innescare il fatale “warming feedback loop”, scenario apocalittico in cui il pianeta reagirebbe all’aumento della temperatura amplificando il riscaldamento e rendendo inutile ogni sforzo per abbattere le emissioni.

A due anni dal primo sciopero, il movimento della Thunberg è più vivo che mai. E non si arrende, nonostante la pandemia…

 

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1. Il lungo autunno caldo

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Impermeabile giallo, trecce sulle spalle e cartello di protesta ben in vista, ogni giorno Greta rimane seduta per ore davanti al Rikstag, il Parlamento svedese.

Il suo slogan, scritto su un cartellone che diventa ben presto il simbolo della protesta (e una vera icona pop su scala planetaria) è “Skolstrejk for klimatet”, cioè “sciopero della scuola per il clima”.

La Thunberg diventa così la paladina mondiale della battaglia ecologista, osannata e odiata con uguale intensità, e non di rado dileggiata da adulti astiosi che dubitano della sua genuinità o immaginano complotti dietro la sua figura di ragazzina timida e apparentemente poco comunicativa.

Le polemiche e le critiche cominciano a colpirla da subito: c’è chi sospetta che il suo “sciopero” sia solo una mossa pubblicitaria per spingere il libro della madre, la cantante Malena Ernman, anche lei ultra-ecologista.

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Altri dietro Greta vedono lo zampino di Ingmar Rentzhog, guru ambientalista con un incarico nel Climate Reality Project di Al Gore (ex candidato democratico alla Casa Bianca, anch’egli contestato, a suo tempo, perché la sua casa “green” consumava 20 volte più elettricità di una qualsiasi comune abitazione) e fondatore della start-up We don’t Have Time (“Non abbiamo tempo”).

Difficile da dimostrare: ma è proprio Rentzhog il primo a postare su Facebook una foto della Thunberg, attirando l’attenzione di giornali e tv nazionali.

In ogni caso, anche dopo le elezioni Greta continua a protestare, saltando la scuola ogni venerdì e lanciando i Fridaysfor Future, i “venerdì per il futuro”. Sulla sua scia il movimento si diffonde in tutto il mondo. Il 4 dicembre 2018 la ragazzina parla alla Cop24, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si tiene a Katowice, in Polonia. «

Ciò che speriamo di ottenere da questo congresso è di comprendere che siamo di fronte a una minaccia esistenziale. Questa è la crisi più grave che l’umanità abbia mai attraversato» dice.

Ma la sua voce risuona ancora più alta e decisa il giorno della chiusura dei lavori, il 14 dicembre: «Voi parlate soltanto di proseguire con le stesse cattive idee che ci hanno condotto a questo casino, anche quando l'unica cosa sensata da fare sarebbe tirare il freno d’emergenza (...) La biosfera è sacrificata perche alcuni possano vivere in maniera lussuosa. La sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi. Se è impossibile trovare soluzioni all'interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema».

 

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2. Un anno di impegno

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Nel gennaio 2019 Greta interviene al Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera, dove il suo discorso si conclude con un categorico: «Vi voglio vedere nel panico».

Durante il viaggio in treno per recarsi all’evento si scatta una foto mentre pranza e la pubblica su Twitter: sul tavolo due banane, due bottiglie di metallo, alcune confezioni.

Scattano subito le critiche degli utenti che l’accusano di mangiare cibo fuori stagione e usare plastica, e c'è chi si riferisce a lei come al «giocattolo di una grande e ipocrita macchina lavacervelli».

Il 15 marzo, almeno 1.700 città in più di 100 Paesi del mondo si fermano per il primo sciopero mondiale per il clima. L ’attività di Greta prosegue inarrestabile, coinvolgendo milioni di ragazzi.

A luglio, quando il nigeriano Mohammed Sanusi Barkindo, segretario generale dell'Opec (il cartello dei Paesi produttori di petrolio), dichiara che Greta e gli altri giovani attivisti rappresentano «la più grande minaccia» all'industria dei combustibili fossili, la Thunberg commenta: «E' il più bel complimento che abbiamo ricevuto».

Ma non si spegne l'idea che dietro di lei si muova una ben oliata macchina del marketing, formata da politici e industriali, che beneficerebbero di finanziamenti pubblici per la produzione di energia pulita ad alto costo, e ideologi dell’ambientalismo.

Secondo il filosofo Carlo Lottieri, ci sarebbe anche «il progetto di un nuovo social network volto a sensibilizzare il pubblico in materia climatica (...) una sorta di Facebook tematico: ed è facile immaginare quali siano i risvolti commerciali dell'operazione».

Nell’agosto 2019 Greta attraversa l'Atlantico su una barca a vela dotata di pannelli solari (di proprietà di Pierre Casiraghi, il figlio multimilionario di Carolina di Monaco) per partecipare al vertice delle Nazioni Unite sull’azione per il clima.

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Il suo discorso è semplice e incisivo: «E tutto sbagliato. Non dovrei essere qui. Dovrei essere a scuola, dall’altra parte dell’oceano. Ma voi venite da noi giovani a cercare speranza. Come osate? Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote! Eppure io sono una delle fortunate. La gente soffre. La gente muore. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all'inizio di un’estinzione di massa e tutto ciò di cui sapete parlare sono i soldi e le favole di un’eterna crescita economica!».

Di certo la nuova idea verde che ha Greta come testimonial si presenta accattivante e spendibile a vari livelli, tanto che anche Ursula von der Leyen, nel suo discorso di insediamento come presidente della Commissione Europea, si dilunga sui temi della sostenibilità ambientale, con la proposta di un ambizioso Green New Deal per il Vecchio Continente.

Ma scrive in proposito il filosofo Corrado Ocone: «E come se le élite europee avessero trovato nella sostenibilità ambientale un sostituto della vecchia e illuministicamente inservibile religione cristiana, con tutto il suo universo valoriale».

Nel frattempo, Amnesty International premia Greta con l'Ambassador of Conscience Award per la sua leadership nel movimento per il clima; la prestigiosa rivista scientifica «Nature» la inserisce nell’elenco delle dieci persone più influenti a livello mondiale «per aver portato in primo piano la scienza del clima»; «Time» la nomina “ Persona dell’anno”, la più giovane a vedersi attribuire il riconoscimento. Ma mentre la Thunberg va in copertina, in Cina si registrano i primi casi di Covid-19.

L’inaspettato stravolge ogni progetto e l'attenzione del mondo viene catalizzata da un’altra emergenza. Che ne è stato di Greta e dei ragazzi dei Fridaysfor Future? Soprattutto, che cosa hanno fatto concretamente i governi da quando la Thunberg ha posto l’attenzione su un problema la cui soluzione non può più essere rimandata?

 

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3. Non esiste un pianeta B

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Ispirati dalla tenacia di Greta, milioni di giovani hanno dato vita ad affollate manifestazioni pacifiche e messo in piedi organizzazioni come Youth for Climate (“Gioventù per il clima”), perseguendo un unico obiettivo: chiedere ai potenti della Terra azioni urgenti e immediate per ridurre le emissioni di CO2 e porre un freno al riscaldamento globale. In fondo a tutto questo, un grido silenzioso e quasi disperato per rivendicare il “semplice” diritto ad avere un futuro.

Così, mentre per le strade si udivano slogan come “There is No Planet B” (non esiste un pianeta B), “Time is Running Out” (il tempo stringe) e “Our House is on Fire” (la nostra casa è in fiamme, preso dalla copertina del libro scritto da Greta con la sua famiglia), il tema della sostenibilità è balzato al centro del dibattito globale.

All’inizio, l'immagine di questa ragazzina poteva sembrare poco più che pittoresca (ricordava il caso di Severn Suzuki, la dodicenne canadese che nel 1992 aveva tenuto un discorso all'Onu sulle questioni ambientali viste dai giovani ed era diventata celebre come “la bambina che zittì il mondo per 6 minuti”).

Ma il discorso di Katowice ha fatto capire la serietà con cui la Thunberg stava affrontando il problema: «Non sei mai troppo piccolo per fare la differenza».

Parole destinate a fare il giro del mondo e a diventare quasi un mantra, fino a riverberarsi in quelle di papa Francesco, che ha incontrato Greta nell’aprile 2019 e nella sua enciclica Laudato si' ha voluto dimostrare, più di tanti leader politici, sostegno concreto alla causa ambientalista.

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L’impatto della Thunberg sui suoi coetanei e sulla società e innegabile. Si parla di “generazione Greta” per riferirsi ai giovani attenti ai temi della sostenibilità: nativi ecologici, oltre che digitali.

Anche grazie a loro le bottigliette di plastica vengono sostituite con bonacce in alluminio (una scelta che qualcuno ritiene, in realtà, ecologicamente più costosa), mentre il motore di ricerca Ecosia, che promette di donare l’80% del ricavato dalla pubblicità a programmi di rimboschimento, diventa una seria alternativa a Google.

Nelle scuole si moltiplicano le attività per istruire bambini e ragazzi sull’importanza del riciclo e dell’utilizzo di mezzi di trasporto a ridotto impatto ambientale. L’attivismo di Greta porta in prima pagina le questioni legate all’ambiente, e non si ferma nemmeno con l’emergenza Covid-19.

Semplicemente, si sposta sulla rete e si trasforma in “digital strike”: un grande sciopero online a cui si partecipa postando foto o slogan e usando l'hashtag #ClimateStrikeOnline, a dimostrazione che la “generazione Greta” non si arrende.

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Tuttavia, due anni dopo il primo sciopero per il clima, il vero cambiamento non è ancora iniziato e la Thunbcrg torna a far sentire la sua voce per chiedere ai leader europei un piano d’azione concreto per combattere la crisi climatica.

Come ha dichiarato in un’intervista al quotidiano inglese “The Guardian”, in questi due anni «il mondo ha emesso più di 80 gigatonnellate di CO2. Abbiamo assistito a continui disastri naturali in tutto il mondo: incendi, ondate di caldo, inondazioni, uragani, tempeste, disgelo del permafrost e collasso di ghiacciai e interi ecosistemi [eventi che, secondo stime elaborate dalla Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa, potrebbero costringere 200 milioni di persone ogni anno a fare affidamento su aiuti umanitari per sopranivere].
I leader di tutto il mondo parlano di “crisi vitale”. L’emergenza climatica è discussa in innumerevoli meeting e vertici. Si prendono impegni, si tengono grandi discorsi. Tuttavia, quando si tratta di agire siamo ancora in uno stato di negazione. Il divario tra ciò che dobbiamo fare e ciò che viene fatto si amplia di minuto in minuto. Abbiamo perso altri due anni cruciali a causa dell’inazione politica».

 

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4. Un ritardo insanabile?

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Il Covid-19, comunque, non ferma Creta. Il 20 agosto 2020, nel secondo anniversario del suo “Skolstrejk for klimatet”, consegna alla cancelliera tedesca Angela Merkel una lettera aperta, firmata da oltre 125 mila persone, compresi scienziati, attivisti e influencer.

Il documento elenca i punti essenziali per affrontare la crisi climatica in atto, tra cui: interrompere «tutti gli investimenti e le sovvenzioni sui combustibili fossili, rendere l’ecocidio un crimine internazionale e istituire bilanci annuali vincolanti per il carbonio».

L’Unione Europea, insieme al Regno Unito, è responsabile del 22% delle emissioni globali cumulative storiche (al secondo posto ci sono gli Stati Uniti), per questo l’incontro con la Merkel è così importante: la cancelliera può fare da garante affinché vengano mantenuti gli impegni presi durante la conferenza di Parigi.

Il cambiamento è necessario e urgente, ma i leader mondiali continuano a fare promesse vane. Greta, però, insiste: occorre agire nell’immediato per evitare la catastrofe in atto, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento delle temperature, la scomparsa della biodiversità, la diffusione di malattie virali.

Come ha messo in evidenza la recente pandemia da Covid-19, infatti, esiste un nesso fra le ultime due emergenze: a sostenerlo è David Quammen, autore del libro Spillover.

Già nel 2014, egli ipotizzava che la riduzione degli habitat naturali avrebbe spinto animali potenzialmente pericolosi per l’uomo, come pipistrelli o roditori, in prossimità dei centri urbani, facilitando quel passaggio di specie capace di destare pericolose pandemie, a partire da virus dormienti e ancora poco conosciuti.

La negazione (o meglio, la sottovalutazione) della crisi climatica ed ecologica ci sta conducendo verso il baratro? C’è ancora speranza di creare un mondo sostenibile?

 

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5. Il rischio del 5%

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Stretto fra molte contraddizioni (allo stato attuale, l’energia pulita, così come uno stile di vita “verde”, sono da considerare un lusso), il decennio che sta per iniziare può essere quello della svolta.

A patto che i politici non sottovalutino ulteriormente i rischi del cambiamento in atto.

Secondo gli scienziati Yangyang Xu e Veerabhadran Ramanthan è in questi anni che dobbiamo mettere in campo tutte le risorse possibili per costruire un’economia a zero emissioni e rendere realistica la possibilità di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C.

In caso contrario si prospettano scenari da incubo: nel 2050, con un riscaldamento globale di 3 °C, buona parte degli ecosistemi collasserebbe.

Il 35% della superficie terrestre (dove vive il 55% della popolazione mondiale) sarebbe investita per almeno 20 giorni l’anno da ondate di calore abnorme; il 30% della superficie terrestre inaridirebbe; una crisi idrica colossale investirebbe 2 miliardi di persone, facendo crollare i raccolti del 20% e creando 1 miliardo di profughi climatici.

Questo pronostico catastrofico è suffragato dai ricercatori australiani del National Center for Chinate Restoration, guidati da David Spratt e Ian Dunlop. Il loro studio “Existential Climate-Related Security Risk" prevede che entro il 2100 i gradi di riscaldamento saliranno a 5.

Tuttavia, altri studiosi ritengono che già un aumento di 4 °C sarebbe sufficiente a degradare l’ecosistema mondiale, portando alla fine della civiltà. Commenta Hans Joachim Schellnhuber, climatologo del Potsdam Institute for Climate Impact Research: «La specie umana in qualche modo sopravvivrebbe, ma perderemmo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».

Come rileva lo studio australiano, il rischio e legato al superamento di alcune soglie di non ritorno, come la distruzione delle calotte polari e l’innalzamento del livello dei mari. Limiti che una volta oltrepassati trasformerebbero il cambiamento climatico in un evento dalla portata e dalle conseguenze difficilmente prevedibili.

Quello della fine della civiltà umana è un rischio che Ramanthan stima al 5%, e si chiede: «Chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?». E arrivato il momento di agire. Domani potrebbe essere già ieri.

 

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