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Il muro di Berlino: perché è caduto e quali sono state le conseguenze?

Il presidente americano Ronald Reagan  non era nuovo ad atteggiamenti provocatori nei confronti dei suoi interlocutori sovietici.

La sua personalissima interpretazione del processo di distensione avviato nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo una lunga contrapposizione al segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv, era infatti caratterizzata da dichiarazioni assai poco diplomatiche e irrituali.

Il 12 giugno 1987, in visita a Berlino, Reagan, incurante delle tensioni e dell’imbarazzo che le sue parole potevano causare, in un discorso pronunciato proprio davanti al posto di confine della Porta di Brandeburgo disse: «Perché questo muro è ancora in piedi?».

Poi rivolse direttamente al leader sovietico una esortazione: «Signor Gorbačëv, apra questa porta! Signor Gorbačëv, abbatta questo muro!».

Quelle parole non ebbero al momento particolare attenzione internazionale: duramente stigmatizzate dai sovietici come “guerrafondaie” e “irresponsabili”, furono però presto dimenticate e non esercitarono alcun effetto concreto sugli avvenimenti che avreb­bero effettivamente portato all’abbattimento di quel muro nel giro di soli due anni.

Confine tra Est e Ovest, in perenne e minaccioso conflitto, il muro di Berlino fu un incubo durato 28 anni. La sua caduta, ufficialmente auspicata ma in realtà non a tutti gradita, colse di sorpresa il mondo intero.

Ecco i retroscena che resero possibile questo “miracolo” che stravolse gli scenari europei.

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1. Gorbačëv, il riformatore

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Il discorso del presidente americano Ronald Reagan, in occasione della sua visita a Berlino il 12 giugno 1987, tornò prepotentemente di attualità dopo la fatidica notte del 9 novembre 1989, quando il muro di Berlino realmente si sbriciolò sotto l'impeto dei berlinesi dell’Est e dell'Ovest.

Alle parole di Reagan fu allora, a posteriori, conferito un valore profetico ed evocativo, quasi visionario, di quegli storici eventi.

Come se fosse realmente accaduto che i leader sovietici avessero preso seriamente in considerazione la veemente richiesta del presidente americano e alla fine avessero deciso di esaudirla. E riflettendoci a posteriori non si può escludere che sia andata più o meno così.

Reagan, con la sua studiata avventatezza, aveva invitato l'Unione Sovietica ad assumere direttamente e con determinazione la guida di un processo che il presidente americano considerava non solo inevitabile ma ormai maturo.

La fine della guerra fredda e la distensione internazionale non potevano più aspettare. E quel processo era già stato avviato proprio dal nuovo, sorprendente leader dell'Unione Sovietica, Michail Gorbačëv.

A partire dalla seconda metà degli Anni Ottanta, l’avvio da parte di Michail Gorbačëv di quell'ampio sistema di riforme che conosciamo col nome di “perestroika" (ristrutturazione) e della concomitante apertura di un dibattito pubblico e trasparente (la “glasnost") aveva imposto all'Unione Sovietica e ai suoi satelliti cambiamenti profondi sia di politica interna sia nelle relazioni tra questi ultimi e la stessa URSS. Nella foto sotto, alcuni operai della Germania Est intenti alla costruzione del muro, iniziata il 13 agosto 1961.

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A Mosca si era ormai abbandonata la “dottrina Brežnev” secondo la quale ogni minaccia nazionale o internazionale al regime di un Paese comunista costituiva un pericolo per tutti gli altri e una reazione, anche militare, era non solo giustificata ma necessaria.

L'esito assai poco confortante dell'intervento militare sovietico in Afghanistan e l'ampio consenso popolare ottenuto in Polonia, a partire dai primi anni Ottanta, dalle proteste del sindacato Solidarnosc, capeggiato da Lech Walesa (che sarebbe un giorno non lontano diventato presidente della repubblica polacca) nonché il malcontento che montava anche in tutti gli altri Paesi, avevano consigliato un deciso, anche se fino a quel momento impensabile, cambio di rotta.

La repressione dei movimenti di liberazione dal giogo sovietico, come la cosiddetta “primavera a di Praga"- che pure avrebbe ancora conosciuto momenti di particolare durezza - era servita solo ad avvelenare ancor più gli animi.

Tutti i leader comunisti dei Paesi “satelliti" apparivano esclusivamente interessati a compiacere Mosca e le sue direttive pur di mantenere il proprio potere, con i privilegi e la corruttela che il sistema garantiva, piuttosto che guadagnarsi il consenso dei propri popoli con il buon governo. Ma fu proprio da Mosca che partirono i primi fremiti di cambiamento.

A partire dalla primavera del 1985 l’Unione Sovietica iniziò ad adottare in modo sempre più deciso ed esplicito una politica di non ingerenza verso i partiti “fratelli", lasciando che scegliessero la loro strada per democratizzare e riformare i propri Paesi, perché l'Unione Sovietica non voleva - e forse non poteva più - tollerare il loro malgoverno, che fomentava nei popoli voglia di cambiamento, nocivo per gli ideali del socialismo.

Era un severo richiamo alle classi dirigenti del Comunismo europeo, nella convinzione, che si rivelerà ingenua, che le popolazioni dell'Europa orientale avrebbero per questo solo motivo espresso eterna gratitudine all'URSS, e tanto sarebbe bastato a rifondare in modo pacifico e controllato l'unità politica delle nazioni comuniste. Ora sappiamo che le cose non andarono così.

Non tutti i leader dei Paesi del Patto di Varsavia avevano accolto con favore l’avvento della “ristrutturazione" e tenuto lo stesso passo nel processo della sua realizzazione pratica, ma il 1989 sarà comunque l'anno della sua decisa accelerazione.

Fino ad allora correnti contrarie alla perestrojka erano assai attive in tutto il Patto di Varsavia, malviste da Mosca e comunque incapaci di proporre alcuna idea alternativa alla nuova dottrina di Michail Gorbačëv, così la loro reazione conservatrice perse gradatamente incisività. Dovevano adeguarsi, anche se non sapevano esattamente come.

In Polonia, ad esempio, il processo di democratizzazione era più avanzato, e il 4 giugno del 1989 - lo stesso giorno della sanguinosa repressione in Cina del movimento di protesta di Piazza Tienanmen - si tennero le prime elezioni libere, registrando un vero e proprio plebiscito per Solidarnosc.

 

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2. Il cambiamento non piace a tutti

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In Germania orientale, al contrario, l’anziano leader Erich Honecker (nella foto a sinistra) era granitico nella difesa del suo regime, nonostante il susseguirsi di imponenti manifestazioni di piazza, che inutilmente aveva cercato di soffocare, giungendo persino a richiedere l’intervento “pacificatore” dell’Armata Rossa.

Evidentemente non aveva capito che a Mosca l'aria era cambiata e si diceva apertamente che per il leader comunista tedesco, a 78 anni e con una salute malferma, fosse giunto il tempo di farsi da parte.

Le cose stavano maturando rapidamente. Il 17 luglio 1989 l'Ungheria, infatti, cancellò un primo tratto della “cortina di ferro" eliminando la barriera elettrificata di confine che la separava dall'Austria, liberalizzando la circolazione delle persone da un Paese all'altro.

Una vera rivoluzione, senza ritorno. Immediatamente migliaia di tedeschi dell'Est ne approfittarono per espatriare in Occidente transitando dall'Ungheria. Furono subito blindati i confini tra Germania Est e Ungheria, ma chiudere il recinto dopo che i buoi erano scappati provocò, inevitabilmente, ulteriori accese proteste nella Repubblica Democratica Tedesca.

Anche i più stretti collaboratori di Honecker si convinsero della necessità di scalzarlo in ogni modo dal potere, nella speranza, illusoria, che l'individuazione di un capro espiatorio sarebbe bastata a calmare la popolazione e a ristabilire l'ordine. I

n una visita a Berlino Est, il 7 ottobre, Gorbačëv, che era al fianco di Honecker, fu acclamato al grido di «Gorby, salvaci tu!», e la polizia reagì malmenando ed arrestando i manifestanti più entusiasti: ovvero centinaia di appartenenti alla Libera gioventù tedesca (Freie Deutsche Jugend), la formazione giovanile del partito.

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Fra una nuova goccia in un vaso che in realtà era già traboccato da anni. Nella riunione del Politburo del Partito del 10-11 ottobre, convocata dal suo vice Egon Krenz, Honecker fu messo in stato d'accusa, dimissionato all'unanimità e sostituito dallo stesso Krenz.

Una sostituzione tardiva, come sottolineò lo stesso Gorbačëv, ma soprattutto senza prospettive, perché tra i leader della Germania Est regnava la confusione più completa sul da farsi, nel vuoto causato dalla sparizione improvvisa di Honecker.

In Occidente gli avvenimenti che stavano travolgendo i Paesi del blocco comunista venivano seguiti con attenzione, ma anche con apprensione: il mutamento, che per decenni in America e in Europa era stato considerato un comune e primario obiettivo strategico, dal momento che appariva non solo possibile ma anche imminente, provocava fibrillazioni e reazioni non meno disordinate, improvvisate e scomposte di quelle che si verificavano nel blocco orientale.

Fece eccezione il neo-presidente americano George H. W. Bush, salito in carica nel gennaio 1989, che inizialmente si era mostrato abbastanza freddo e meno disponibile del suo predecessore Ronald Reagan nei confronti di Michail Gorbačëv, e persino scettico sulla sincerità delle sue intenzioni.

Bush era comunque il politico americano più esperto in politica internazionale e giunse presto alla convinzione che dimostrarsi troppo precipitoso nel giudicare la situazione o, ancora peggio, cercare di intervenire attivamente per instradarla in una precisa direzione, sarebbe stato nocivo per la leadership sovietica, portando acqua al mulino dei conservatori.

 

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3. Quel muro non deve cadere

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Molto meno cauta fu invece la reazione in Europa. I maggiori leader continentali mostrarono senza ambiguità di non gradire la prospettiva di una riunificazione della Germania, che tutti vedevano come la logica conseguenza di quanto stava avvenendo.

Al di là delle affermazioni ufficiali di facciata, in Europa si sarebbe stati disposti a tutto piuttosto che accettare la caduta del tanto deprecato muro.

Due mesi prima della caduta del muro, Margaret Thatcher incontrò a Mosca Michail Gorbačëv e senza mezzi termini dichiarò al leader sovietico che né la Gran Bretagna né l'Europa volevano la riunificazionc della Germania e lo pregò di fare tutto quanto in suo potere per impedirlo.

La “Lady di Ferro” gli disse, con la sua maschera inespressiva: «La mia interpretazione della sua posizione è la seguente: lei accetta che ogni Paese si sviluppi a modo suo, a condizione che il Patto di Varsavia rimanga in vigore.

Per me questa posizione è perfettamente comprensibile», che nel linguaggio diplomatico esprimeva il suo pieno sostegno allo status quo, due Germanie, con quella orientale saldamente nel blocco sovietico.

Non meno attivo nell'intenzione di bloccare in qualsiasi modo lo sfaldamento del Patto di Varsavia e la riunificazione tedesca fu il socialista Francois Mitterrand, presidente della Francia.

Con un'ambizione in più: quella di riaffermare l'antico blocco continentale franco-russo, in funzione come un tempo anti-germanica, tanto da spingersi ad offrire truppe per una missione militare congiunta franco-sovietica nella Repubblica Democratica Tedesca, per tenere sotto controllo la Germania Est in caso di una rivolta popolare.

Questo benché dal suo Ministero degli Esteri, il Quai d'Orsay, cercassero di convincerlo della inattualità di questo progetto, anche in considerazione del fatto che per l'Unione Sovietica le relazioni con la Germania sarebbero state sempre prioritarie rispetto a quelle con la Francia.

E Mosca? Ancora il 3 novembre, 6 giorni prima che il muro fosse abbattuto, al Cremlino si continuava a discutere di quale linea seguire, senza giungere ad una conclusione.

Fu in occasione di questa riunione di vertice che il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze ripescò il consiglio di Ronald Reagan, suggerendo di prendere direttamente l'iniziativa di abbattere il muro. L’idea fu accantonata per le ripercussioni imprevedibili che avrebbe potuto avere sul regime di Krenz.

Lo stesso Gorbačëv pur sapendo bene che l’Occidente non voleva la riunificazione tedesca, non intendeva usare l’Unione Sovietica per impedirla, cosa che avrebbe contraddetto la sua stessa dottrina di non ingerenza nei Paesi alleati.

Impedire il ricongiungimento pangermanico, inoltre, avrebbe causato un conflitto insanabile tra URSS e Germania Occidentale, destinato a segnare le relazioni dei due Paesi nei decenni a venire.

Se confusione e inazione regnavano sovrane nelle alte sfere della politica mondiale, non dobbiamo stupirci che il 9 novembre 1989 la caduta del muro di Berlino sia stata frutto del caso.

 

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4. Meglio due Germanie

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Dai primi giorni di quel mese di novembre i tedeschi orientali affollavano i valichi di frontiera con la Cecoslovacchia per recarsi in Ungheria e da lì in Germania occidentale.

Per risolvere il congestionamento, Krenz aveva deciso di aprire temporaneamente tutti i valichi di frontiera, compresi quelli berlinesi, ma un difetto di comunicazione aveva causato un’incomprensione con il funzionario incaricato dell’annuncio in una conferenza stampa - per la cronaca Gunter Schabowski, segretario del partito di Berlino Est - che, a domanda diretta di un giornalista, dichiarò la validità immediata del provvedimento, anziché, come in realtà stabilito, per il giorno successivo.

Immediatamente un’enorme folla si radunò a Est come a Ovest del muro, chiedendo alle guardie frontaliere comuniste l’apertura dei passaggi «come era stato detto in televisione». I responsabili dei valichi, annaspando senza ordini precisi, rinunciarono responsabilmente a disperdere la folla con le armi e alla fine spalancarono i cancelli.

La folla esultante dilagò di qua e di là del muro, mescolandosi e abbracciandosi, poi prese ad aprire brecce nel muro con ogni mezzo disponibile e, accanto ai varchi ufficiali, se ne spalancarono altri e poi altri ancora: l’evento più atteso, e insieme più temuto, in Europa e nel mondo, che tante preoccupazioni e incertezza aveva causato nei potenti, si concluse con un gioioso happening.

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Iniziava ora tutta un’altra partita che in meno di un anno portò, il 3 ottobre 1990, ad un unico stato tedesco. Invano la signora Thatcher, isolata persino nel suo governo, sfidò Helmut Kohl (cancelliere della Repubblica Federale Tedesca) a fare “la svolta” - die Wende, come i tedeschi definirono, diplomaticamente, la riunificazione - contro la sua volontà.

Kohl tirò dritto, guadagnandosi il merito di quell’evento epocale: la riunificazione della Germania. Il vero merito fu di un intero popolo, che nel vuoto lasciato dall’inadeguatezza della politica si era pacificamente, ma irresistibilmente espresso. E la Storia gli ha dato ragione.

Helmut Kohl, fu il primo cancelliere della nuova Germania! Helmut Kohl (1930-2017) era cancelliere della Repubblica Federale Tedesca dal 1982. Politico esperto e abile, nel 1989 fu preso alla sprovvista dalla caduta del muro di Berlino, come peraltro tutti i principali attori politici a lui contemporanei.

Dopo i fatti del 9 novembre, però, agì con decisione e fermezza per realizzare il mandato costituzionale che lo impegnava a perseguire la riunificazione tedesca.

Rassicurò l'Unione Sovietica grazie all’aiuto degli Stati Uniti che garantirono il percorso di pace e convinse anche i più riottosi tra i partner europei, in particolare Margaret Thatcher, che alla fine capì di non avere nulla da temere da una Germania unificata, e Francois Mitterrand, il quale individuò nell’Unione Europea lo strumento per integrare senza traumi la Germania in un nuovo ordine mondiale.

Il 3 ottobre 1990 la Germania fu unificata ufficialmente, con capitale Berlino, designando Kohl come il più importante politico tedesco dell’epoca moderna. E dalla Germania dell’Est arrivò una giovane politica di nome Angela Merkel, futura protagonista della politica tedesca ed europea.

 

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5. L'uomo che diede inizio al crollo dell'impero comunista: il polacco Giovanni Paolo II

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Per la Chiesa cattolica non può esistere un papa più importante di altri, perché i cardinali che lo hanno scelto in conclave sono stati ispirati, ciascuno di loro, dalla imperscrutabile volontà dello Spirito Santo e la sua designazione, dunque, fa parte di un disegno divino.

E lo sconosciuto prelato polacco Karol Wojtyla ebbe un ruolo particolarmente importante nei disegni divini del XX secolo.

Questo non vuol dire che Giovanni Paolo II sia stato un papa più “politico” di altri, intenzionato a influenzare gli eventi del suo tempo. Sarebbe un’interpretazione azzardata, anche se nella pratica politica una grande influenza la esercitò neU’ambito del suo mandato apostolico.

Nella sua omelia di insediamento, il 22 ottobre 1978, papa Giovanni Paolo II pronunciò la sua frase più famosa «Non abbiate paura!» (e proseguiva poi «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!»): quelle tre parole furono poi ripetute il 10 giugno dell’anno successivo a Cracovia, a conclusione della sua prima visita apostolica in Polonia, sua amatissima e tormentatissima terra natale.

In poco tempo quella breve frase apparve scritta sui muri del Paese divenendo un invito, pienamente politico, ad esprimere a testa alta la propria protesta contro il regime comunista.

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Quell’invito fu raccolto dal popolo polacco, che dopo tante sciagure aveva ritrovato, grazie al suo papa, l’orgoglio e il coraggio della sfida: e nel 1981 l’aperta opposizione popolare al regime si coagulò nel sindacato Solidarnosc, avviando quel processo sociale e politico che avrebbe portato alla dissoluzione del blocco comunista passando per le successive “rivoluzioni di velluto” degli Stati che ne facevano.

Processo che si concluse con la caduta del muro di Berlino del 1989, evento impensabile fino a poche settimane prima. In tutti questi avvenimenti la figura di papa Wojtyla fu di centrale importanza, come testimoniarono i protagonisti politici, da Reagan a Bush, da Gorbačëv a Kohl, a Lech Walesa, fondatore e leader di Solidarnosc e poi presidente della Repubblica polacca.

Nel corso di questa straordinaria trasformazione dell’Europa, papa Wojtyla seguì gli sviluppi in ciascuno dei Paesi interessati non da politico, ma nell’esercizio del suo magistero, anche moderando gli animi dei singoli - che avrebbero potuto essere molto più accesi e violenti - nel solco pacifico del dettato evangelico.

È evidente che i tempi per la dissoluzione del blocco sovietico erano maturi storicamente, ma papa Wojtyla, “semplicemente” facendo il papa, contribuì in modo determinante a quel processo, cosa che forse solo il capo di una Chiesa millenaria poteva fare.

 

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