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Influenza spagnola: la pandemia più catastrofica della storia dell’umanità

La febbre o influenza “Spagnola”, altrimenti conosciuta come la “Grande Influenza”, è il nome di una epidemia influenzale diffusasi fra il 1918 e il 1920 e che è considerata la più grave forma di pandemia della storia dell'umanità.

Una pandemia (dal greco pan-demos, "tutto il popolo") è una epidemia diffusa in intere nazioni e continenti la cui espansione interessa più aree geografiche del mondo, con una trasmissione e diffusione rapida tra uomo a uomo ed una mortalità elevata. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le caratteristiche della pandemia sono, in primo luogo, la comparsa di un nuovo agente patogeno; la capacità di tale agente di colpire gli uomini, creando gravi patologie; ed, infine, la capacità di tale agente di diffondersi rapidamente per contagio.

La gravità di una pandemia è difficile da stabilire. Dipende dalla facilità con cui un particolare virus si diffonde, da quale gruppo di età colpisce maggiormente, dalla gravità dei sintomi e dal numero di decessi che causa. L’influenza Spagnola fu una pandemia influenzale eccezionale sia per ampiezza che per virulenza, dilagatasi in tempo brevissimo in quasi ogni parte del mondo, dall’Artico alle remote isole del Pacifico. Nessun vaccino e nessuna cura efficace si trovò, e così come apparve, scomparve. Solo in Italia uccise 700.000 persone, ma è più probabile 1.000.000 (molti più della guerra stessa).

Ma vediamo un po' più da vicino, cercando di capire meglio, uno dei peggiori flagelli del XX secolo, l'influenza spagnola, appunto.

1. Un evento inaspettato

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Nessuno se l'aspettava. Ormai la prima guerra mondiale aveva imboccato la dirittura di arrivo  e il mondo - stanco di tanti morti, fame, lutti e carestie -, già pregustava le dolci gioie dell pace. E invece, incurante delle legittime aspettative dell'umanità, il virus dell'influenza (che nessuno aveva mai "veduto" e del quale non esisteva ancora traccia nei testi di microbiologia), scatenò un putiferio quale non si ricordava  a memoria d'uomo.

Sulle prima nessuno si fece caso, tanto la cosa sembrò banale: qualche centinaio di casi in Cina e nel Kansas. Poi nell'agosto del 1918 l'influenza gettò la maschera mostrando il suo vero volto e divenendo ben presto una vera e propria calamità. La chiamarono  impropriamente "spagnola" sia perché la prima a parlarne fu la stampa iberica (essendo la Spagna neutrale durante la prima guerra mondiale, la sua stampa non era soggetta alla censura di guerra), sia perché uno dei primi colpiti fu il Re di Spagna Alfonso XIII.

Negli altri paesi il violento diffondersi dell'influenza venne tenuto nascosto dai mezzi d'informazione, che tendevano a parlarne come di un'epidemia circoscritta alla Spagna. Si cominciò allora a morire senza riguardo per l'età, la razza, la latitudine. L'influenza sbarcò in Europa al seguito delle truppe americane.

2. Una pandemia devastante

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La devastante epidemia infuriò da marzo 1918 al giugno 1920, contagiò circa 500 milioni di persone (il 30% della popolazione mondiale che allora era 1 miliardo e 600 milioni) e ne uccise tra i 50 e 100 milioni. Quando nel 1919, dopo una breve attenuazione e un ultimo colpo di coda l'epidemia cessò definitivamente, si contarono in tutto il mondo molti più morti di quanti ne avesse fatto la guerra.

I classici sintomi erano febbre e vomito, ma ben presto, poi, il corpo reagiva riempiendo i polmoni di sangue seguiti da sanguinamenti dalla bocca, dalle orecchie o dal naso, pelle che virava al blu, e morte inderogabile e repentina che sopraggiungeva nel giro di un paio di giorni. Proprio in quell'evento gli scienziati si sentirono impotenti dinnanzi ad un flagello del genere.

La prima vittima di questa pandemia fu un cuoco del campo militare di Funston, nel Kansas di nome Albert Gitchell il quale morì in data 12 marzo 1918, dopo soli 4 giorni di malattia e di isolamento. Non vi erano cure per l'influenza, e per quanto riguardava le misure di prevenzione le si poteva definire quantomeno risibili. 

3. Ricerche e vacino

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Solo 14 anni dopo, nel 1933, giunse da Londra una notizia insperata: 3 ricercatori del National Medical Research Farm Laboratory, Smith, Andreves e Laidlaw, annunciarono di aver scoperto - nel furetto - il virus dell'influenza. Un'osservazione presto confermata da Burnet a Melbourne in Australia. La prova definitiva, al di là di ogni conferma di laboratorio, venne quando uno degli addetti ai lavori (per la storia Charles Stuart-Harris) si ammalò di influenza dopo che un furetto infettato gli aveva starnutito in faccia.

Questo virus dell'influenza venne denominato "tipo A", mentre quello scoperto nel 1940 negli Stati Uniti da Francis, fu indicato come "tipo B". Il "tipo C" sarà isolato da Taylor nel 1950. Nel decennio successivo, ciascuno dei ricercatori che avevano partecipato alla scoperta del virus influenzale, ha cercato di mettere a punto un vaccino efficiente contro la malattia.

Così nel 1943 Francis, assistito da Davenport e Salk, realizzò per conto dell'esercito statunitense un vaccino a base di virus A e B inattivati con formalina: gli studi controllati su reclute esposte al contagio, dimostrarono che il vaccino inoculato sottocute aveva protetto il 75% dei soggetti durante un'improvvisa epidemia di influenza di tipo A. Presto però ci si rese conto che i virus dell'influenza subivano rapide e profonde modificazioni nella loro struttura.

Nel 1947 fecero per la prima volta la loro comparsa i ceppi A1, la prima delle 3 variazioni più note per il tipo A, contro i quali i vaccini allora disponibili si mostrarono imprevedibilmente del tutto inefficaci. Nel 1957 e nel 1968 comparvero poi i ceppi che si resero rispettivamente responsabili dell'influenza asiatica e Hong Kong (i nom erano in rapporto alle aree nelle quali erano stati segnalati i primi casi). Ma già nel 1948 si era costituito a Londra il World Influenza Center con il preciso compito di sorvegliare le variazioni del virus influenzale e adeguare di conseguenza i ceppi da utilizzare nel vaccino.

4. Sintomi e casi di morte

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La "spagnola" è sicuramente la più nota e catastrofica tra le epidemie influenzali che si sono susseguite nel corso dei secoli e si diffuse in due ondate successive. La prima, primaverile, all’inizio di marzo 1918 con caratteristiche abbastanza attenuate e relativamente benigna, ma molto contagiosa che si è infuriata sui più robusti. Ma quella più letale e sconvolgente fu la seconda ondata (quella autunnale), a partire da agosto. Era certamente la stessa influenza perché chi superò la prima ne risultò immune, ma il ceppo era mutato in forma più micidiale con un tasso di letalità decuplicato.

A quel tempo, gli antibiotici non c’erano (non erano ancora stati scoperti), perciò si poté fare davvero ben poco per curare i sintomi dell’influenza spagnola. Il modo in cui poi la malattia non venne capita, e il fatto che al virus si sommarono infezioni contratte a causa delle basse difese immunitarie del fisico ammalato, fecero sì che l’influenza colpisse oltre 1 miliardo di persone uccidendone tra i 50 e 100 milioni.

Nella storia, le sole pandemie paragonabili alla spagnola, e delle quali è possibile presumere il numero delle vittime, erano state la "peste di Giustiniano", con epicentro a Bisanzio, iniziata nel 542 d.C. ed estinta solo 50 anni dopo mietendo un centinaio di milioni di vittime, e "la Morte nera" (1347-1350) che uccise  37 milioni di persone nell'Est asiatico e 25 milioni in Europa. Stime approssimative ma attendibili indicano che negli ultimi 400 anni l'influenza è ricorsa in forma epidemica ogni 1-3 anni; tra il 1173 e il 1875 si sarebbero verificate 300 epidemie di influenza, una ogni 1,4 anni (la peggiore delle quali risulta la "spagnola").

 

CASI DI MORTE PER CONTINENTE DOVUTI  ALL'INFLUENZA "SPAGNOLA" DEL 1918-19
ASIA                             15.757.363
EUROPA                               2.163.303
AMERICA NORD E CENTRO                               1.075.686
SUDAMERICA                                   327.250
AFRICA                                  39.471 




5. Svelato il mistero

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Un epidemia come la spagnola non poteva non stimolare la ricerca per individuare l'agente responsabile. Si cominciò per prima cosa a verificare l'ipotesi che il responsabile fosse l'Haemophilus influenzae scoperto nel 1899 da R. Pfeiffer, e per tanto tempo considerato l'agente causale. Ma le indagini condotte successivamente con mezzi più moderni e sensibili indicarono che questo microrganismo non è reperibile in molto malati, mentre d'altra parte può essere riscontrato in soggetti sani.  

Nel 1951, un'équipe medica dell'Università dello Iowa, si recò in Alaska per esaminare i cadaveri di alcuni esquimesi vittime della pandemia, che erano rimasti per 33 anni imprigionati nei ghiacci: purtroppo, nei numerosi campioni di tessuto polmonare esaminato non è stato possibile riscontrare la presenza di qualche virus. Ricerche successive avrebbero riconosciuto in un ceppo simile (dal punto di vista degli antigeni) al virus dell'influenza dei suini (suino A), il virus responsabile della "spagnola". Il caso era rimasto aperto per molti decenni, anche se sembrava svanire definitivamente ogni speranza di gettare nuova luce nel giallo che avvolgeva una delle più grandi epidemie della storia.

Fino al 2008, quando dei ricercatori giapponesi delle Università di Kobe e Tokyo, hanno scoperto 3 geni che avrebbero permesso al virus di attaccare i polmoni e  renderlo capace a provocare le polmoniti fatali. Spiegano i ricercatori che a tenere in vita il suddetto virus, riprodurlo e propagarlo nei polmoni sono stati 3 geni, chiamati PA, PB1 e PB2, assieme ad una versione 1918 della nucleoproteina o gene NP. Tale scoperta giapponese fu pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.






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