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La tecnologia sta modificando il nostro cervello?

Dicono che Google ci rende più stupidi, che l’iPhone ci distrae e che i social network ci rendono asociali.

A sentire i giornali, il cervello umano sarebbe costantemente minacciato dalla moderna tecnologia, che rischierebbe di trasformarci in esseri disfunzionali, veri e propri rottami cognitivi.

Naturalmente la realtà è un po’ più complessa dei titoli a effetto: ma queste notizie conquistano le prime pagine perché contengono un fondo di verità.

Tutti percepiamo che qualcosa sta erodendo le nostre competenze mentali: fatichiamo a ricordare il nostro numero di telefono, mentre pochi anni fa ne sapevamo recitare a decine.

Su Internet i lettori preferiscono pezzi brevi e lineari a racconti più lunghi e ricchi di sfumature. Tutti, poi, conosciamo qualcuno che, separato dal suo smartphone, mostra apparenti sintomi di astinenza.

Dunque, che cosa sta succedendo? Il primo fattore da considerare è che il timore che gli strumenti di cui disponiamo possano trasformarci a livello cognitivo non è affatto una novità.

Già nel 370 a.C., Platone metteva in guardia i Greci i quali, facendo affidamento sulla scrittura, avrebbero rinunciato a usare la memoria. Mutatis mutandis, sono le stesse preoccupazioni che nutriamo oggi.

In realtà, il nostro cervello effettivamente cambia quando ci serviamo di un computer o di un cellulare di ultima generazione, ma anche quando usiamo una penna, un cacciavite o attrezzi di ogni genere.

Si modifica quando tagliamo l’erba, quando giochiamo a golf o prepariamo la cena: le nostre esperienze rimodellano continuamente le modalità operative della nostra mente.

Quindi, invece di chiederci se la tecnologia riprogramma le nostre funzioni cerebrali, dovremmo invece farci un’altra domanda, ovvero: come si adatta il nostro cervello alla vita in un mondo in cui tutto è in rete, tutto è online e gran parte di ciò di cui facciamo esperienza ci appare su uno schermo?

Dal punto di vista scientifico, non abbiamo ancora risposte definitive; però, abbiamo esaminato le ultime ricerche in materia e parlato con esperti dei settori interessati, per scoprire qual è l’impatto della nostra vita ipertecnologica sulle varie funzionalità della mente umana. Scopriamole insieme.

 

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1. Attenzione

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Telefoni che vibrano quando arriva un messaggio, notifiche di Facebook, avvisi in tempo reale: tutto sembra cospirare per distrarci.

Molti esperti concordano: questo bombardamento incessante e la richiesta di risposte immediate hanno intaccato la nostra capacità di concentrarci.

Nel 2015, Microsoft ha condotto una ricerca su duemila cittadini canadesi e ha utilizzando tracciati EEG per osservare l’attività neurale di un ulteriore campione di 112 persone.

L’indagine ha dimostrato che i tempi di attenzione medi sono passati da 12 secondi nel 2000 ad appena otto all’epoca dello studio: impressionante, soprattutto se teniamo conto che i pesci rossi hanno una durata di attenzione pari a nove secondi.

Lo scopo della ricerca non era soltanto ottenere risultati di forte impatto, per far parlare del colosso informatico: altri studi, per quanto su base aneddotica, confermano che riusciamo a concentrarci con sempre maggiore difficoltà.

Un’indagine svolta nel 2012 dal Pew Research Center su oltre duemila insegnanti negli Stati Uniti e a Portorico ha rivelato che l’87 per cento degli intervistati doveva gestire studenti spesso distratti e con tempi di attenzione brevi.

Nello stesso anno, un’analisi promossa dalla società di didattica Pearson in Gran Bretagna è giunta alle medesime conclusioni: sette su dieci dei 400 docenti e duemila genitori hanno dichiarato che bambini in età prescolare e frequentanti le scuole primarie mostravano intervalli di attenzione inferiori rispetto al passato.

Inoltre, il centro per il controllo e la prevenzione delle patologie (Center for Disease Control and Prevention) statunitense ha riferito che all’11 per cento dei piccoli in età scolare è stato diagnosticato, in fasi diverse, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, o ADHD: prima del 1990, questa cifra era inferiore al cinque per cento.

Gli studi segnalano una sempre più evidente difficoltà di concentrazione, attribuibile alla diffusione delle moderne tecnologie.

Benché siano necessarie ulteriori ricerche per confermare il nesso causale, gli esperti non sembrano avere dubbi:
“Personalmente, sono convinto che i mezzi tecnologici abbiano comportato una riduzione della capacità di prestare attenzione e un incremento dell’aspettativa di informazioni immediate: non sappiamo più attendere”, ha detto il neuroscienziato Russell Poldrack della Stanford University.

 

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2. Umore e memoria

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  • Umore
    Gli scienziati hanno dimostrato l’esistenza di importanti correlazioni tra uso intensivo di Internet e depressione, in particolare quando i portali visitati sono social media.
    Aric Sigman, psicologo esperto di tematiche sanitarie, non sembra sorpreso: l’elevata esposizione ai social network, sostiene, comunica un senso di inadeguatezza.
    “Esiste un rapporto tra la quantità di tempo che trascorriamo in questi ambienti virtuali e l’insoddisfazione relativa al nostro aspetto esteriore. Un elevato consumo di immagini idealizzate sembra attivare, in strutture cerebrali come l’amigdala, reti neurali associate a paura e ansia”.
    Sigman cita uno studio nel quale ragazze che comunicavano con le proprie madri tramite messaggi via Internet producevano cortisolo, detto anche ormone dello stress, invece di ormoni che inducono sentimenti positivi come l’ossitocina, associata all’interazione personale.
    “È probabile che, come specie, abbiamo necessità di una certa quantità di contatti con persone che ci sono care. Una carenza di rapporti umani potrebbe danneggiare la nostra salute”. Meno Facebook e più faccia a faccia, dunque.

 

  • Memoria
    Abbiamo numeri di telefono, indicazioni stradali e informazioni fattuali letteralmente sulla punta delle dita: per questo, ci affidiamo sempre meno alla memoria, al punto che il neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer segnala il rischio di “cognitive offloading”, o abdicazione di responsabilità cognitiva, che potrebbe condurre a una sorta di “demenza digitale”.
    Studi condotti su soggetti ludopatici o iperconnessi hanno evidenziato un’atrofia della materia grigia cerebrale, come riferisce James Barnes dell’Università del Bedfordshire (in Gran Bretagna).
    L’abuso di tecnologia sembra causare, in particolare, una sofferenza del lobo frontale, la regione del cervello addetta alla pianificazione e all’organizzazione.
    Tuttavia, aggiunge l’esperto, sono necessarie ulteriori ricerche sui fruitori di Internet “reali” per distinguerli da quelli a rischio di dipendenza.
    Affidarsi alla memoria digitale può anche contribuire a rendere meno vividi i ricordi. In uno studio statunitense è stato chiesto ad alcuni frequentatori di musei di fotografare determinati pezzi in esposizione e di limitarsi invece a guardarne altri.
    Il giorno dopo sono stati effettuati alcuni test: i visitatori riconoscevano con più difficoltà gli oggetti immortalati e ne ricordavano con minor precisione i particolari.
    Sam Gilbert dell’University College di Londra, però, sostiene che esistono anche aspetti positivi.
    “La ricerca dimostra che, quando si salvano dati su un supporto esterno come un computer, ciò può aiutare a far spazio a nuovi ricordi: si sgombra la mente da informazioni inutili di cui non si ha bisogno”.

 

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3. Competenze sociali e telefonate fantasma

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  • Competenze sociali
    “In tutto il mondo, nelle caverne, nelle capanne o nelle case, rivolgere lo sguardo a un genitore che faceva ritorno era un riflesso naturale”, spiega lo psicologo Aric Sigman.
    Oggi, però, continua l’esperto, i bambini rimangono incollati ai propri schermi e non alzano neppure gli occhi.
    Alcuni genitori sono grati ai nuovi dispositivi, che spesso fungono da baby sitter; ma le ricerche effettuate suggeriscono che passare troppo tempo davanti a un monitor alteri la capacità di interpretare le espressioni facciali.
    “[Chi fa un uso eccessivo di Internet] ha maggiori difficoltà nel ‘leggere’ i volti: lo dimostrano alcuni esperimenti”, dice Sigman.
    In uno studio, in particolare, bambini allontanati dai dispositivi elettronici per cinque giorni hanno fatto registrare un significativo miglioramento della capacità di decifrare emozioni dipinte sul viso.
    In un altro esperimento, psicologi cinesi hanno scansionato le onde cerebrali di persone dedite a un uso rispettivamente “normale” ed “eccessivo” di Internet, durante la visione di immagini di volti e oggetti.
    Nei “drogati” della rete, l’ampiezza delle onde di risposta alle figure umane è risultata inferiore rispetto al gruppo di controllo.
    Secondo Sigman, non è la tecnologia a essere pericolosa: fa l’esempio delle caramelle, dicendo che basta accertarsi che i bambini non ne consumino una quantità esagerata troppo spesso.
    La professoressa Mizuko dell’Università della California, poi, ritiene che una “porzione” ragionevole di nuovi media possa addirittura favorire lo sviluppo del cervello infantile.
    “I giovani che possono usufruire di strumenti quali portali di ricerca, forum, risorse didattiche ad accesso libero e giochi complessi imparano più velocemente cose che sarebbero state loro precluse in epoche più remote”, sostiene la studiosa.
    “Tuttavia”, aggiunge, “per i bambini con difficoltà di coinvolgimento emotivo e in situazioni di forte stress, i media digitali possono costituire una distrazione che disturba l’apprendimento e la socialità.
    La responsabilità non è delle risorse tecnologiche, ma della mancanza di opportunità ed esperienze, dell’influenza positiva di coetanei e di adulti disposti ad occuparsi di questi ragazzi, supportandoli e guidandoli verso un utilizzo positivo dei media”.

 

  • Telefonate fantasma
    Avete mai creduto di sentire il cellulare vibrare in tasca, per poi scoprire, controllando, di averlo soltanto immaginato?
    Non siete i soli: pare che la “sindrome da vibrazione fantasma” sia un fenomeno piuttosto comune. Uno studio condotto sul personale di un ospedale del Massachusetts ha rilevato che il 70 per cento dei medici riferiva di aver sperimentato queste “chiamate inesistenti”, mentre in una ricerca statunitense sugli studenti di un college, la percentuale saliva addirittura al 90 per cento.
    Niente paura: gli psicologi dicono che non è un segnale di pazzia; pare invece che, poiché siamo sempre in attesa di telefonate e messaggi, interpretiamo erroneamente lievi spasmi muscolari, scambiandoli per vibrazioni.
    Siamo talmente preoccupati dalla possibilità di perdere una chiamata che il nostro cervello esegue una sovracompensazione, rendendoci più sensibili ai falsi allarmi.

 

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4. Navigazione e sonno

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  • Navigazione
    Una ricerca del 2000 ha stabilito che i tassisti londinesi più esperti (che superano un difficile esame noto come The Knowledge e devono, dunque, aver memorizzato il complicatissimo stradario della capitale inglese) hanno sviluppato un maggior volume di materia grigia nell’ippocampo posteriore rispetto all’ippocampo anteriore, diventando così più efficienti nel ricordare riferimenti puntuali rispetto a informazioni visive più complesse.
    È uno dei tanti esempi della plasticità del cervello umano adulto. Affidarci ai sistemi GPS potrebbe dunque modificare le nostre funzioni cerebrali?
    Ricercatori della McGill University, in Canada, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per mettere a confronto utilizzatori e non utilizzatori di dispositivi GPS.
    Coloro che si orientavano senza assistenza satellitare avevano un volume maggiore di materia grigia più attiva nell’ippocampo rispetto all’altro gruppo.
    In un altro studio, viaggiatori che completavano un determinato tragitto utilizzando sistemi di posizionamento globale non erano in grado di ricordare il panorama in maniera altrettanto vivida rispetto ad altri senza navigatore e inoltre, ricostruivano con più difficoltà il percorso affidandosi alla sola memoria.
    “È possibile che ricorrere alla tecnologia possa sviluppare determinate regioni cerebrali e farne contrarre altre”, dice Sam Gilbert dell’University College di Londra.
    “Risultati analoghi sono stati ottenuti nello studio originale sui tassisti. Ma è probabile che in quel caso, il rimodellamento cerebrale sia stato un effetto dell’acquisizione professionale delle conoscenze previste dal temibile The Knowledge, e che utilizzare occasionalmente il navigatore satellitare non abbia effetti altrettanto importanti”.

 

  • Sonno
    Oggi il tempo che dedichiamo ai nostri dispositivi elettronici supera quello riservato al sonno.
    Secondo un’indagine di Ofcom svolta nell’agosto del 2015, ogni giorno utilizziamo i media o risorse quali la messaggistica istantanea o i giochi elettronici per 8 ore e 41 minuti e dormiamo invece 8 ore e 21 minuti.
    La tecnologia ci tiene svegli per due motivi: innanzitutto ha contenuti stimolanti. Poi, gli schermi a LED emettono una luce blu che impedisce al cervello di produrre l’ormone del sonno, la melatonina.
    Queste radiazioni luminose sono contenute nello stesso spettro di quelle solari, spiega l’esperto di tematiche educative e sanitarie Aric Sigman.
    “La luce blu che proviene da un cellulare o da un tablet comunica alla nostra ghiandola pineale che ormai è giorno, ed è quindi ora di sospendere la produzione di melatonina”.
    Una ricerca pubblicata dalla rivista Preventive Medicine nel 2016 ha evidenziato una significativa associazione tra uso dei social media e disturbi del sonno e ha paventato una correlazione tra privazione del sonno e depressione.
    È stato inoltre individuato un legame tra privazione del sonno, obesità e profitto scolastico insoddisfacente.

 

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5. Lettura e multitasking

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  • Lettura
    Quando leggiamo creiamo una rappresentazione mentale del testo, un po’ come quando osserviamo un percorso e lo trasformiamo in una mappa nella nostra testa.
    Gli esperti, però, ci avvertono: se leggiamo un testo su uno schermo ci comportiamo diversamente, scorriamo con gli occhi, saltiamo dei passaggi, clicchiamo sui link di ipertesto, tutti stratagemmi che ci allontanano dalla tradizionale “lettura profonda”.
    Alcuni studiosi norvegesi hanno verificato questa teoria suddividendo studenti con competenze di lettura equiparabili in due gruppi, uno dotato di supporti cartacei e l’altro di schermi LCD.
    In un successivo test di comprensione, i ragazzi che avevano utilizzato i computer hanno ottenuto risultati leggermente inferiori rispetto ai lettori con mezzi tradizionali.
    In un altro studio svedese, alcuni volontari si sono sottoposti a una prova analoga con esiti simili: chi aveva effettuato il test su mezzi elettronici ha ottenuto punteggi più bassi e ha riferito livelli di stress maggiori rispetto ai soggetti che avevano svolto gli stessi compiti su carta.
    Ziming Liu, della School of Information della San José State University, in California, ritiene che i lettori su schermo digitale utilizzino con maggior frequenza “scorciatoie” come scorrere velocemente il testo alla ricerca di parole chiave.
    La sua ricerca dimostra, inoltre, che chi si affida a supporti elettronici ha maggiori probabilità di completare una sola volta l’esame dell’intero documento e di dedicare minor tempo alla lettura approfondita.

 

  • Multitasking
    Il nostro stile di vita che ci vuole sempre attivi e sempre raggiungibili è stato battezzato “infomania” dallo psicologo Glenn Wilson, che ha misurato il QI di alcuni soggetti prima all’interno di una stanza silenziosa e poi in un ambiente con cellulari che squillavano ed e-mail in arrivo: le distrazioni tecnologiche hanno abbassato il quoziente intellettivo di ben 10 punti.
    Analogamente, uno studio statunitense ha dimostrato che studenti che inviavano messaggi istantanei ad amici durante una prova di lettura risultavano dal 22 al 59 per cento più lenti nel completare il compito assegnato, al netto del tempo effettivamente utilizzato per dialogare.
    Scansioni cerebrali rivelano che il multitasking, ovvero l’esecuzione di più operazioni contemporaneamente, attiva diverse regioni del cervello per svolgere la stessa funzione.
    Quando ci si focalizza su un solo compito, l’apprendimento coinvolge l’ippocampo, un’area cerebrale che immagazzina idee e crea ricordi ricchi e flessibili.
    Questa zona ci aiuta a confrontare idee preesistenti con i dati in arrivo, per contestualizzare ciò che stiamo imparando e favorire così una comprensione più profonda. Il multitasking, invece, attiva il corpo striato, una regione del cervello che raccoglie informazioni su procedure e competenze.
    I nuovi dati, acquisiti dallo striato, sono meno flessibili e meno facilmente generalizzabili: ciò suggerisce che le conoscenze apprese grazie alla pratica del multitasking si organizzino meno in profondità nella nostra memoria.
    Recenti ricerche svolte dall’University College di Londra hanno messo in relazione il frequente svolgimento simultaneo di più funzioni con una minor densità della materia grigia nella corteccia cingolata anteriore (ACC in inglese), la regione cerebrale coinvolta nei processi decisionali ed empatici.
    Tuttavia, non è chiaro se sia una limitazione dimensionale dell’ACC a predisporre al multitasking o se sia, all’opposto, la pratica del multitasking a determinare una contrazione della corteccia anteriore.
    Alcuni esperti sostengono che lo sviluppo della tecnologia ci abbia reso tutti maggiormente inclini allo svolgimento di più operazioni contemporaneamente.
    Ricercatori di Hong Kong riferiscono che i multitasker realizzano più efficacemente l’integrazione multisensoriale, mentre uno studio promosso da Microsoft nel 2016 ha confermato che la nostra multifunzionalità è “migliorata straordinariamente” dall’inizio del nuovo millennio.

 

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