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L’età e la nostra percezione del tempo

Esistono domande alle quali si cerca da sempre di fornire una risposta soddisfacente, ma senza troppo successo.

È il caso della “nozione di tempo”, un concetto centrale nella riflessione filosofica e scientifica di ogni epoca, e che tuttavia appare ancora lontano da una spiegazione definitiva e convincente.

Fin dai primordi della speculazione, lo scorrere del tempo ha suscitato perplessità.

A spiegare l’avvicendarsi delle stagioni, con il loro corredo di fenomeni meteorologici, bastavano la mitologia o testi poetici come Le opere e i giorni di Esiodo (vissuto fra l’VIII e il VII secolo a.C.), che però risultavano insufficienti a giustificare un’altra accezione del tempo: la dimensione che permette di concepire e misurare il succedersi degli eventi.

Tutto ciò che esiste, però, esiste proprio in questa dimensione così familiare e insieme tanto misteriosa nella quale siamo immersi, così come siamo immersi nell’aria che respiriamo: la vediamo, quest’aria? Ci interroghiamo sulla sua esistenza o sul funzionamento del nostro apparato respiratorio? Certamente no.

Lo stesso accade con il tempo: non lo vediamo, ignoriamo gli infiniti interrogativi che la sua indagine ha suscitato nel corso dei secoli, tuttavia lo utilizziamo per organizzare la nostra permanenza nel mondo in cui viviamo.

Eppure, nonostante l’apparente rigore degli schemi temporali che scandiscono la nostra quotidianità, dalla timbratura del cartellino agli orari di treni e aerei, tutti abbiamo fatto esperienza di un fenomeno curioso e apparentemente inspiegabile: la relatività del tempo vissuto.

Così, per esempio, le vacanze “sono volate”, il tempo oggi in classe “non passava mai”, la coda allo sportello è durata “un’eternità”: quante volte abbiamo udito o pronunciato frasi simili? E com’è possibile, se il giorno è sempre di 24 ore e l’ora di 60 minuti?

Più si avanza con l’età e più il tempo pare scorrere in fretta, mentre per i bimbi e i giovani gli anni passano con grande lentezza. Una percezione soggettiva che sembra connaturata alle diverse stagioni dell’animo umano.

 

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1. Età, salute, malattia

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Ovviamente, a risultare diversa non è tanto la durata del tempo, quanto l’impressione che ne ricaviamo, che è soggetta a variabili come le circostanze, l’età e perfino lo stato di salute.

Risulta particolarmente sconcertante, arrivati alla mezza età, la sensazione che il tempo si metta a correre sempre più in fretta, divorando le settimane come se fossero giorni.

Motus in fine velocior, dice una sentenza latina: «il moto è più veloce verso la fine», intesa come tarda età. Secondo le neuroscienze, questa opposta sensibilità nei confronti del tempo dipenderebbe da una differente modalità di registrazione degli eventi.

Nel cervello profondo esiste una regione, chiamata ippocampo, adibita alla formazione e alla gestione delle memorie. È attraverso l’ippocampo che il cervello registra le esperienze nuove, ma non quelle ripetitive: così, possiamo ricordare agevolmente che cosa abbiamo mangiato al matrimonio del nostro amico più caro, dieci anni fa, ma non quello che avevamo nel piatto durante il pranzo dell’altro ieri.
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Durante l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, le scoperte e le novità sono all’ordine del giorno, e gli eventi significativi, caratteristici del processo di crescita, vengono archiviati colmando di senso lo spazio temporale che li separa; ecco, così, che l’aspettativa tra un evento importante e l’altro (il primo giorno di scuola, il primo bacio, la prima vacanza da soli, il primo lavoro) si dilata, rendendo ogni tappa memorabile.

Adulti e anziani, invece, conducono solitamente un’esistenza abitudinaria, in cui le occasioni di meraviglia sono rare, e lo scorrere di giorni e mesi pressoché identici gli uni agli altri appiattisce i ricordi trasformando la quotidianità in una corsa irrefrenabile verso la fine della vita.

Eppure, è sempre possibile sperimentare novità: mantenere un atteggiamento di curiosità e apertura al mondo anche in età adulta e avanzata è il rimedio migliore alla noia e alla deprimente sensazione che il tempo voli, rendendo sempre monotone le nostre giornate.
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Nonostante queste confortanti considerazioni, resta però il fatto che l’accelerazione del senso del tempo in età avanzata è un fenomeno accertato e universale, il cui esatto funzionamento costituisce ancora oggetto di studio.

Anche lo stato di salute può influenzare la percezione del tempo. Sappiamo tutti quanto sembrino lunghe le ore di permanenza a letto a causa di un’influenza o di un mal di schiena improvviso, e quanto pesi l’attesa dell’esito di un esame clinico o, più banalmente, dell’effetto di un analgesico quando accusiamo un dolore intenso.

Ma il senso del tempo può alterarsi, e in modo grave, anche in presenza di lesioni cerebrali importanti, come nel caso di un ictus o di un tumore: questa, secondo alcuni scienziati, sarebbe la prova definitiva che il senso del tempo è un prodotto del cervello. Per i neurobiologi, infatti, la coscienza temporale è un prodotto del sistema nervoso, trasmesso geneticamente da una generazione all’altra.
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La discrepanza tra l’oggettività dello scorrere del tempo e la sua percezione a livello individuale non costituisce un dato acquisito da sempre, ma è emersa solo settecento anni dopo la scoperta filosofica del concetto stesso di tempo. Nella prima metà del VI secolo a.C., in Grecia, visse il filosofo Anassimandro, che fu anche il primo cartografo della Storia.

Di tutte le sue opere, testimoniate dagli autori successivi, ci è pervenuto un unico frammento: «Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo». È questa, probabilmente, la prima menzione in assoluto del tempo come elemento ordinatore e criterio di organizzazione.

Un secolo più tardi, il tempo divenne a pieno titolo un problema filosofico grazie alla speculazione di Parmenide, che teorizzava l’eternità e l’immutabilità dell’Essere, riducendo il tempo a semplice apparenza.

Dopo di lui, Platone (V-IV secolo a.C.) e poi Aristotele (IV secolo a.C.) s’interrogarono circa la natura del tempo, giungendo a conclusioni contrastanti: il primo lo fissava in una dimensione statica, definendolo «immagine mobile dell’eternità», mentre il secondo gli attribuiva un carattere dinamico, spiegandolo come «misura del movimento secondo il prima e il poi».

 

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2. Assoluto o relativo?

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La relatività dello scorrere del tempo fu teorizzata per la prima volta nel III secolo d.C. dal filosofo neoplatonico Plotino, secondo il quale il tempo altro non è che una “successione di stati” all’interno dell’Anima del mondo, intesa come principio ordinatore del cosmo materiale.

L’idea di Plotino fu ripresa nel IV secolo da sant’Agostino, che nel libro XI delle sue Confessioni espresse con straordinaria chiarezza (e contemporaneo spirito poetico) la problematicità del concetto di tempo: «Cos’è, dunque, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se volessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so».

Lo stesso Agostino formulò la definizione di tempo come distensio animi (letteralmente, il “distendersi dell’anima”), così spiegata da Alessandro Ghisalberti, già docente di Filosofia teoretica e Storia della filosofia medievale presso l’Università Cattolica di Milano: «Una distensione dello spirito del soggetto che rileva le cose nel passato (con la memoria), nel futuro (con l’attesa), nel presente (con il prestare attenzione)».

In questa prospettiva, il tempo non è una realtà oggettiva, ma esiste solo in rapporto con l’attività della coscienza, ossia come «misura delle vicende con cui l’anima entra in relazione attraverso l’attenzione, il ricordo o l’attesa».
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L’Occidente sembra aver sviluppato, nei secoli, una vera ossessione per il tempo. Secondo gli antichi Romani, l’otium, ossia il tempo libero dal lavoro e dagli affanni, dedicato alla cura di sé e al proprio spirito, era una virtù.  In età cristiana divenne invece “ozio”, inteso negativamente come “il padre dei vizi”.

Dopo la Riforma, in ambito protestante emerse l’idea che «il tempo è denaro», come scriveva nel 1597 il filosofo inglese Francis Bacon. La stessa idea fu ripresa, quasi due secoli dopo, dallo scienziato e politico statunitense Benjamin Franklin, che esortava a «non sprecare il tempo, perché è la sostanza di cui la vita è fatta».

È anche interessante notare come time, “tempo”, risulti essere il sostantivo più usato nella lingua inglese. I popoli meno “civilizzati”, al contrario, non sembrano nutrire particolare interesse per il tempo come concetto.

La tribù Amondawa dell’Amazzonia (foto sotto un bambino Amondawa) non possiede neppure un termine per indicare il tempo, né dispone di calendari o di strumenti di misurazione temporale.

 

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3. Rivoluzione scientifica

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La concezione agostiniana del tempo rimase pressoché immutata per tutto il Medioevo, ma le cose cambiarono dopo il Rinascimento, quando gli esiti della rivoluzione scientifica portarono Isaac Newton (1642-1727) a elaborare il concetto di “tempo assoluto”, o “tempo cosmico”: «Vero e matematico, in sé e per sua natura, senza riferimento ad alcun oggetto esterno, scorre uniformemente ed è chiamato anche con il nome di durata».

A esso si contrappone il «tempo relativo, apparente e volgare, misura sensibile ed esterna, esatta o inesatta, della durata, comunemente usata al posto del tempo vero; tale è l’ora, il giorno, il mese, l’anno».

In contrasto con la visione newtoniana, Immanuel Kant (1724-1804) sostenne, invece, che il tempo rappresentasse la forma fondamentale della coscienza, definendolo addirittura come «la condizione a priori di tutti i fenomeni».

La tesi di Kant fu avvalorata dal fisico, medico e fisiologo tedesco Hermann von Helmholtz (1821-1894): secondo lui, era il cervello a creare il senso del tempo, alterandolo secondo le circostanze.

Tuttavia, l’idea dell’esistenza di due tempi distinti, computabili diversamente eppure entrambi validi, non fu messa da parte; anzi, trovò un’importante conferma verso la metà dell’Ottocento, quando le scoperte della fisica moderna sfociarono in una rivelazione sconvolgente, che mise in crisi le certezze scientifiche fino ad allora acquisite: non esiste un tempo unico e universale per tutti gli eventi fisici.
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La prima formulazione della teoria della relatività venne esposta dal fisico Albert Einstein nel 1905. Semplificando, essa afferma che non è possibile attribuire un valore assoluto alle nozioni di spazio e tempo, poiché esse dipendono dalla posizione relativa dell’osservatore, che può trovarsi in stato di quiete o di moto rispetto all’oggetto osservato.

L’esempio classico è quello di due luci che si accendono su un treno: un osservatore esterno le vede insieme, ma il passeggero che si sposta da un punto all’altro del treno le vede in successione. Così, sostiene Einstein, due eventi possono essere simultanei oppure no a seconda del sistema di riferimento.

Comprensibilmente, la rivoluzionaria teoria di Einstein suscitò enorme interesse anche in campo filosofico. Fu il pensatore francese Henri Bergson (1959-1941) a riflettere per primo sulla teoria della relatività, nel tentativo di elaborare una metafisica in grado di conciliarsi con le nuove teorie scientifiche.

Secondo Bergson, la rappresentazione del tempo come successione di istanti della stessa durata sarebbe soltanto l’effetto di un meccanismo mentale: il nostro intelletto, cioè, paragonerebbe il tempo a una sorta di spazio fisico da suddividere in segmenti, non riuscendo a cogliere la temporalità autentica, che esiste soltanto nella nostra coscienza.

Il tempo “vero” sarebbe dunque quello interiore, continuo e indivisibile oltre che irripetibile: «Al di fuori di me, nello spazio, c’è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, perché delle posizioni passate non resta nulla. Dentro di me si svolge un processo di organizzazione e di mutua compenetrazione di fatti di coscienza, che costituisce la vera durata».

Nel corso del XX secolo, la fisica quantistica, nata nell’ottobre del 1900, ha messo in discussione tutti i paradigmi della scienza tradizionale, smontandoli puntualmente per costruire un altro modo di interpretare la struttura della materia che costituisce il nostro mondo e l’intero universo.

 

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4. Il tempo é inutile?

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I risultati si sono spesso rivelati sorprendenti, come nel caso in cui si è arrivati a sostenere che il tempo, semplicemente, non esisterebbe.

La meccanica quantistica ha dimostrato che nessuna quantità fisica è misurabile in modo preciso, poiché presenta caratteristiche “fluttuanti”.

Come spiega il fisico Carlo Rovelli, «il crescere del nostro sapere ha portato a un lento sfaldarsi della nozione di tempo. 

Quello che chiamiamo “tempo” è una complessa collezione di strutture, di strati.

Studiato via via più in profondità, il tempo ha perso questi strati, uno dopo l’altro, un pezzo dopo l’altro», diventando un concetto inutile per spiegare le strutture della realtà. Questo, naturalmente, non significa che il tempo cessi di esistere nella nostra quotidianità.

Perché, spiega ancora Rovelli riprendendo quanto sosteneva Aristotele, il tempo è «solo un modo di tenere conto di come si muovono le cose», ossia di come l’inevitabile processo del divenire trasforma il mondo.

Quindi, poiché non possiamo vivere senza il divenire (“tutto scorre”, diceva Eraclito), i bambini continueranno a chiedere impazienti quando arriverà il prossimo compleanno, e i nonni a ricordare nostalgicamente i molti compleanni passati troppo in fretta, ripetendo, sconsolati, “sembra ieri”.

La realtà è che siamo fatti di carne e di tempo, e forse né la filosofia né la fisica saranno mai in grado di offrire consolazione al differente scorrere delle ore nelle diverse stagioni della vita.

Nella foto sotto, Gli Orologi molli di Salvador Dalí (1904-1989) simboleggiano l’impossibilità, per l’uomo, di conoscere davvero il tempo.

 

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5. Paradossi temporali e la coscienza del tempo

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Lo scorrere del tempo è stato spesso immaginato come una strada percorribile in ambe le direzioni.

In questa visione, passato e futuro somigliano a mete entrambe raggiungibili, purché si posseggano gli strumenti per farlo.

Immaginato più volte dalla fantascienza, iniziando dalla Macchina del tempo di H.G. Wells (1866-1946), il viaggio temporale sarà mai possibile?

Secondo la scienza, probabilmente sì, e in vari modi: viaggiando alla velocità della luce; sfruttando la forza gravitazionale sviluppata dai buchi neri; usando un wormhole (una sorta di cunicolo spaziale che mette in comunicazione due punti distanti anni luce).

Oppure con la macchina immaginata da Frank Tipler: un cilindro rotante con la massa di miliardi di soli, che creerebbe un’attrazione gravitazionale eccezionale.

Un corpo che si muovesse intorno a esso a velocità elevatissime si sposterebbe nel passato o nel futuro, a seconda che viaggiasse nel senso del cilindro o in quello opposto.

Tuttavia, il viaggio nel passato sarebbe impedito dal “paradosso del nonno”: il viaggiatore non potrebbe uccidere un suo antenato senza alterare la linea del tempo e dare origine (forse, ma i pareri sono discordi) a miriadi di universi paralleli.
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Ma cos'è la coscienza del tempo? Un’interessante conferma dell’ipotesi che la coscienza del tempo sia un meccanismo nervoso trasmesso con il genoma è offerta da alcuni esperimenti.

Gli animali da laboratorio (cavie) nutriti tutti i giorni alla stessa ora imparano, dopo un po’, a interrompere spontaneamente quello che stanno facendo pochi minuti prima dell’ora del pasto, dimostrando di possedere memoria e senso del tempo.

Ancora più stupefacente è il comportamento di animali dal sistema nervoso minuscolo, come le api: ricompensate a una certa ora e in un determinato posto, imparano a recarvisi nel periodo stabilito, riuscendo a memorizzare fino a quattro orari e quattro luoghi differenti.

Alcune api imparano addirittura a recarsi sul posto con qualche minuto di anticipo, in modo da essere le prime a beneficiare della ricompensa.

 

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