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Letargo: “spegnere” il proprio corpo per affrontare l’inverno (e non solo)

Forse, in quest’anno complicato, anche alcuni di noi vorrebbero adottare la strategia della marmotta: restarsene nella tana, immobili e a occhi chiusi, lasciando che fuori passi – come direbbe Shakespeare – l’inverno del nostro scontento.

Le marmotte, i ghiri, gli orsi e altri animali hanno infatti elaborato una tattica radicale per superare la stagione più fredda e difficile, che in pratica permette di saltarla a piè pari: il letargo.

Una particolare condizione in cui il metabolismo e il funzionamento degli organi cambiano in modo totale. E che gli scienziati stanno studiando per trovare applicazioni per l’uomo, nella cura di malattie o nei futuri viaggi spaziali.

In verità il letargo non è un sonno, ma uno stato straordinario in cui il corpo è “spento”. Così alcuni mammiferi affrontano l’inverno (e non solo).

 

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1. MOTORI AL MINIMO

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Il nome più tecnico del letargo è ibernazione. Uno stato che in realtà è del tutto diverso dal sonno.

«Il corpo cade in quello che si chiama torpore: la temperatura scende moltissimo, il battito del cuore e i respiri rallentano, varie parti del corpo funzionano in modo diverso e il cervello entra in un particolare stato di veglia lenta», spiega Matteo Cerri, docente di fisiologia all’Università di Bologna, autore di A mente fredda (Zanichelli), dedicato all’ibernazione, e La cura del freddo (Einaudi).

In una marmotta delle Alpi – che in inverno scompare dai prati montani e si rifugia in una tana con altri membri del gruppo familiare – la temperatura corporea precipita da 38 °C fino a 5 °C, il cuore passa da 180-200 a 28-38 battiti al minuto e i respiri da 60 a uno o due.

Allo stesso modo si spengono i ghiri, che dagli alberi si rintanano in piccole cavità scavate sottoterra per un’ibernazione lunga fino a oltre 11 mesi: se dovessimo davvero “dormire come un ghiro” in letargo, il nostro corpo sarebbe freddissimo e il respiro quasi assente...

Protetti dai predatori nelle tane, «per affrontare la scarsità di cibo e il freddo invernali, questi mammiferi scelgono la strategia dell’austerity: portano il metabolismo quasi a zero. Riducono l’attività delle “centrali energetiche” delle cellule e la produzione di calore, e la temperatura del corpo cala», spiega Cerri.

La capacità di generare calore è l’asso nella manica di noi mammiferi per essere sempre attivi, ma consuma tantissima energia.

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«Già i primi mammiferi sfruttarono questa straordinaria invenzione dell’evoluzione per muoversi di notte: non erano più dipendenti dal calore del sole, come accade ai rettili. Quando però si ritiravano nelle tane, di giorno, cercavano di risparmiare più energia possibile: riducevano allora il metabolismo, entrando in un torpore giornaliero», racconta Cerri.

«Pensiamo che l’eredità genetica legata a questo meccanismo sia rimasta, e sia stata sfruttata da quei mammiferi che si sono ritrovati a vivere in ambienti dove cibo o acqua non sono sempre presenti: per esempio zone artiche, di alta montagna, o deserti. Infatti la capacità di ibernare è presente in tutto l’albero evolutivo dei mammiferi, dai pipistrelli ai roditori (come marmotte e scoiattoli di terra), dai marsupiali ai ricci, dagli orsi ai primati».

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Già, anche i cugini primati: un esempio è il chirogaleo dalla coda grossa, piccolo lemure che affronta col torpore l’inverno del Madagascar: non freddo, ma molto secco. In generale, la temperatura dell’animale può scendere fino a restare vicina a quella della tana, magari di pochi gradi sopra lo zero.

«Lo scoiattolo artico va persino sotto», spiega Cerri. Lo scoiattolo di terra, o citello, artico è un animaletto della tundra di Canada, Alaska, Siberia: il suo corpo passa da 36 °C a -3 °C (un record, tra i mammiferi) eppure il suo sangue non congela.

Brian Barnes, della University of Alaska Fairbanks (Usa), ha ipotizzato che il plasma resti in uno stato di soprafusione – cioè liquido pur essendo sotto il punto di solidificazione – perché non contiene i nuclei di congelamento da cui parte la formazione del ghiaccio.

«Gli animali hanno un minimo di attività, per non scendere sotto quelle temperature, ma il risparmio dato dallo... spegnimento della stufa è enorme», dice Cerri.

 

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2. CASCATA DI EVENTI

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Come si controlla questo processo? La catena di eventi sembra iniziare dal cervello. Il team di Matteo Cerri ha di recente individuato l’area cerebrale precisa.

«Anni fa avevamo trovato una regione dell’encefalo che funziona come un interruttore del metabolismo, potendo aumentare l’attività cellulare e la produzione di calore: il raphe pallidus. Poi abbiamo scoperto che da un’altra regione, l’ipotalamo dorso-mediale, parte una via nervosa che arriva al raphe pallidus e lo spegne.
Lo abbiamo visto nei topi, che non fanno un letargo invernale, ma possono andare in torpore quando il loro cervello rileva che stanno spendendo più energia di quella a disposizione.
Tuttavia pensiamo che succeda lo stesso negli ibernanti stagionali: in questi, il segnale che dà il via al processo potrebbe essere legato all’ambiente, per esempio alla lunghezza delle giornate. E anche la ripresa primaverile potrebbe essere orchestrata dal cervello, anche se non è chiaro come riprenda a funzionare a quelle temperature»
, puntualizza Cerri.

Comunque sia, tutto il corpo si adegua. «L’attività metabolica delle cellule utilizza ossigeno: se si riduce, cala anche il fabbisogno di questo. Con due implicazioni: avrò meno necessità di respirare e il sangue potrà circolare più lentamente, quindi anche il battito cardiaco potrà ridursi», specifica l’esperto.

Inoltre, una marmotta in letargo non ha bisogno di tenere il cervello sempre acceso (contrariamente a quello che facciamo, o almeno dovremmo fare, noi umani). «Il cervello viene sconnesso per ridurre ogni consumo superfluo: una parte delle sinapsi, i collegamenti tra i neuroni, si “ritira” per poi tornare normale alla fine dell’ibernazione», aggiunge Cerri.

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Ma che cosa succede esattamente al cervello in questa fase? «Durante il torpore, ha un’attività del tutto diversa da quella del sonno: è definita veglia lenta», specifica l’esperto. Se facessimo un elettroencefalogramma alla nostra marmotta, cioè, rileveremmo onde simili a quelle che si registrano quando è sveglia, ma più lente.

C’è però una cosa che non abbiamo ancora detto: l’ibernazione non è in realtà un unico periodo di torpore. Lunghi episodi di torpore sono interrotti da periodici “risvegli” (magari di 24 ore) in cui l’animale torna alla temperatura normale. E cosa fa in quelle riattivazioni? Be’... dorme.

«Entra in un sonno profondo, come quello che si fa dopo aver dormito poco. Sembra che gli animali abbiano la necessità di recuperare il sonno perduto, ma questi “risvegli” restano un mistero», dice Cerri.

Poi – anche se sono stati osservati risvegli in cui l’animale fauno spuntino o i propri bisogni – nel letargo non si mangia, né si digerisce, né si fa la cacca. «Le cellule delle pareti dell’intestino, che di norma si rinnovano ogni due o tre giorni, sopravvivono per mesi. E cambia anche il microbiota, la popolazione di microbi dell’intestino: quelli che banchettavano con i nutrienti ingeriti si riducono, ma restano quelli che si nutrono di muco», dice l’esperto.

«Inoltre, con poche eccezioni, non serve più fare pipì, con cui si eliminano i composti azotati prodotti nel metabolismo: pare che il sangue che passa dai reni modifichi il suo circolo, entrando e uscendo senza venire filtrato».

Nella foto sotto, un ferro di cavallo minore: questi pipistrelli ibernano in grotte o miniere.

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3. CON TUTTE LE OSSA A POSTO

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Per finire, muscoli e ossa degli animali acciambellati per mesi non vanno incontro ai danni del disuso.

Gli scienziati stanno studiando come sia possibile, anche per applicazioni per la nostra salute, per esempio per contrastare i danni dei lunghi periodi passati in un letto o dei mesi in microgravità per gli astronauti.

Il letargo degli orsi grizzly potrebbe aiutare a trovare un sistema per prevenire l'atrofia muscolare degli esseri umani.

Michael Gotthardt, del Centro Max Delbrück per la medicina molecolare di Berlino, ha analizzato i muscoli dei più grandi mammiferi ibernanti: i grizzly (gli orsi polari non vanno in letargo). E ha trovato, nelle cellule muscolari, grandi quantità di alcuni aminoacidi legati allo sviluppo delle stesse.

Sono stati loro, infatti, a incuriosirsi sul periodo di inattività di questi animali, che inizia tra novembre e gennaio e finisce tra marzo e maggio. In questo lasso di tempo il metabolismo e la frequenza cardiaca dell'orso diminuiscono radicalmente, la quantità di azoto nel sangue aumenta drasticamente e l'animale diventa resistente all'insulina.

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Inoltre, i muscoli dell'animale non soffrono della mancanza di movimento. La ricerca ha analizzato proprio come i muscoli dell'orso riescano a sopravvivere al letargo, cercando di capire quali siano i suoi trucchi genetici.

Gli studiosi hanno notato come ci siano proteine ​​che influenzano fortemente il metabolismo degli aminoacidi di un orso durante il letargo. Di conseguenza, le sue cellule muscolari contengono quantità più elevate di alcuni aminoacidi non essenziali.

In un confronto genetico tra orsi, topi e uomini (anche di pazienti colpiti da atrofia muscolare), gli studiosi hanno notato l'azione di un particolare gruppo di geni. Tra questi, i geni Pdk4 e Serpinf1, che sono coinvolti nel metabolismo del glucosio e degli aminoacidi, e il gene Rora, che contribuisce allo sviluppo dei ritmi circadiani.

Seth Donahue della Colorado State University ha invece studiato le ossa degli orsi neri e ha scoperto che viene soppresso ogni riassorbimento del tessuto osseo.

«Più in generale, applicare l’ibernazione all’uomo potrebbe essere utile per interventi terapeutici: per esempio, in quella condizione le cellule tumorali non si replicano. O per futuri voli spaziali: non solo perché gli astronauti non dovrebbero mangiare, ma anche perché le cellule in ibernazione sembrano resistere meglio alle radiazioni cosmiche», conclude Matteo Cerri, che è membro del team di studio dell’ibernazione dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).

Nella foto sotto, una femmina di orso nero (Nord America), con un cucciolo: può partorire e allattare mentre iberna.

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4. E DOPO, L’AMORE

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Non solo i mammiferi, naturalmente, hanno il problema di passare la carestia invernale.

Anche altri animali si fermano nei mesi freddi (scoprite le strategie degli insetti con la nostra realtà aumentata). È il caso di anfibi e rettili.

Molte specie vanno in ibernazione, per mesi. Ma il processo metabolico è diverso. Non essendo in grado di regolare la propria temperatura in modo indipendente dall’esterno, la loro attività semplicemente rallenta di pari passo con il calo della temperatura. Il loro metabolismo già “economico” diventa lentissimo, mentre calano respiro e battito.

Qualcuno trova rifugio sul fondo degli stagni, dove l’acqua non congela. Accade ad alcune rane o tartarughe palustri. Il loro consumo d’ossigeno scende così tanto che non hanno nemmeno bisogno di salire a respirare con i polmoni. Le rane possono farlo anche attraverso la pelle e nell’ibernazione diventa l’unica modalità: cambia persino il circolo del sangue.

Le tartarughe palustri invece usano un’altra via: la respirazione cloacale. L’assorbimento di ossigeno dall’acqua avviene nell’epitelio della cloaca, in pratica l’apertura anale. Altre rane e rospi invece si nascondono sottoterra: se si va un po’ in profondità, la temperatura non scende sottozero.

Ma c’è persino chi si lascia congelare, come alcune rane nordamericane. Le testuggini scavano un rifugio nel terreno, le lucertole si infilano nelle fessure tra pietre e muretti, e alcuni serpenti si trovano in aree di svernamento comuni: nel caso del biacco, se ne possono trovare più di una decina al riparo nelle cavità, magari nei tombini.

Il fatto di dipendere dall’ambiente esterno può concedere a questi animali dei momenti di attività. Capita che una lucertola esca, se il sole ha scaldato il suo muretto. E sono state viste rane maschio mettersi a cantare in una giornata calda d’inverno.

Ma l’uscita definitiva dall’ibernazione è segnata dall’aumento stabile delle temperature. Per gli anfibi, il segnale è anche l’inizio delle piogge primaverili. È per esempio il momento in cui i rospi escono dai loro rifugi nei boschi e vanno verso gli stagni, dove possono dedicarsi alla prima attività post-ibernazione: riprodursi.

Nella foto sotto, una marmotta esce dal letargo, trascorso in una camera sotterranea rivestita di paglia con altri membri del gruppo.

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5. LA RANA CON L’ANTIGELO E I COLIBRÌ AL RISPARMIO

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- LA RANA CON L’ANTIGELO

Se in inverno trovaste una Rana sylvatica, nella tundra dell’Alaska o del Canada, vi sembrerebbe rigida come un bastoncino di pesce surgelato. Sopravvive, così congelata, a temperature ben sotto lo zero.
Come ci riesce, se la formazione di ghiaccio nelle cellule le “rompe” e crea vari problemi?
Usa un antigelo: l’urea, un prodotto del metabolismo escreto con l’urina. Quando serve, viene diffusa all’interno delle cellule e lì ha la funzione di abbassare il punto di congelamento.
L’acqua dentro le cellule quindi non congela, e non “esce” per osmosi, grazie a un aumento della concentrazione interna di glucosio: congela solo l’acqua tra una cellula e l’altra.
La percentuale di acqua gelata, in tutto il corpo, può arrivare al 65%. Così questo piccolo anfibio aspetta il disgelo, senza subire danni.
Rana sylvatica

 

 

- I COLIBRÌ AL RISPARMIO

Molti uccelli evitano le ristrettezze invernali migrando. Ma il succiacapre di Nuttall, un piccolo uccello notturno del Nord America, è noto per la sua ibernazione stagionale: in inverno, quando fatica a trovare insetti, si protegge in fessure della roccia, abbassa temperatura, battito, frequenza di respiro ed emerge dopo settimane o mesi.
I nativi americani Hopi lo chiamavano hölchko, “quello che dorme”.
Altri uccelli (che come i mammiferi sono endotermi: “regolano” la temperatura dall’interno) invece ricorrono a un torpore giornaliero. Con variazioni di temperatura estreme, come quelle misurate da Blair Wolf della University of New Mexico (Usa) tra i colibrì delle Ande, che vivono a circa 3.800 metri. Il recente studio ha esaminato 6 specie.
Per recuperare la grande spesa energetica diurna, di notte questi colibrì andini ricorrono al torpore, abbassando i “consumi” del 95%: il battito cardiaco cala, la temperatura corporea scende. Nel metalluro nero arriva a 3,26 °C. Il torpore può durare da 2 a 13 ore, poi all’alba la temperatura dei colibrì risale. 
Qui sotto, il metalluro nero, in una foresta montana del Perù: la sua temperatura corporea scende a circa 3 °C, di notte.

succiacapre di Nuttall






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