Per Ogm si intendono i cibi il cui Dna è stato modificato.
Nasce così, per esempio, la mela che non annerisce. Ma che cos’è un Ogm?
La definizione adottata dalla Direttiva europea 2001/18 afferma che è Ogm un organismo il cui materiale genetico è stato modificato diversamente da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genica naturale.
Sono organismi il cui Dna è stato modificato attraverso tecniche di ingegneria genetica, che permettono l’isolamento, la modifica e il trasferimento da un organismo a un altro di sequenze di Dna.
Ma gli alimenti transgenici sono pericolosi per la salute? Ecco che cosa arriva sulle nostre tavole.
1. Salmoni, mele e grano
Il salmone AquAdvantage, che mangia il 10 per cento in meno di quello classico e cresce in metà tempo, potrebbe essere il primo animale transgenico ad arrivare in tavola.
L’Aqua-Bounty Technologies vi ha impiantato il gene del salmone Chinook (Oncorhynchus tshawytscha), noto per le sue grandi dimensioni, e un altro gene di un pesce chiamato Pout (Zoarces americanus), che funge da interruttore, tenendo l’ormone della crescita sempre attivo e dunque permettendo uno sviluppo in 16-18 mesi, invece dei tre anni di un salmone comune.
Se sarà approvato dalla Food and Drug Administration, sarà il primo animale Ogm (Organismo geneticamente modificato) venduto per il consumo umano. Ne seguiranno molti altri.
L’americana Okanagan Specialty Fruits è detentrice invece di uno dei progetti più appetibili per il commercio, la Arctic Apple: è una mela che non annerisce quando viene affettata.
Il gene che le dà la proprietà antiossidante proviene da altre mele e il vantaggio è quello di venderla a fette senza trattarla con calcio o limone.
In Inghilterra, presso l’Istituto di ricerca Rothamsted Research, si sta invece studiando un grano con un gene proveniente dalla menta piperita, che allontana gli a di e permette un minor uso di pesticidi.
Il grano, infatti, produce un odore che gli a di riconoscono come un segnale d’allarme e che attrae anche le vespe parassita, loro nemico naturale.
2. È in corso una battaglia
Da alcuni anni, sui cibi Ogm è in atto una battaglia.
Lo schema è sempre lo stesso: si avviano le sperimentazioni e i risultati, contraddittori, vengono impugnati a sostegno di tesi opposte.
È successo anche lo scorso settembre, dopo la pubblicazione dello studio di Gilles-Eric Séralini dell’Università di Caen (Francia) che, in un primo momento, pareva ne avesse dimostrato la pericolosità.
Alcuni ratti, alimentati per due anni con mais NK603, una varietà Ogm resistente all’erbicida Roundup, avevano sviluppato malattie mortali, tra cui i tumori, in percentuali superiori alla media.
Ciò aveva portato a dedurre la tossicità di questo mais per l’uomo. In un secondo tempo, però, la comunità scientifica ha puntualizzato che i ratti usati nella ricerca non erano quelli “normali”, ma scelti apposta perché tendenti a sviluppare tumori (81 animali su 100 a due anni ne hanno uno).
Poi è stata avanzata anche l’ipotesi che l’interpretazione statistica non fosse affidabile: si sarebbero estrapolati solo i dati volti a dimostrare una tesi anti-Ogm. In fine si è sottolineato che gli effetti peggiori sui ratti non erano stati riscontrati ad alti dosaggi di mais Ogm o di erbicida, ma stranamente a dosaggi bassi.
Tom Sanders, capo del dipartimento di ricerca sulla Scienza della nutrizione del King’s College di Londra, ha evidenziato anche che la ricerca non specificava la quantità di cibo somministrata ai ratti e il loro tasso di crescita. Insomma: l’ennesimo caso di bufala mediatica?
Non proprio, visto che la Commissione europea ha chiesto all’Autorità per la sicurezza alimentare (Efsa) di analizzare lo studio e di trarne le dovute conseguenze, analisi che è effettivamente avvenuta con una bocciatura dell’articolo che, secondo l’Autorità, “non ha una qualità scientifica tale da essere considerato valido ai fini di una valutazione del rischio”.
Per poter comprendere appieno lo studio, l’Efsa ha invitato gli autori della ricerca a mettere a disposizione alcuni importanti dati supplementari. In Europa, la direttiva 2001/18/CE ha introdotto l’obbligo dell’etichettatura per i prodotti che contengono Ogm superiori allo 0,9 per cento del prodotto finito.
Oggi, il mercato degli Ogm riguarda principalmente 4 colture che rappresentano il 95 per cento di tutte le varietà transgeniche coltivate: soia, mais, cotone e colza.
Di queste, la stragrande maggioranza viene usata in Europa per produrre mangimi animali e negli Usa anche per alimenti. In Europa le coltivazioni Ogm sono vietate, con l’eccezione della varietà di mais Mon 810 di Monsanto e della patata Amflora di Basf.
Non è però vietata l’importazione. Da vent'anni, cioè da quando esistono gli Ogm, consumiamo latte, formaggi, carne, yogurt, prosciutto e salame, derivati da animali nutriti con mangimi geneticamente modificati. La soia è la base dell’alimentazione zootecnica.
L’Europa produce il 5 per cento di quella che consuma. Il restante 95 viene dall’estero e di questo più del 70 è geneticamente modificata. A meno che non si tratti di carne biologica o biodinamica, ovviamente.
L’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) dichiara tuttavia che nessuno studio pubblicato ha mai evidenziato la presenza di Dna transgenico nella carne, nel latte e nelle uova derivanti da animali allevati con mangimi Ogm. Quindi la salute dovrebbe essere tutelata.
3. Ogm di seconda generazione
Quanto ai caratteri geneticamente indotti, sono solo due quelli che hanno acquisito importanza commerciale: la resistenza agli erbicidi e la resistenza del Bacillus thuringiensis ai toparassiti, che riduce l’uso di pesticidi.
Queste colture non hanno spiccati vantaggi per i consumatori, anche se i fan degli Ogm le vedono come panacea per l’ambiente (meno pesticidi), la fame nel mondo (più produttività) e la salute umana (meno veleni).
Ce li hanno invece per gli agricoltori, perché hanno resa maggiore (anche del 30 o 40 per cento secondo alcuni) e meno costi.
E soprattutto ce li hanno per le multinazionali sementiere, che vendono i semi delle piante Ogm e che, come nel caso della Monsanto, una delle multinazionali egemoni, producono anche gli erbicidi a cui quelle piante sono resistenti.
Organismi internazionali come la Fao, invece, portano alla luce nuovi e preoccupanti problemi sociali, come lo svilupparsi di un nuovo colonialismo: da qualche anno l’Africa infatti è terra di conquista per investitori stranieri che affittano enormi appezzamenti a basso costo da destinare a coltivazioni Ogm da esportazione.
Altro che risolvere il problema della fame nel mondo. La tecnologia genetica dunque modifica il cibo, ma ha scopi ampi: non solo creare colture resistenti ai parassiti e agli erbicidi, come avveniva per gli Ogm di prima generazione, ma anche produrre cibi di migliore qualità, più nutritivi o salutari.
Questi sono gli Ogm di seconda generazione che potrebbero avere una diversa accoglienza da parte dell’opinione pubblica, fino a oggi in gran parte contraria.
È un Ogm di seconda generazione, per esempio, lo yogurt che contrasterebbe il diabete mellito di tipo 1, insulino-dipendente: la ricerca, pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, è stata condotta dall’Università di Siena.
FAME CONTRO IPERNUTRIZIONE
- 925 milioni di persone nel mondo soffrono la fame.
- 1 miliardo di persone è malnutrita, non può assumere i nutrienti necessari (vitamine e minerali) e va incontro a malformazioni e malattie fisiche e mentali.
- 1 miliardo di persone soffre di malattie da ipernutrizione, come diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari.
4. 6 passaggi per ottenere un Ogm
Per creare una pianta transgenica, uno o più geni sono artificialmente inseriti nel suo Dna.
Il gene deriva da un vegetale o da un altro organismo. Ecco le 6 fasi del processo di ingegneria genetica:
- L’isolamento del gene da trasferire, o transgene. Si estrapola dall’organismo di origine, di solito attraverso enzimi di restrizione che funzionano come forbici in grado di riconoscere e tagliare specifici frammenti di Dna.
- L’inserimento del transgene in un vettore capace di entrare nelle cellule dell’organismo di destinazione e di unirsi al suo Dna. Può essere un plasmide batterico (filamento di Dna), o un virus da inserire nell’organismo di destinazione, o una cellula vegetale, batterica o animale.
Esistono molte tecniche per effettuare l’inserimento, tra cui le più efficaci e usate sono il batterio Agro-bacterium tumefaciens e il bombardamento con pistole geniche.
Tutte consentono di portarsi dietro solo il gene desiderato e non altri. - La replicazione del batterio che contiene il transgene. Esso si riproduce dividendosi e ogni volta che la sua cellula si divide, si divide anche il vettore contenente il gene desiderato al suo interno.
Presto si hanno milioni di copie del batterio e del vettore che contiene il gene da trasferire. - Il trasferimento del plasmide batterio nell’organismo di destinazione, la pianta. Il batterio la infetta ed entra nel suo Dna.
- Selezione delle cellule realmente modificate dal processo. Per molte, l’incorporazione del gene desiderato non va a buon fine.
- Coltivazione controllata delle piante originate dalle cellule modificate, prima in serre, poi in campi controllati, e test per verificare l’efficacia del nuovo gene e la sicurezza alimentare e ambientale della pianta modificata.
5. È vero che ci sono 65 rischi per la salute? e non solo Ogm
- È vero che ci sono 65 rischi per la salute?
«Non sappiamo chi può subire danni dalle colture Ogm, in che termini si verificheranno o quale tipo di reazione ci sarà», sostiene Jeffrey M. Smith nel suo bestseller Ogm – I rischi della salute (Arianna Editrice).
Fondatore di The Institute for responsible technology, Smith raccoglie nel suo libro i 65 più importanti rischi per la salute, tra cui figurano le nuove allergie, tumori e altro.
La verità è che sul mondo Ogm esistono pochi dati e frammentati e che i veri pericoli per la salute si conosceranno fra molti anni, con i risultati di studi di più lungo periodo.
Per informarsi, Salmone.org è un’altra straordinaria fonte di dati, con un approccio favorevole a questo spinoso tema.
- Non solo Ogm
In Australia i ricercatori del Waite research Institute dell’Università di Adelaide hanno sviluppato una varietà di grano duro che tollera la salinità del terreno e produce il 25 per cento in più rispetto al normale.
Quello della salinità e della resistenza alla siccità è il campo su cui si giocheranno le sfide future, visto che il problema mette a rischio il 20 per cento dei terreni mondiali.
I ricercatori non sono ricorsi all’ingegneria genetica, ma a tecniche tradizionali di miglioramento genetico.
Lo studio pubblicato su Nature Biotechnology spiega che la pianta è frutto di incroci tradizionali con un’antica parentale selvatica del grano duro.
Con queste tecniche (breeding) si possono trasferire però solo geni da piante donatrici sessualmente compatibili con la pianta di destinazione e i tempi si allungano.
Servono 10 anni per depurare le piante con le caratteristiche richieste: negli incroci i genomi si mescolano e quindi, oltre al gene desiderato, i nuovi ibridi si portano dietro anche migliaia di geni indesiderati da eliminare con nuovi cicli di reincrocio.