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Renato Dulbecco: l’uomo che svelò i segreti dei tumori

Un uomo mite, esile, dalla voce sottile e pacata, quasi sussurrata.

Eppure incredibilmente risoluto, con un’idea chiarissima del futuro. Renato Dulbecco, Nobel per la Medicina del 1975, uno dei più grandi protagonisti della scienza italiani, è sempre stato un esempio di come la ricerca possa unirsi a una profonda umanità.

Rileggendo la sua storia e ripercorrendo i risultati che ha ottenuto nella vita, non vi è dubbio che ancora oggi, a otto anni dalla morte avvenuta nel 2012, il suo insegnamento sia attuale e indichi quale debba essere il percorso virtuoso di un’indagine scientifica sempre pensata al servizio dell’uomo.

Dulbecco fu insignito del prestigioso premio Nobel insieme a David Baltimore del MIT di Boston e Howard M. Temin dell’Università del Wisconsin per gli studi sui meccanismi con cui agiscono i virus tumorali all’interno della cellula.

Ricerche che condusse al Caltech, il California Institute of Technology, e poi al Salk Institute di La Jolla, in California. In particolare, lo scienziato italiano scoprì il funzionamento dei virus a DNA, tra i quali i più noti sono sicuramente quello dell’epatite B e il Papilloma virus HPV7.

Quest’ultimo è collegato al tumore della cervice uterina e ad altre malattie oncologiche che causano ogni anno circa 1.500 morti in Italia e 13mila in Europa.

Anche grazie agli studi iniziali di Dulbecco, contro il virus è stato possibile sviluppare un vaccino, introdotto una decina di anni fa, che secondo alcune ricerche scientifiche ha ridotto del 90 per cento le infezioni che possono sfociare in tumore.

Ma questo è solo un esempio tra i tanti dell’impatto tangibile sulla vita di tutti noi dell’eccezionale lavoro di Dulbecco. Ma come ha fatto Dulbecco ad arrivare dove è arrivato?

Grazie a una straordinaria e precoce intelligenza, che gli ha consentito non soltanto di elaborare idee brillanti e innovative lungo tutto l’arco della sua longeva vita, ma anche di superare l’ostacolo della Seconda guerra mondiale, che per tanti anni in Europa ha frenato la ricerca scientifica.

Agli italiani divenne noto soprattutto per la sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 1999. Ma Dulbecco è l’uomo che ha fatto fare un balzo in avanti alla ricerca nell’ambito della genetica. Ecco la sua storia umana e scientifica.

 

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1. Piccolo genio, il maestro dei Nobel

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Dulbecco nacque il 22 febbraio 1914 a Catanzaro, dove la sua famiglia si trovava perché il padre, ingegnere civile di origini liguri, era stato chiamato a contribuire alla ricostruzione dopo il terrificante terremoto del 28 dicembre del 1908.

Poi nel 1915 l’Italia entrò in guerra e il padre di Renato fu chiamato a Torino per lavorare alla produzione di armi.

La famiglia si spostò nel capoluogo subalpino e successivamente, per un breve periodo, a Cuneo e, ancora, a Porto Maurizio, che in seguito il regime fascista avrebbe unito a Oneglia nel nuovo comune di Imperia. Qui il piccolo Renato si distinse per la sua precocità. Si diplomò al liceo classico a soli 16 anni, con un biennio di anticipo rispetto al normale.

In una lunga intervista rilasciata il 9 e il 10 settembre 1998 a Shirley Kay Cohen, giornalista che ha raccolto le testimonianze dei più grandi scienziati del Caltech Institute, lo scienziato ricorda, con la modestia che sempre lo ha contraddistinto, come quel primo successo scolastico fu merito esclusivamente di sua madre: “Fu lei a insegnarmi a leggere e a scrivere prima di iniziare le elementari”.

Renato aveva un talento per la matematica ed era molto attratto da ciò che faceva il padre. Si interessava di fisica e lo aiutava a effettuare i calcoli di statica per le costruzioni in cemento armato che progettava. Ad appena 12 anni arrivò perfino a costruire da solo una radio, che donò alla madre per consentirle di ascoltare la musica.

Finito il liceo si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino per seguire le orme di uno zio chirurgo a Napoli. Il talento per l’elettronica e la conoscenza della fisica furono utilissimi in seguito per consentirgli di intraprendere il rivoluzionario percorso nella biologia molecolare che lo portò al Nobel.

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Così come aveva fatto al liceo, Dulbecco giunse rapidamente anche alla laurea in Medicina, stimolato soprattutto dall’insegnamento del professore di anatomia Giuseppe Levi e dagli studi sulla struttura cellulare dei tessuti, che lui faceva in un suo laboratorio.

Quel luogo fu frequentato anche da Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, tutti futuri premi Nobel (Luria nel 1969 per gli studi sui virus batteriofagi e Rita Levi Montalcini nel 1986 per la comprensione dei meccanismi di accrescimento della fibra nervosa).

Che da qui siano usciti tre Nobel non può essere un caso e Dulbecco non ebbe dubbi a darne il merito proprio a Giuseppe Levi, non solo per il suo approccio "didattico" che stimolava gli studenti e li motivava, ma anche per la profonda umanità e per la passione nel lavoro che era in grado di trasmettere.

Così raccontò nella sua intervista a Shirley Cohen: “Levi era famoso, all’epoca, perché era un dichiarato antifascista. Ma d’altro canto cercava di vivere all’interno del sistema, perché amava l’insegnamento e i suoi studenti.
Ricordo quando Mussolini decise che tutti i professori universitari avrebbero dovuto giurare fedeltà al regime: deve essere stato nel 1931. Levi si trovava di fronte a un vero dilemma. E lo sapevamo tutti, all’università. A lungo la questione lo tormentò.
E alla fine venimmo a conoscenza che aveva deciso di non abbandonare la scuola e che avrebbe giurato. Lo spiegò anche agli studenti: lo aveva fatto perché pensava che insegnare fosse talmente importante da non potere smettere. E anche se odiava farlo, giurò. Ci fu un enorme applauso degli studenti, eravamo tutti con lui”.

Quell’esempio e quella decisione furono fondamentali, perché subito dopo Dulbecco diventò un interno del laboratorio di Levi e poté lavorare a lungo con il professore. “Era una persona molto ispirata”, ricordò in seguito Dulbecco.

“Voglio dire, non aveva nulla a che fare con la scienza moderna, ma era quanto più avanti possibile si poteva essere a quell’epoca. Il suo interesse era essenzialmente l’istologia e la natura cellulare, nel tentativo di identificare tutti i tipi di cellule, ma al tempo stesso non era interessato alla loro funzione. Era anche affascinato dalle colture di tessuti e questo fu di fondamentale importanza per me, perché mi resi conto che si trattava di un’idea davvero eccitante e ricca di conseguenze”.

 

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2. Il punto di svolta

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Conseguita la laurea nel 1936 a soli 22 anni, Dulbecco dovette fare il militare. Dapprima gli toccarono i due anni di leva, a Firenze, alla scuola degli ufficiali medici, finiti i quali rientrò a Torino, al dipartimento di Anatomia patologica dell’Università.

Ma poi arrivò la guerra e il giovane medico fu richiamato e fu costretto a vivere un’esperienza che gli avrebbe definitivamente cambiato la vita. Fece parte dell’Armir, l’armata italiana in Russia, e fu spedito sul fronte più sanguinoso e terribile del conflitto.

“Ricordo un lungo viaggio in treno”, disse poi, “probabilmente attraverso la Germania e poi la Polonia, dove superata Varsavia arrivammo in una grande stazione, in cui fervevano i lavori, c’erano binari dappertutto e gente che lavorava.
Scendemmo per una sosta e notai che gli operai avevano un distintivo giallo. Sapevo un po’ di tedesco e chiesi a un soldato che cosa facessero. 'C’è un sacco di lavoro qui, mi rispose'. 'Chi sono queste persone?', chiesi ancora. 'Sono
ebrei', mi disse. 'E perché sono qui?'. 'Sono nostri prigionieri. Quando avranno finito il lavoro, tutti kaput!'. Risalii sul treno e dissi agli altri ufficiali del battaglione quello che avevo sentito e loro non volevano crederci. Ma le parole erano chiare, non poteva esserci dubbio. Quello è stato il mio punto di svolta”.

Dulbecco decise che avrebbe dedicato la sua vita a cercare di fare qualcosa di buono per l'Umanità. Sul fronte fu ferito da un’esplosione che gli dislocò la spalla e fu mandato in licenza di convalescenza a Torino.

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Lì riprese a fare ricerca, ma imparò anche a fare il dentista in modo da avere la scusa per esercitare in un paesino vicino alla città dal quale poté aiutare i partigiani, curando i loro feriti.

Nell’aprile 1945, quando i tedeschi lasciarono il capoluogo subalpino, partecipò alla gestione delle cose pubbliche e per due mesi si trovò a fare politica, nelle file di una piccola formazione di cattolici comunisti, che poi presto sparì.

“Ma non era la mia vita”, disse poi Dulbecco. “Tornai presto a fare ricerca”. Decise anche di prendere una laurea in fisica, su suggerimento di Rita Levi Montalcini.

“All’epoca eravamo particolarmente interessati al concetto di gene”, ricordava ancora Dulbecco, “ma ne sapevamo veramente poco. Rita pensava a nuovi metodi per studiare i geni e riteneva che un approccio ispirato dalla fisica sarebbe stato produttivo”.

Nel 1946 capitò poi in visita a Torino Salvatore Luria, che conosceva bene i due, soprattutto la Levi Montalcini, ma si era spostato negli Stati Uniti prima della guerra. Faceva ricerca alla Indiana University e parlando con Dulbecco si rese conto che aveva i suoi stessi interessi scientifici.

Invitò entrambi a raggiungerlo negli Usa, ma solo nell’estate del 1947, quando tutte le carte e i visti furono ottenuti, sia Renato sia Rita Levi Montalcini partirono per l’America, dove costruirono la loro straordinaria reputazione.

Nella foto sotto, prigionieri italiani dell'Armir catturati sul fronte orientale durante il tragico inverno del 1942-1943.

3. Dal Nobel a Sanremo

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“Dulbecco lavorava sui batteriofagi, virus che aggrediscono i batteri, e sulla risposta che hanno alla radiazione ultravioletta.
In particolare condusse uno studio sul meccanismo grazie al quale l’esposizione alla luce naturale può contrastare gli effetti nocivi dei raggi UV e lo pubblicò nel 1949 sulla rivista Nature”
, scrisse in un ricordo dell’amico dopo la sua morte David Baltimore, vincitore insieme a Dulbecco del Nobel nel 1975, ripercorrendo il lavoro dello scienziato italiano in quei primi anni.

Era l’inizio della biologia molecolare e Dulbecco conobbe in quel periodo i pionieri di quella nascente disciplina, tra cui Max Delbrück, un tedesco fuggito dalla Germania prima della guerra.

Delbrück aveva un laboratorio al Caltech e gli chiese di raggiungerlo. “Subito dopo”, ricorda ancora Baltimore, “Delbrück ottenne una donazione di 100mila dollari per studiare i virus animali, linea di ricerca che fu assegnata a Renato e che portò a risultati straordinari”.

Si trattava di costruire dal nulla tutto il metodo della ricerca, creando colture di cellule e osservando la loro risposta ai virus. L’esperienza condotta nel laboratorio torinese del professor Giuseppe Levi si rivelò preziosa.

Dapprima gli sforzi si concentrarono sul poliovirus, che causa la poliomelite e poi, con l’ingresso nel team di ricerca di Harry Rubin, sui virus che producono tumori. Questa svolta avveniva nel 1953 e avviò la strada che condusse Dulbecco al Nobel.

Nella foto sotto, Renato Dulbecco (il terzo da sinistra) posa con altri premi Nobel (tra cui si riconosce Rita-Levi Montalcini, di fianco a lui) nel 1997 a Milano, in occasione della manifestazione "10 Nobel per il futuro".
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Nel 1957 al gruppo si unì anche Howard Temin, altro vincitore del Nobel. Gli studi successivi rivelarono che potevano esserci virus contenenti DNA o RNA in grado di infettare le cellule, modificare i loro geni, e causare un anomalo sviluppo che si traduce in un cancro (oggi si sa che circa il 20 per cento dei tumori sono provocati da virus).

Questo poteva avvenire, pensò Dulbecco, soltanto se ci fosse stata una predisposizione genetica dei soggetti, una struttura cioè del loro DNA che favorisse l’infezione. “Si rese conto”, scrive Baltimore, “che i virus potevano essere utilizzati per dimostrare le origini genetiche dei tumori”.

Si trattava di capire se ci fossero cellule resistenti all’aggressione dei virus oncogeni e cellule vulnerabili e il team di Dulbecco riuscì a individuarle, definendo “permissive” quelle che venivano colpite e “non permissive” le altre.

Soltanto nel 1968 si capì in quale forma il DNA o l'RNA sono presenti nei virus e, soprattutto, il meccanismo con cui questo “si introduce” nel materiale genetico della cellula, grazie all’azione di proteine (che però furono individuate con precisione solo anni dopo).

Nel frattempo, nel 1962, Dulbecco si era allontanato dal Caltech e trasferito al Salk Institute for Biological Studies, a La Jolla, in California, dove lavorò e condusse la sua ricerca per il resto della vita, se si esclude una parentesi di 5 anni a Londra tra il 1970 e il 1975.

Il Nobel fu quindi la logica conclusione di uno studio pionieristico e straordinario, frutto della fantasia e della creatività di Dulbecco. Ma fu solo una tappa del suo lavoro. Il grande scienziato pubblicò fino al 2008 e solo negli ultimi anni della sua esistenza si ritirò nella casa di La Jolla a godersi la famiglia e il pianoforte, di cui era appassionato.

Il suo amore per la musica lo portò anche, nel 1999, a presenziare al festival di Sanremo, evento che lo rese noto a tutti gli italiani (in quell'occasione Dulbecco si presentò al pubblico con una frase di Galileo: “Sono venuto qui per fare esperienze”, e fu subito amatissimo).

Ma un altro importante lascito dello studioso è il grande sforzo fatto per sequenziare il DNA umano, che Dulbecco caldeggiò e per il quale si attivò, sollecitando tutta la comunità scientifica a fare altrettanto. L'impegno era immane e imponeva una collaborazione globale.

Dulbecco, con il CNR, iniziò in Italia il Progetto Genoma, divenuto poi internazionale, che arrivò al risultato di sequenziare il DNA nel 2003 dopo quasi vent’anni di sforzi. Se ora la ricerca sulle malattie genetiche sta portando grandi risultati è grazie anche a questo tenace, grande uomo della scienza italiana.

Nella foto sotto, la partecipazione a Sanremo di Dulbecco nel 1999 fece conoscere lo scienziato al grande pubblico.
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4. La scoperta da Nobel

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Con i suoi studi sui virus oncogeni Dulbecco arrivò a dimostrare che il materiale genetico dei virus viene incorporato nel DNA delle cellule ospiti, diventando parte del loro corredo genetico.

Fu questo risultato a fargli vincere il Nobel, ma la strada per arrivarci non fu il frutto di un singolo esperimento, bensì di un lungo lavoro di ricerca, a cui collaborarono molti scienziati, quasi tutti selezionati dallo scienziato italiano e incaricati di condurre linee di studio specifiche, dapprima al Caltech e poi al Salk Institute di La Jolla.

Dulbecco, in altre parole, fu l’ideatore e il regista di tutta la ricerca, ma non avrebbe potuto arrivare da solo al risultato finale. Si dimostrò quindi anche un abile organizzatore e manager, oltre che uno scienziato dalle idee brillanti.

Per arrivare alla scoperta Dulbecco dovette creare anche il metodo che consentisse di capire come il virus tumorale riesce a entrare nelle cellule e come si comporta.

Con l’aiuto di Marguerite Vogt, una scienziata tedesca che collaborò con lui per tutta la vita, lo scienziato italiano mise a punto un sistema di coltura dei virus in piastre di Petri che nessuno aveva immaginato fino ad allora e che rivoluzionò in seguito il modo di realizzare studi in virologia.

Era così possibile osservare al microscopio quello che succedeva all’interno delle cellule infettate ma, soprattutto, creare colture omogenee, che permettessero un'analisi precisa.

Lavorando con il Polyomavirus (virus a DNA), infatti, Dulbecco si rese conto che alcune cellule che venivano aggredite si distruggevano mentre altre “trattenevano” il virus all’interno, rimanendo apparentemente immuni. Riuscì a isolare popolazioni di queste ultime e a studiarle.

Erano gli inizi degli anni Sessanta. Dulbecco procedeva per supposizioni, immaginando i meccanismi dell’infezione del virus tumorale e poi disegnando esperimenti per verificare se avesse ragione.

Però, Max Delbrück, il suo responsabile al Caltech, era contrario a questo metodo: pensava che qualsiasi ragionamento dovesse basarsi su un’evidenza scientifica accertata e non su ipotesi.

Questo spinse a un certo punto Dulbecco, nel 1962, a spostarsi al Salk Institute, una struttura appena creata dal biologo Jonas Salk dedicata esclusivamente alla ricerca.

Grazie alle colture cellulari e agli esperimenti sui topi, che ora poteva condurre liberamente, Dulbecco capì infine e dimostrò come il DNA di Polyomavirus, che è organizzato in una molecola ad anello, si rompa all’interno del nuclo della cellula infetta e si sostituisca al suo genoma, producendo così una crescita anomala della cellula stessa, alla base dello sviluppo del tumore.

Lo scienziato italiano era così sicuro delle proprie idee che decise di abbandonare un’università nota e celebrata pur di essere libero nella sua ricerca. Individuati i meccanismi dell’infezione dei virus oncogeni Dulbecco spostò poi il suo interesse verso altri tipi di tumori, in particolare il cancro al seno, su cui condusse estese ricerche per anni.

Nella foto sotto, rappresentazione grafica di cellule tumorali.

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5. Due scoperte chiave e il progetto genoma

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- Due scoperte chiave

Nella lunga e sorprendente carriera di Renato Dulbecco sono moltissimi gli studi degni di nota e le scoperte raggiunte.
Oltre al meccanismo d'azione dei virus tumorali, che gli è valso il Nobel, due sono le conquiste che rivestono un’importanza particolare.
1. Autoriparazione del DNA
Nei suoi primi studi negli Stati Uniti Dulbecco studia i fagi, o batteriofagi (virus che aggrediscono i batteri) e si rende conto del fatto che, esposti a luce naturale, sono in grado di riparare i danni subiti a opera dei raggi ultravioletti. Scoprì così i meccanismi di autoriparazione del DNA danneggiato dalle radiazioni.
2. Virus della poliomelite
Nel 1955 Dulbecco isola il primo mutante del virus della poliomelite. La sua scoperta è fondamentale per consentire poi ad Albert B. Sabin di mettere a punto il vaccino contro questa malattia (si assume per via orale). La sua sperimentazione sull’uomo è iniziata nel 1957 e la sua approvazione è avvenuta nel 1962.
Un altro vaccino era stato predisposto da Jonas Salk nel 1954 e annunciato nel 1955. Entrambi sono considerati l’arma principale per la eradicazione della poliomelite: il virus, infatti, vive solo nell’uomo, non ha altri serbatoi naturali, e quindi l’interruzione totale della sua trasmissione tra le persone ne provocherebbe la totale scomparsa.
L’Europa è stata dichiarata “polio-free” nel 2002, ma ora nuovi casi della malattia verificatisi in Russia e Ucraina hanno indotto alcuni specialisti a segnalare un nuovo allarme.
Lo scorso maggio, durante il Workshop europeo sulla vaccinazione, che si è tenuto a Bruxelles, il cardiologo lituano Vytenis Andriukaitis ha avvertito che “lo status dell’Europa di territorio libero dalla polio è a rischio, a causa della bassa immunità della popolazione e delle lacune di immunizzazione nei Paesi Ue. Ogni anno, nel mondo, le vaccinazioni antipolio evitano una cifra stimata di 2,5 milioni di morti”.
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- Il progetto genoma

Nel 1986, in una conferenza tenuta a Cold Spring Harbor, vicino a New York, Renato Dulbecco lanciò al mondo accademico la proposta di lavorare al sequenziamento del genoma umano.
Diventato progetto del CNR italiano poco dopo, e poi internazionale, raggiunse il grande obiettivo di mappare il DNA nel 2003, con un incredibile sforzo congiunto dei principali centri di ricerca mondiali del settore. In un articolo che scrisse nel 2007, pubblicato in Italia dalla rivista Le Scienze, Dulbecco ricorda quel momento iniziale.
“Avevo sostenuto”, si legge, “che il sequenziamento dell’intero genoma umano avrebbe portato grandi vantaggi alle scienze biologiche e genetiche e avrebbe avuto notevoli ricadute in medicina, prima di tutto nel settore del cancro. Già allora infatti era chiaro che il cancro era una malattia del genoma, perché erano state individuate alcune alterazioni negli oncogeni, ma erano state ottenute in maniera per così dire artigianale.
Mi parve allora che solamente uno sforzo organizzato per decifrare tutti i possibili cambiamenti che avvengono in una cellula tumorale avrebbe potuto svelare la patogenesi del cancro e per far questo la sequenza dell’intero genoma era un prerequisito indispensabile”.
Dulbecco ottenne dal CNR l’incarico di coordinare il Progetto Genoma e fece fruttare al meglio i fondi stanziati dallo Stato, 2 miliardi di vecchie lire l’anno, poco più di 1 milione di euro attuali, concentrando gli sforzi sul braccio lungo del cromosoma X, per il quale la ricerca italiana produsse ottimi risultati relativi al mappamento del genoma.
Poi doveva iniziare la fase di sequenziamento. Lo stanziamento italiano era circa un centesimo di quello degli Stati Uniti, quindi già molto ridotto, ma fu interrotto nel 1995 e mai più ripreso.
“Fu un vero peccato”, scriveva Dulbecco, "perché proprio allora iniziava la fase di sequenziamento da cui l’Italia rimase esclusa”. Fu una grande delusione per il nostro scienziato.
Per fortuna il risultato finale diede ragione alla sua intuizione. Il grande consorzio pubblico internazionale vinse la corsa al sequenziamento del genoma umano battendo sul tempo l’iniziativa privata lanciata da un biologo americano, Craig Venter.
La competizione tra le due realtà aveva fatto temere, a un certo punto, che se “avesse vinto” l’iniziativa privata i suoi finanziatori avrebbero potuto brevettare il nostro genoma e utilizzarlo a proprio uso e consumo.
Invece il risultato fu reso pubblico e disponibile a tutti i centri di ricerca del mondo, segnando un grandissimo successo della scienza di base a beneficio dell’Umanità.
Da allora la ricerca non si è fermata. Vari gruppi internazionali hanno pubblicato mappe sistematiche delle alterazioni genetiche legate a molte malattie, tra cui numerose tipologie di cancro, aprendo la strada a una medicina futura che, grazie al sequenziamento del nostro DNA, potrà trovare cure su misura per ognuno di noi.
Quando questo risultato verrà raggiunto potremo veramente dire che il seme lasciato da Renato Dulbecco alla comunità umana avrà dato pienamente il suo frutto.
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