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Testardaggine, una strategia per l’autodeterminazione

Siete esauriti, soffrite di stress, vi sentite sfruttati e non avete tempo per voi stessi? Probabilmente mancate di testardaggine.

Non vi sembra una qualità positiva? Forse non la conoscete abbastanza. Scopriamola insieme.

L’ipnoterapeuta Milton Erickson, alla domanda di un allievo che gli chiedeva se lo giudicasse un bravo terapeuta, rispose: «Fa’ semplicemente come se lo fossi».

Probabilmente, se potessimo chiedergli oggi: «Come faccio per diventare una persona tenace e determinata?», egli risponderebbe: «Fa’ come se lo fossi». Che questo non sia un trucchetto dozzinale lo dimostrano numerosi studi di psicologia sociale.

Anche se all’inizio ci si limita a “fare come se” – come se si fosse caparbi, guidati da una volontà propria e intenzionati a portarla a termine, capaci di resistere coraggiosamente alle pretese altrui, convinti che i propri interessi contino più di quelli altrui –, prima o poi dal gioco di ruolo emergerà un aspetto della personalità autentica: non si finge più di essere tenaci e determinati, lo si è davvero.

Per cominciare bastano piccoli passi. Cercate situazioni in cui vi sentite di potervi comportare in modo diverso dalle vostre abitudini. Fare qualcosa di diverso dal solito può già di per sé, in certe circostanze, dar luogo a esperienze sorprendenti.

Per esempio:
• Fate attenzione alle formule limitative e dubitative nelle vostre frasi, ed evitatele.
• Dite intenzionalmente di no, anche se non ci fosse alcun problema ad accettare la richiesta.
• Declinate proposte o inviti indesiderati, senza scusarvi né fornire ragioni. Evitate le giustificazioni.
• Non seguite automaticamente ogni proposta altrui: fermatevi un momento per chiedervi: «ne ho davvero voglia?».
• Esercitatevi a dissentire nei gruppi e a non nasconderlo.
• Manifestate subito un desiderio, senza aspettare gli altri; ripetete la richiesta o la proposta, se la prima volta non ha ricevuto attenzione.

1. La testardaggine

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Immaginate questa situazione: aspirate a un posto interessante, il capo del personale vi chiede qual è la vostra migliore qualità e voi gli rispondete: «L’ostinazione».

Oppure, avete conosciuto online una persona interessante e la incontrate per la prima volta; a un certo punto il discorso cade sui tratti del carattere e confessate apertamente: «Sono una persona molto testarda».

A scuola, l’insegnante di vostro figlio si lamenta perché lui mette sempre tutto in discussione e non è obbediente: invece di scusarvi in qualche modo, replicate: «Fa bene a fare così».

Come pensate che finiscano queste tre scene? Otterrete il posto? il primo appuntamento avrà un seguito? La maestra sarà comprensiva? È poco probabile. in tutti e tre i casi vi accorgerete che la testardaggine non piace molto, è una qualità che non gode di buona reputazione.

Il generale prussiano Carl Philipp von Clausewitz considerava l’ostinazione un «difetto del carattere». Ai testardi attribuiva una volontà irremovibile e una «suscettibilità esagerata contro i tentativi di persuasione».

La causa dell’ostinazione era a suo avviso una «forma particolare di egoismo». Si capisce che un generale non potesse vedere niente di buono nella testardaggine: nella vita militare conta l’obbedienza, non si desidera affatto una volontà propria.

Ma perché mai un comportamento testardo dev’essere stigmatizzato anche nella vita civile? Perché la maggior parte della gente non si compiace di sentirsi dire: «Sei molto ostinato»?

2. "C'era una volta un bambino testardo"

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Per capire come mai l’ostinazione abbia un’immagine così negativa, può essere utile dare un’occhiata al passato, storico e personale.

Infatti è da bambini che si potrebbe ricevere l’autorizzazione a puntare i piedi e affermare la propria volontà, cosa che per lo più non avviene, dato che in ogni epoca gli educatori hanno combattuto contro la testardaggine.

I genitori che volevano insegnare ai figli l’obbedienza, per esempio, nel XIX secolo raccontavano loro questa favola dalla raccolta dei fratelli Grimm:
«C’era una volta un bambino testardo che non faceva mai quello che gli chiedeva la mamma. Per questo il buon Dio non l’aveva caro e lo fece ammalare.
Nessun medico riusciva a guarirlo e in breve tempo il bambino giacque sul letto di morte.

Quando lo calarono nella fossa e la coprirono di terra, ecco che dalla tomba sbucò fuori il suo braccino, teso verso l’alto.
Lo schiacciarono giù e lo ricoprirono di nuovo con altra terra, ma non servì a nulla.
Ogni volta il braccino risbucava fuori.
Allora la madre stessa dovette venire alla tomba e colpire il braccino con la verga.
Solo allora il braccino si ritirò sotto terra e il bambino poté finalmente riposare in pace nella fossa».

Ai nostri occhi la favola del bambino testardo è un orrore e ci consola che non rientri più nel canone delle storie della buonanotte. E tuttavia ancora oggi l’ostinazione dei bambini è un problema per insegnanti e genitori.

Da tempo si è smesso di considerare scandaloso e sovversivo qualunque “no” del bambino, ma, come nota Jesper Juul, terapeuta familiare danese, «ai bambini risulta molto difficile articolare verbalmente il loro rifiuto in maniera che gli adulti lo ascoltino e lo prendano sul serio».

Eppure il “no” degli adolescenti ha un’importanza elementare: solo se sentono che l’opposizione non è cosa di per sé cattiva e proibita, possono imparare a pensare e agire in maniera autonoma.

Il filosofo Karl Jaspers crebbe in un clima educativo di questo genere: «Mio padre», scriveva, «inconsapevolmente per noi e senza intenzione da parte sua, era il nostro modello. Senza chiesa, senza riferimento a una qualunque autorità oggettiva, la cosa peggiore era la falsità. E quasi altrettanto negativa era la cieca obbedienza.
Non dovevano esserci né l’una né l’altra. Quindi nostro padre era infinitamente paziente verso la mia opposizione. Quando facevo resistenza, da lui non veniva un comando, ma la spiegazione delle ragioni per cui era poco ragionevole dire di no».

Se un bambino cresce in una famiglia dove può manifestare liberamente le sue idee e la sua volontà, dove riceve appoggio se si ribella a un’ingiustizia, dove trova nei genitori modelli positivi di ostinazione, ci sono buone premesse per lo sviluppo di autonomia di pensiero e comportamento.

Da adulto avrà fiducia in sé e sarà capace di fare qualcosa: avrà il coraggio di usare la propria ragione e non si piegherà ciecamente alla volontà altrui.

Sarà fedele a se stesso e alle proprie idee e avrà la capacità, come scrive lo psicoanalista Erich Fromm, di «capire qualcosa, di dire ciò che capisce e di rifiutarsi di ripetere ciò che non capisce».

3. Protezione contro lo stress

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Con un bel gioco di parole, Hermann Hesse definiva l’ostinazione (Eigensinn) come «qualunque cosa che abbia un senso proprio (Eigenen Sinn)».

Era convinto infatti che «tutte le cose che si fanno contro il proprio sentimento e la propria coscienza, per compiacere gli altri, non sono buone e presto o tardi si pagheranno care».

Per esempio, a spese della salute. Vari studi hanno infatti dimostrato in maniera impressionante che le persone ostinate e testarde si ammalano di meno e vivono più a lungo in confronto a quelle più acquiescenti.

«Ho fatto sempre cose che mi sembravano sensate. Se qualcosa per me era insensata, la lasciavo perdere. Forse è il compito centrale di ciascuno dare un senso alla propria vita», ha dichiarato in un’intervista Reinhard Tausch, l’inventore della psicoterapia di conversazione, scomparso nel 2013 all’età di 91 anni.

Vivere in un modo che sia giusto e ragionevole per se stessi: questa è una difesa fondamentale contro lo stress. Se manca questa protezione, ne soffrono la stabilità e la salute mentale e fisica.

Già alla fine degli anni Settanta il sociologo della medicina Aaron Antonovsky constatava che «sotto stress le persone che hanno scarse risorse di resistenza attiva si ammalano». Infatti l’adattamento passivo induce un comportamento autolesionista rispetto allo stress.

Troppo preoccupati di quello che fanno gli altri o di quello che possono pensare, i conformisti finiscono ben presto sotto pressione, mentre una persona testarda e indipendente non si pone domande ansiogene del tipo: «Cosa pensano gli altri di me?», «Ho fatto una brutta figura?», «Sono abbastanza bravo?», cosicché è in pace con se stessa e il suo sistema immunitario non risente dello stress.

Non prenderanno quindi il sopravvento emozioni patogene di rassegnazione, fatalismo o impotenza di fronte alle sfide della vita, né la rabbia impotente. Se manca o è insufficiente la capacità di resistere alle richieste, le conseguenze negative si fanno sentire non solo sul piano della salute, ma anche in molti ambiti della vita quotidiana.

D’altra parte, spesso sfugge il collegamento che c’è fra la scarsa pervicacia e le difficoltà con cui si devono fare i conti. Chi si sente sfruttato, non riesce a sfondare, è esaurito o ha l’impressione che la sua vita non abbia senso, dovrebbe verificare fino a che punto è capace di pensare di testa sua.

Anche una situazione stressante come la continua mancanza di tempo si può talvolta ricondurre all’incapacità di perseguire ostinatamente la propria via.

4. Il coraggio di dire di no

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Martin Liebmann è portavoce del “Verein zur Verzögerung der Zeit”, associazione fondata nel 1990 da Peter Heintel, professore all’università di Klagenfurt, con lo scopo dichiarato di «rallentare il tempo», cioè di promuovere stili di vita meno concitati e stressanti.

Un giorno Liebmann incontra al supermercato un conoscente che non vede da tempo. Alla domanda se non potrebbero incontrarsi un giorno per prendere un caffè insieme, reagisce così: «Ho riflettuto se la cosa per me era davvero importante e ho concluso che non ne valeva la pena».

Ecco una persona che tiene davvero in gran conto il proprio tempo. Chi non lo fa, spesso si accorge che il tempo gli manca: colpa sua, se l’ha usato per cose che non gli interessavano o l’ha investito in qualcosa che si è rivelato una pura e semplice perdita di tempo.

Reinhard K. Sprenger, filosofo e consulente aziendale, pone spesso ai dirigenti la domanda: «Cos’è per lei la cosa più importante nella vita?». E ottiene regolarmente la risposta: «i miei figli».

Quando poi domanda quanto tempo passano con i figli, spesso si sente dire che purtroppo non hanno tempo. La sua conclusione è che questi uomini d’affari abbiano fatto una scelta, perché «non ho tempo significa: altre cose contano di più».

Non sono evidentemente i figli la cosa più importante nella vita dei manager, ma gli appuntamenti, le riunioni, la presenza costante in azienda. Mettendoli di fronte a questa constatazione, Sprenger si scontra naturalmente con vivaci proteste.

Gli intervistati parlano dei loro obblighi, delle aspettative che devono soddisfare, del posto di responsabilità che esige tanto impegno. La sua inesorabile conclusione è questa: «L’assillo del tempo se lo creano da soli, è una loro scelta individuale, e spesso all’origine c’è la mancanza del coraggio di dire di no».



5. Basta con i riflessi di obbedienza

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Secondo Till Bastian, medico e psicoterapeuta, la cosa è semplicissima: se si vuole avere più tempo per sé, si devono lasciar perdere altre cose, come fare le pulizie, rimettere in ordine, lavare la macchina.

Quanto tempo ci vuole per avere la casa e il giardino perfettamente a posto? O forse pensiamo di dover fare tutto subito e secondo un orario non scritto ma vincolante?

Se vogliamo conservare la salute fisica e mentale, dobbiamo accettare un po’ di caos e disordine, secondo Bastian. Tutto quello che ci vuole è un certo spirito sovversivo, che ci permetta di agire consapevolmente contro le norme, contro l’ordine costituito.

Non per mettere in moto una rivoluzione, ma per creare spazi liberi nella nostra vita, che potremo poi usare e configurare a modo nostro, senza badare alle cose che dovrebbero essere fatte, né alla gente che si aspetta da noi qualcosa di preciso.

Qualunque cosa facciano o non facciano, le persone tenaci e determinate sono ben consapevoli della responsabilità che hanno verso se stesse per l’uso del proprio tempo. Il poeta e storico Carl Sandburg, scrisse: «Il tempo è il denaro della tua vita. Tu lo spendi. Non permettere agli altri di spenderlo per te».

Chi vuol diventare una persona autonoma e determinata, deve scoprire i trucchi dei «riflessi di obbedienza», come li chiama il pedagogista Kurt Singer, e riconoscere in quali situazioni e verso quali persone ha la tentazione di assumere il ruolo del bravo bambino.

«Si tratta di avere il coraggio di essere autentici, invece di recitare una parte, di lasciarsi vedere per quello che si è, invece di giocare a rimpiattino, di comunicare nel modo più chiaro possibile le proprie opinioni, invece di cercare di indovinare quelle degli altri» afferma Singer.

«Ciò riduce il pericolo di estraniarsi dalle proprie idee». Chi ha tenacia non perde tanto facilmente l’orientamento. E, quel che più conta, non rischia di perdere di vista se stesso.






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