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Toyotomi Hideyoshi, “il Napoleone del Giappone”

Toyotomi Hideyoshi fu il grande stratega di un paese diviso, l’uomo che completò l’unificazione del Giappone iniziata da Oda Nobunaga.

Ma chi era veramente Toyotomi Hideyoshi? Scopriamolo insieme!

1. Il “Napoleone del Giappone”

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Poche vite di condottieri offrono un esempio migliore di predestinazione, rispetto a quella dell’uomo definito “il Napoleone del Giappone”, Toyotomi Hideyoshi.

Segnato fin dall’infanzia a ricoprire un ruolo di futuro condottiero, fu lui a contribuire in misura determinante a riunire un Giappone endemicamente dilaniato dai contrasti tra i clan.

L’anno chiave per la sua ascesa è il 1582, quando gli fu affidata la conduzione della guerra contro i Mori.

Il generale pose sotto assedio la loro principale fortezza, Takamatsu, sul fiume Ashimori: Hideyoshi deviò il corso d’acqua con una diga, ma i difensori tennero duro e il condottiero dovette richiedere rinforzi a Oda Nobunaga, il potente daimyo che lo aveva assoldato.

Questi gli inviò un altro subalterno di spicco, Tokugawa Yeiasu. Ma in tal modo il daimyo rimase sguarnito di fronte a una cospirazione che lo tolse di mezzo.

La morte di Nobunaga costituì tuttavia un trampolino di lancio per Hideyoshi che, come aveva fatto Ottaviano dopo la morte di Cesare, si lanciò alla conquista del potere supremo con il pretesto di doverlo vendicare, per poi proseguire e completare la sua opera di riunificazione del Giappone.

Il primo a fare le spese della sua prepotente ascesa fu proprio l’assassino di Nobunaga, Akeki Mitsuhide, che uscì di scena dopo la sconfitta nella battaglia di Yamazaki.

Subito dopo toccò agli eredi del daimyo morto: per prima cosa Hideyoshi elesse come shogun∗∗  un nipote di Nobunaga di appena un anno, per poterlo controllare; poi assediò Nobutaka, terzo figlio del guerriero defunto, nella sua roccaforte di Gifu, costringendolo alla resa entro la fine dell’anno.

Quindi si rivolse contro i più potenti alleati del clan Oda, a cominciare da Shibata Katsuie, di cui espugnò il castello di Kameyama minandone, primo nella storia giapponese, le fondamenta delle mura.

Daimyo: Termine usato inizialmente solo per definire i capimilitari, poi arrivò a comprendere i latifondisti del Giappone feudale.
Nel periodo Muromachi (1336-1573, fino alla cacciata dell’ultimo shogun da Kyoto) definiva i capi-clan che governavano ampi territori e comandavano molti vassalli (kenin); nel periodo Edo (noto anche come periodo Tokugawa, 1603-1868) comprendeva anche i proprietari di terre con una rendita almeno pari a 10.000 koku (1 koku = circa 150 kg) di riso; mentre quelli con entrate inferiori erano chiamati shomyo. I daimyo si dividevano in fuday-daimyo (i vassalli per diritto ereditario), tozama-daimyo (i capi stranieri), shimpan-daimyo (parenti della famiglia Tokugawa).

Shogun∗∗: Erano i dittatori militari che dal XII secolo governarono il Giappone su mandato dell’imperatore, il quale continuava a detenere l’autorità religiosa.
Il loro potere variò a seconda del periodo. Furono attivi fino al XIX secolo. Anche se la nomina era conferita formalmente dall’imperatore, di fatto a diventare shogun era il warlord che riusciva a sconfiggere i capi-clan rivali nelle tante guerre intestine del Giappone.

2. Le lance di Hideyoshi

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Ma la resa dei conti sarebbe stata sul campo di battaglia, davanti al castello di Shizugatake, messo sotto assedio dalle truppe di Katsuie.

Il 20 aprile 1583 Hideyoshi partì in suo soccorso, avanzando con 1.000 samurai a cavallo per far presto, facendosi seguire a distanza da fanteria e salmerie.

Arrivò durante la notte nella valle ai piedi dell’obiettivo, raccogliendo i 15.000 uomini di un alleato che lo attendeva in zona e iniziando subito a risalire il pendio alla volta delle postazioni degli assedianti.

L’attacco ebbe luogo all’alba del 21 aprile, e subito si scatenò una confusa mischia tra rocce, alberi e pendii scoscesi, in uno scontro privo di schieramenti omogenei e in linea.

I guerrieri combatterono isolati o a piccoli gruppi, e lo stesso Hideyoshi ebbe scarse possibilità di coordinare i suoi uomini; tra questi si distinsero i sette componenti della sua guardia del corpo a cavallo, successivamente chiamati “le sette lance di Shizugatake”.

La pressione dell’esercito aggressore provocò la rotta dell’armata nemica fino al quartier generale di Katsuie, che allestì un rogo e portò a termine il suo seppuku, il suicidio rituale giapponese, tra le fiamme.

La vittoria permise a Hideyoshi di assumere la carica di kampaku, ovvero dittatore (o reggente imperiale). Tuttavia, Tokugawa Yeiasu governava in piena autonomia su ben nove province, e l’urto fu inevitabile.

Dopo una serie di scontri non decisivi, i due contendenti preferirono giungere a un accordo, con il quale Yeiasu divenne un leale subalterno del dittatore.

3. L’unificazione

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Però al controllo del kampaku sfuggivano ancora le isole di Shikoku, dominata dal daimyo Chocokabe Motochika, e la più meridionale Kyushu, in mano al clan Shimazu.

Il condottiero adottò due strategie differenti: nel primo caso, guidò una campagna lampo alla testa di 80.000 uomini, e con agili spostamenti sorprese e sconfisse il nemico.

Nel secondo, marciò alla testa di un’armata di ben 170.000 soldati, facendo facilmente valere la sua schiacciante superiorità numerica sul fiume Sendai, il 6 giugno 1587.

Proseguì la marcia alla volta della capitale, Kagoshima, raggiungibile solo con un lungo sentiero, stretto e tortuoso; per scongiurare il rischio di imboscate, il dittatore divise l’avanguardia in piccoli gruppi, affiancando al corpo principale una squadra navale che procedeva parallela alla costa.

Non ci fu scampo per gli Shimazu, che si suicidarono in massa. Per l’unificazione totale del Giappone mancava solo Honshu, l’isola settentrionale, in possesso del clan Hojo.

Toccò a Yeiasu fornire la gran parte degli effettivi, che Hideyoshi concentrò contro la roccaforte di Odawara. Tre colonne sottoposero la fortezza ad assedio, costringendo la guarnigione alla resa per fame, per poi bruciare la fortezza.

Adesso era davvero finita: con una mirabile miscela di rischio e prudenza, temerarietà e pazienza, un innovativo uso su vasta scala dell’artiglieria, Hideyoshi, considerato dai contemporanei un “dio della guerra”, era riuscito dove per secoli avevano fallito dozzine di signori della guerra.

4. L’invasione della Corea e il nuovo tentativo

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  • L’invasione della Corea
    Ma l’assenza di conflitti rese di fatto disoccupati tutti i guerrieri che per generazioni avevano combattuto al servizio dei vari daimyo.
    Hideyoshi pensò bene di impiegarli per un’impresa esterna che consolidasse anche oltre i confini la sua fama di condottiero: la conquista dapprima della Corea e poi della Cina.
    La campagna presupponeva difficoltà logistiche straordinarie, dovendo assicurare il sostentamento a un esercito di 300.000 uomini, suddivisi in due colonne, di cui era previsto il ricongiungimento a Pyongyang, ai confini della Cina.
    Alla prima delle colonne, tuttavia, andò tutto bene: lo sbarco sulle coste coreane fu facile, così come l’avanzata fino a Seoul, che cadde subito nelle mani dei giapponesi.
    Ma l’altro contingente non riuscì neppure a sbarcare sul continente: le celebri navi-tartaruga coreane dell’ammiraglio Yi Sun Sin, imbarcazioni pesantemente corazzate, inflissero alla flotta una pesante sconfitta presso l’isola di Hashan nell’agosto 1592.
    La disfatta si dovette soprattutto dalla scarsa dimestichezza di Hideyoshi con la guerra navale, che lo aveva indotto a conce- pire le imbarcazioni come mere piattaforme su cui far combattere i propri uomini.
    Il disastro lasciava la colonna avanzata del tutto isolata in territorio nemico e il dittatore non poté far altro che ordinare la ritirata, pur conservando il controllo della parte sud-occidentale della Corea.
  • Nuovo tentativo
    Il possesso di una testa di ponte gli consentì, un quinquennio dopo, di varare una nuova campagna, stavolta con una flotta notevolmente potenziata, che poté prevalere facilmente su quella coreana e sbarcare tutti gli effettivi.
    L’armata d’invasione, poi, colse un’altra netta vittoria su un esercito cinese nel sud della Corea, e nella primavera seguente riuscì a resistere alla controffensiva nemica.
    Nell’ottobre del 1598 l’esercito giapponese stava affrontando la decisiva battaglia di Sochon, quando ai soldati giunse la notizia che nella madrepatria, il 18 settembre, il kampaku era venuto a morte.
    La sua scomparsa rese superfluo il proseguimento della campagna, mentre il passaggio di consegne a suo figlio ancora bambino gettava il Paese in una nuova fase di guerre per la supremazia.





5. 1583 - La battaglia di Shizugatake

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Dopo la morte di Oda Nobunaga, i suoi principali luogotenenti si danno battaglia per la leadership sul Giappone.

Toyotomi Hideyoshi apprende che Oda Nobutaka ha ripreso le armi e lo minaccia alle spalle.

Con 20.000 uomini torna indietro e nell’aprile 1583 pone l’assedio alla fortezza di Gifu (tra Tokyo e Osaka), senza poter impedire che l’armata di Shibata Katsuie, forte anch’essa di 20.000 uomini, catturi i forti di frontiera Iwasaki e Oiwa nella zona montuosa a nord del lago Biwa (a nordest di Kyoto).

Riesce a resistere solo il caposaldo di Shizugatake, che viene sottoposto ad assedio dal luogotenente di Katsuie, Sakuma Morimasa, contro lo stesso volere del proprio comandante in capo.

Hideyoshi è almeno a 4 giorni da lì. Ma l’avversario ha fatto l’errore di sottovalutarlo: il condottiero avanza rapidissimo con 1.000 samurai a cavallo per portare soccorso al caposaldo.

Il resto delle sue truppe lo segue. Arriva durante la notte nella valle ai piedi dell’obiettivo: raccoglie i 15.000 uomini di un alleato, e sorprende Morimasa attaccandolo all’alba del 21 aprile.

Ben presto si scatena una confusa mischia tra rocce, alberi e pendii scoscesi, dove i soldati combattono senza esclusione di colpi con lance, spade e moschetti, isolati o a piccoli gruppi.

Tra gli uomini di Hideyoshi si distinguono i sette componenti della sua guardia del corpo a cavallo, successivamente chiamati “le sette lance di Shizugatake”.

Alla fine a prevalere è l’esercito di Hideyoshi, che manda in rotta le forze dell’avversario. Il condottiero le insegue fino alla fortezza di Kitanosho.

È in questo castello che si è trincerato Katsuie. Ma ormai è rimasto con solo 3.000 uomini a difesa del caposaldo; si sente obbligato al suicidio. Il castello brucia con lui.






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