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Vergognarsi ci fa bene?

L’hanno chiamata la “Cenerentola delle emozioni”, perché a lungo nessuno l’ha studiata a fondo.

Di certo è spiacevole: quando la proviamo vorremmo scomparire, fra cuore che batte forte, sudori freddi e faccia in fiamme.

Eppure la vergogna è un sentimento positivo che dovremmo essere contenti di sentire, perché grazie a lei possiamo avere buone relazioni con gli altri e una società che funziona.

Non a caso è un’emozione universale, vissuta allo stesso modo fra le tribù amazzoniche più sperdute così come in Occidente.

Insomma, c’è da augurarsi che non scompaia. Proprio ciò che a tratti pare stia succedendo oggi, dato che la maggioranza sembra non vergognarsi più di nulla.

La vergogna è un’emozione che ci rende più solidali. Ma ci fa anche bene? Scopriamolo insieme.

 

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1. Da sempre

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Ma che cos’è la vergogna e perché è così importante per l’uomo?

Una risposta arriva dal recente studio di Daniel Sznycer, psicologo dell’Università di Montreal che ha passato al vaglio quindici piccoli gruppi sociali di quattro continenti, diversi per usi e costumi, religione, linguaggio, scoprendo che tutti provano vergogna, anche nelle società più primitive.

Il che significa che non la si impara con la cultura e che si è evoluta con l’uomo.

«Come il dolore avverte che ci stiamo facendo male, così la vergogna segnala che ci stiamo comportando in un modo che potrebbe danneggiare le nostre relazioni sociali», spiega Sznycer.

«L’uomo fin dagli albori della storia è sempre stato dipendente dagli altri: contava su di loro per essere aiutato in situazioni difficili e chi veniva giudicato di scarso valore dal gruppo rischiava di essere lasciato indietro.
La vergogna è da allora la nostra “antenna” per prevedere il giudizio negativo altrui e impedirci di fare scelte che potrebbero ritorcersi contro di noi.

Abbiamo studiato quella provata al pensiero di rubare, oziare e così via e abbiamo concluso che si prova tanta più vergogna quanto più questi comportamenti sono ritenuti negativi dagli altri membri del gruppo».

Una specie di allarme intrinseco insomma, un’emozione privatissima con una forte rilevanza sociale perché ci insegna ad agire in modo che il prossimo ci apprezzi e ci sostenga.

Vergogna, colpa o imbarazzo? Non sono la stessa cosa. Recenti studi hanno fatto chiarezza: quando proviamo vergogna ci sentiamo inadeguati, di scarso valore, diversi e peggiori rispetto al nostro io ideale (e dobbiamo recuperare l’autostima).

Nel senso di colpa invece c’è una valutazione morale, sappiamo di aver fatto qualcosa che viola una norma, ci sentiamo responsabili.

L’imbarazzo poi si manifesta in modo simile alla vergogna, ma è la fase che la precede: lo proviamo quando ci sentiamo esposti al giudizio altrui e siamo a rischio di vergognarci.

 

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2. Bussola morale

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Che vergognarsi non sia un male lo confermano parecchi studi, che dimostrano come questa emozione così spiacevole sarebbe in realtà d’aiuto per imparare ad accettare se stessi e i propri limiti.

La prima reazione che molti hanno sentendo vergogna è infatti scappare, negarla: invece dovremmo accoglierla per diventare persone migliori.

«Questo sentimento ci fa capire che abbiamo bisogno dello sguardo altrui. E ci rende umani: tanto è vero che chi ne è immune e non si cura mai di che cosa pensano gli altri è come se vivesse in una bolla tutta sua, ha insomma una personalità narcisista», dice Gabriella Turnaturi, sociologa dell’Università di Bologna e autrice di Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli).

Quando si parla di questa emozione, inoltre, c’è in ballo anche il giudizio che ciascuno di noi dà di se stesso, come sottolinea Cristiano Castelfranchi dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr:
«Dallo sguardo degli altri possiamo fuggire, dal nostro no. Se abbiamo assimilato i valori che condividiamo con le persone che frequentiamo, ci vergogneremo anche se nessuno ci vede o scopre un nostro gesto sbagliato».

Risultato, la vergogna diventa la bussola per essere accettabili davanti a noi stessi e agli altri, e quindi ci obbliga a correggere gli errori, a fare i conti con i nostri limiti e capacità: così, alla fine, la nostra autostima aumenta.

Le manifestazioni fisiche della vergogna (e anche i modi di dire e le parole che definiscono gli atteggiamenti di chi la prova) sono accomunate dalla voglia di farsi piccoli piccoli: la testa si china, abbassiamo gli occhi, incurviamo le spalle.

Vorremmo sprofondare, sparire dallo sguardo degli altri e sfuggire al loro giudizio, passare inosservati.

O quantomeno sottometterci sperando nella clemenza: anche il rossore del viso, che non può essere dissimulato, è un modo per far capire al gruppo che stiamo soffrendo perché siamo sensibili alle regole e all’opinione degli altri.

 

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3. Non è debolezza

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Ma se la vergogna può essere così positiva, perché arrossire oggi sembra irrimediabilmente fuori moda?

Intanto perché viene vista come un segno di debolezza e sottomissione, che cozza con la pressione attuale ad apparire sempre vincenti: un maschio, soprattutto se ha una posizione da leader (per esempio un capufficio), che si vergogna pare venir meno al suo ruolo.

In più, oltre a essere la sentinella capace di capire se siamo o meno accettabili dagli altri con le nostre azioni, la vergogna è anche una spia della coesione sociale: quando in una società sembra che non ci si vergogni più di nulla, significa che si sono persi ideali condivisi in cui riconoscersi.

In realtà, la vergogna di per sé non è scomparsa, ma non c’è più un sentire comune, una storia condivisa.

La società è frammentata in tanti gruppi che provano questa emozione per motivi molto differenti, dalla ragazzina che sprofonderebbe perché non ha la borsa firmata a chi la prova di fronte alle violazioni dei diritti umani.

La vergogna, insomma, è diventata relativa; una “vergogna fai da te” che nel mondo iper-individualista di oggi sentiamo meno per i comportamenti di cui dovremmo vergognarci davvero, dagli insulti alla violenza, e molto di più per quel che siamo, se non ci conformiamo al modello che va per la maggiore.

Una faccenda, quest’ultima, all’ordine del giorno soprattutto per gli adolescenti.

Ma cosa accade nel cervello? Provare o meno vergogna è anche una questione “di testa”: stando a una ricerca di Virginia Sturn, del Memory and Aging Center dell’Università di San Francisco, più è attiva una zona del cervello, l’area cingolata anteriore pregenuale, più si tende a provare vergogna.

Il dato, secondo Sturn, potrebbe rivelarsi utile per pensare a terapie che aiutino le persone in cui questa emozione diventa troppo forte e porta a isolamento e depressione.

 

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4. Quando è ingiusta e gli animali si sentono in colpa?

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Quando è ingiusta

I ragazzi vivono nel confronto costante con gli altri per costruire la propria identità: per alcuni la vergogna diventa un tabù, perché riconoscere di provarla significa confermare di sentire i propri insuccessi come tali. Allora la negano.
Tanti altri sono invece sopraffatti dalla vergogna di non essere come il resto del gruppo: diversi per qualche motivo, magari ricevono pochi “like” sui social. E si isolano.
Così oggi molti ragazzi si vergognano di quello che sono: grassi, poco attraenti, poveri, malati... “Difetti”, veri o immaginari, che il mondo non sembra perdonare più.
Eppure, la storia delle minoranze nell’ultimo secolo potrebbe insegnare qualcosa.
Persone di colore, donne, omosessuali, che per secoli sono state spinte a vergognarsi di sé, hanno intrapreso un percorso di accettazione in cui, dopo una prima fase di emancipazione, ne è seguita un’altra in cui si è esibito fino all’eccesso l’orgoglio di essere quel che si è.
Dopo essersi vergognati per tanto tempo, infatti, c’è bisogno di sottolineare quanto sia bello appartenere a una categoria bistrattata: è successo con i movimenti per l’orgoglio nero, con il femminismo, con il gay pride.
D’altra parte, quando la vergogna è ingiusta non porta alcun vantaggio, né a sé né agli altri.

 

Gli animali si sentono in colpa?

No. Benché Internet pulluli di siti con foto di cani dagli sguardi contriti dopo aver combinato guai, gli studi scientifici al momento indicano che l’uomo è l’unico a provare questa emozione sociale.
In uno dei più recenti, Ljerka Ostojic, dell’Università di Cambridge, ha provato che anche il padrone più attento non riesce a capire dall’espressione del cane se questo l’abbia fatta grossa o meno.
Dati confermati da una simile indagine del Barnard College di New York: il muso pentito non è diretta conseguenza delle azioni del cane, ma compare solo dopo le sgridate del padrone.

 

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5. Ce n’è di 4 tipi

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Ce n’è di 4 tipi

Secondo lo psicanalista statunitense Joseph Burgo, tutti abbiamo provato almeno una volta uno di questi tipi di vergogna, diversi tra loro perché hanno quattro diverse origini.

  1. AMORE NON CORRISPOSTO.
    È la vergogna “basica” che si apprende fin da piccoli, quando le attenzioni materne sono mancate, oppure anche dopo, a seguito di relazioni sfortunate: non ci si sente degni di essere amati, si resta umiliati dal rifiuto, si sviluppa una vergogna profonda di sé che mina l’autostima.
  2. ESPOSIZIONE NON VOLUTA.
    Quando si è sotto gli occhi di tutti e ci si sente sprofondare, per esempio se corretti per un errore o se deliberatamente umiliati in pubblico. È la vergogna nell’accezione più comune.
  3. ASPETTATIVE DISATTESE.
    La vergogna emerge quando si fa qualcosa e si fallisce: la promozione sul lavoro che sfugge, la relazione col partner che naufraga nonostante l’impegno, l’esame che non si riesce a superare. È la vergogna dei propri limiti.
  4. ESCLUSIONE.
    Tutti vogliono piacere agli altri, essere accettati. Quando non succede e si viene lasciati ai margini si prova vergogna, a prescindere che il rifiuto sia meritato o meno.

 

Curiosità: Paese che vai, usanza che trovi

È universale ma si manifesta in maniera diversa nelle varie culture. Nei Paesi orientali, per esempio, il giudizio degli altri è molto sentito. In Giappone è forte il senso del disonore quando si viene colti in fallo in pubblico, mentre non c’è invece alcun imbarazzo a mostrarsi nudi negli onsen, le terme giapponesi. Per i membri di alcune etnie di Africa e Australia invece non c’è tabù nel consumare rapporti sessuali in pubblico.

 

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