Il duca di Wellington sir Arthur Wellesley (1796-1852) fu primo ministro del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda per due volte.
Da irlandese scalò i vertici politici e militari inglesi. Da esperto di piccole guerre si trovò a un crocevia e diventò l’artefice della sconfitta di Napoleone.
Di un condottiero che abbia sconfitto uno di quei comandanti che tutte le classifiche di merito pongono tra i più grandi geni militari di ogni epoca è facile che si ricordi solo quella vittoria, ignorando tutto ciò che costui ha fatto in precedenza per arrivare a quello scontro decisivo.
E forse si tende a dimenticare che siamo di fronte a un altro genio.
È stato così per Scipione l’Africano, celebrato per la sua vittoria a Zama su Annibale, dimenticando le sue straordinarie vittorie in Spagna e in Africa prima di incontrare il condottiero punico. Ed è così anche per Wellington, vincitore di Napoleone a Waterloo e ricordato solo per quel trionfo.
Stratega e tattico eccezionale, Arthur Wellesley, duca di Wellington, si dimostrò formidabile in ogni frangente e su ogni scacchiere, guadagnandosi il soprannome di “duca di ferro” per la sua determinazione, l’energia, la lucidità, la capacità di sopportare la pressione e di affrontare i pericoli.
Ma chi era veramente sir Arthur Wellesley, duca di Wellington? Scopriamolo insieme.
1. Da alfiere a generale
Eppure, ciò che Wellington aveva fatto in precedenza, in India prima e in Spagna in seguito, sarebbe più che sufficiente a inserirlo in una ideale top ten dei più grandi condottieri della Storia, con i suoi quindici scontri campali e otto assedi sostenuti pressoché senza sconfitte.
Stratega e tattico eccezionale, Arthur Wellesley, duca di Wellington, si dimostrò formidabile in ogni frangente e su ogni scacchiere, guadagnandosi il soprannome di “duca di ferro” per la sua determinazione, l’energia, la lucidità, la capacità di sopportare la pressione e di affrontare i pericoli.
Figlio cadetto di un lord del Parlamento irlandese di seconda schiera, Arthur Wesley, poi mutato in Wellesley, entrò nell’esercito ventiduenne nel 1787 come alfiere del 73° Foot Guards
Poi, nell’arco di un quindicennio divenne tenente nel 76° e nel 41°, capitano nel 58° e nel 18° Dragoni leggeri, maggiore e infine tenente colonnello nel 33°, operando nel 1793 nelle Fiandre contro la Francia rivoluzionaria.
Trasferito in India, dove l’Inghilterra contendeva alla Francia il controllo su ciò che restava dell’Impero moghul, agì ancora da subalterno nella Guerra di Mysore del 1799, ma provocando in prima persona la caduta del sultano Dhundia Wagh l’anno seguente.
Divenne generale di divisione nel 1803, grazie ai buoni uffici del fratello Richard, governatore generale del Bengala, agendo sul fronte settentrionale contro la confederazione mahratta.
2. Dall'India alla Spagna
La vittoria di Assaye, conseguita su un esercito nemico enormemente superiore in effettivi, e quella successiva di Argaum, gli valsero, oltre al grado di maggiore generale, una reputazione che lo catapultò, una volta tornato in patria nel 1805, all’attenzione del primo ministro inglese lord Castelreagh.
Questi lo indusse ad abbandonare la politica, cui Wellesley aspirava dopo essere entrato nel Parlamento inglese, facendone il suo consigliere militare.
L’obiettivo primario dell’Inghilterra, allora, era quello di sgretolare l’impero europeo che Napoleone aveva costituito all’indomani della vittoria di Austerlitz e, dopo un primo tentativo in Scandinavia, dove Wellesley operò tra il 1806 e il 1807, lo scacchiere prescelto fu la penisola iberica, in cui il dominio francese sembrava messo più duramente alla prova dalla ribellione degli spagnoli.
Individuata nel Portogallo la base ove costituire una testa di ponte da cui sottrarre ai transalpini il controllo del territorio, Wellesley sbarcò il 1° agosto 1808 a nord di Lisbona, mettendosi agli ordini del tenente generale Darlymple. Nella sua marcia verso la capitale, colse già il 17 una piccola vittoria campale a Roliça contro Delaborde , cui inflisse 479 caduti.
Appreso che un esercito francese di 13.000 uomini condotto da Junot stava marciando contro di lui, si trincerò dietro un crinale nei pressi del villaggio di Vimeiro e resistette a ben sei attacchi dei francesi, che poi si ritirarono lasciando sul campo perdite superiori alle sue.
Pochi giorni dopo, il luogotenente di Napoleone fu costretto a sottoscrivere l’accordo di Sintra, in base al quale si imbarcò su navi inglesi con tutto l’esercito per essere rimpatriato, e improvvisamente dal Portogallo scomparvero i 26.500 uomini che lo presidiavano.
3. Biasimo e assoluzioni
Ma i termini del trattato suscitarono scandalo in Inghilterra, dove si biasimò altamente Darlymple per aver permesso a un intero esercito nemico di tornare in patria con tanto di equipaggiamento.
Il generale fu rimosso, e con lui i suoi collaboratori più stretti, compreso Wellesley, che fu messo sotto inchiesta (ma poi ne uscì prosciolto).
Il condottiero tornò alla sua attività politica, mentre in Spagna l’arrivo di Napoleone faceva precipitare le fortune inglesi, guidate dall’eroico quanto sfortunato generale Moore. Ma all’inizio del 1809 l’imperatore abbandonò lo scacchiere iberico, e in aprile Wellesley fu rimandato nella penisola con un esercito di 28.000 uomini.
Il generale si impegnò subito a ricostituire l’esercito portoghese, che pose sotto il comando di ufficiali inglesi, richiamando alle armi tutti gli uomini tra i 16 e i 60 anni, e fruendo così di altri 16.000 effettivi.
Gli inglesi erano rimasti in possesso del solo Portogallo Meridionale, ed erano di fatto assediati da tre armate; Wellesley marciò subito verso quella di Soult, obbligando con una rapida manovra il maresciallo ad abbandonare Oporto il 12 maggio, lasciandosi dietro le salmerie. Poi si sentì in grado di passare in Spagna, cogliendo una nuova vittoria a Talavera il 28 luglio 1809, che gli valse il titolo di visconte di Wellington.
La reazione francese lo spinse ad allestire un imponente sbarramento difensivo intorno a Lisbona, le Linee di Torres Vedras, dietro il quale si trincerò dopo aver vinto ancora una volta a Bussaco, nel settembre 1810, facendo terra bruciata per togliere ogni forma di sostentamento ai francesi. L’anno seguente lo vide di nuovo all’offensiva, e ancora vincente sul campo di battaglia, a Fuentes de Oñoro.
Poté così ripassare in Spagna, espugnando lungo la frontiera le due fortezze di Ciudad Rodrigo e Bajadoz, l’una in meno di due settimane, nel gennaio 1812, la seconda in tre settimane tra marzo e aprile; in quest’ultima circostanza, penetrò di notte attraverso le brecce aperte dall’artiglieria, subendo un alto numero di perdite.
Risalendo verso settentrione, fece fare una brutta figura anche a Marmont, obbligandolo con una serie di manovre ad allungare le sue linee e attaccandolo il 21 luglio sul fianco presso Salamanca. La clamorosa vittoria gli aprì la strada per Madrid, dove entrò il 12 agosto.
Ma poi provò senza successo a espugnare Burgos, ritirandosi dopo cinque frustranti settimane di assedio e raggiungendo il Portogallo dopo una drammatica marcia, che gli costò il 10% degli effettivi.
L’anno seguente Wellington poté approfittare delle difficoltà in cui si dibatteva la Francia napoleonica su tutti i fronti, sferrando l’offensiva decisiva in primavera. Colse una nuova vittoria campale a Vitoria il 21 giugno, guadagnandosi il bastone da maresciallo.
I suoi successi affrettarono lo sgombero della penisola da parte delle truppe francesi, che contro di lui avevano tenuti impegnati 300.000 uomini, e gli permisero di proseguire l’offensiva oltre i Pirenei.
Proprio in territorio francese fu ferito in battaglia per la prima e ultima volta; fu a Orthez, dove conseguì una nuova vittoria, che bissò a Tolosa quattro giorni dopo l’abdicazione di Napoleone.
4. Faccia a faccia con Bonaparte
Il prestigio acquisito grazie alle sue innumerevoli vittorie gli valse non solo la carica di plenipotenziario inglese al Congresso di Vienna e il titolo di duca, ma anche quella di comandante in capo delle forze alleate nelle Fiandre, quando Napoleone fuggì dall’Elba.
Era l’occasione, finalmente, per misurarsi direttamente con l’imperatore, dopo averne sconfitto ripetutamente i marescialli: Junot a Vimeiro, Soult a Oporto, Victor a Talavera, Massèna e Ney a Bussaco, Massèna e Bessières a Fuentes de Oñoro, Marmont a Salamanca e Jourdan a Vitoria, ridimensionati e precipitati in disgrazia (a Massèna e Jourdan, per esempio, non fu più permesso di combattere).
Wellington aveva sempre adottato una strategia difensiva – tranne che a Salamanca – una sorta di “catenaccio” che costringeva il nemico ad attaccarlo sul terreno da lui prescelto, in sfavore di pendio e senza permettergli di conoscere la reale entità dei suoi effettivi, nascosti dietro un crinale; anche in Belgio scelse uno scacchiere e rimase in attesa che Napoleone gli venisse incontro.
Quel famigerato 18 giugno 1815, probabilmente, non sarebbe stata sufficiente la sua abilità per cogliere la vittoria. Di fronte agli assalti di Napoleone, il suo solo obiettivo era resistere fino a quando i prussiani non fossero stati in grado di minacciare il fianco destro francese, e fece tutto il possibile per conseguirlo.
Schierò i suoi uomini in una solida posizione dietro un crinale, nascondendone in parte il numero come era solito fare, obbligando così le truppe nemiche ad attaccare in sfavore di pendio e vanificando il tiro dell’artiglieria francese; non abboccò al tentativo di Napoleone di indurlo a sguarnire il centro attaccando la sua ala sinistra; mantenne i suoi uomini in quadrati serrati, contro cui si infransero le cariche nemiche; contrattaccò al momento giusto, rompendo lo schieramento francese.
Ma, d’altra parte, una buona mano gliela diedero il clima piovoso, che obbligò Napoleone a ritardare l’inizio dell’azione nell’attesa che il terreno fangoso si solidificasse, Blücher, che riuscì a eludere l’inseguimento di Grouchy e a giungere in tempo, e gli errori del maresciallo Ney, che con le sue cariche intempestive vanificò parte della tattica del suo comandante supremo.
Dopo aver sconfitto Napoleone, non c’era nient’altro che Wellington potesse fare per dimostrare il suo talento bellico; pertanto, abbandonò definitivamente la carriera militare attiva per dedicarsi a quella diplomatica.
Non andò mai a trovare il suo grande avversario a Sant’Elena, e Napoleone, che lo stimava e che avrebbe voluto misurarsi con lui già in Spagna, ci rimase male, accusandolo di scarsa sensibilità nelle sue memorie.
Nel 1828 Wellington divenne primo ministro per un biennio, per poi assumere il ruolo di comandante in capo delle forze britanniche, incarico conservato fino alla sua morte, avvenuta il 14 settembre 1852. Difficile non considerarlo alla pari dei più grandi.
5. Assaye, Bussaco e Salamanca
- Wellington in inferiorità numerica: Assaye
Il rajah Sindhia, insieme al suo alleato Berar, è accampato sul fiume Kaitma con un esercito di 40.000 uomini e Wellesley non esita ad attaccarli a dispetto della sua netta inferiorità numerica.
Per evitare di essere accerchiato, trova un guado sul fiume che gli consente di avanzare verso l’esercito nemico con i fianchi protetti dal corso d’acqua stesso e da un suo affluente, puntando al settore sinistro dello schieramento avversario, dove sono disposti i 15.000 regolari indiani, i soli che contino davvero.
Ne nasce una feroce e lunga mischia, nella quale Wellesley si mantiene sempre in prima linea, tanto che per ben due volte le artiglierie dei maratthi gli uccidono il cavallo.
Gli inglesi riescono a volgere la situazione a loro favore quando si impossessano dei cannoni nemici, conquistando il villaggio di Assaye.
Gli indiani lasciano sul campo 6.000 morti, a fronte dei 1.500 britannici. - Wellington in difesa: Bussaco
Attende Masséna sulla strada per Coimbra, appena dietro la cresta della dorsale di Bussaco, con 52.000 uomini, la metà dei quali portoghesi.
Il maresciallo francese, che dispone di 65.000 effettivi, giunge a contatto del nemico e attacca all’alba il centro inglese, mandando all’assalto due divisioni su un’erta con pendenza del 30%.
Le truppe di Wellington accolgono i francesi con un fitto fuoco di artiglieria, poi quando il fumo si dirada contrattaccano alla baionetta ricacciando indietro un nemico stanco e decimato.
Sull’ala destra transalpina prova allora ad attaccare Ney, proprio in corrispondenza del monastero che il nemico ha scelto come postazione.
In quel settore sono presenti una brigata portoghese e una divisione leggera inglese, che contrattaccano a loro volta alla baionetta obbligando i francesi a ripiegare nuovamente.
Alle 16 Masséna dà l’ordine di ritirata, lasciando sul campo 4.486 soldati. Wellington ha perso 1.269 uomini. - Wellington attacca: Salamanca
Alla testa di un esercito di 48.000 uomini e 60 cannoni, Wellington si impossessa di Salamanca, ma l’arrivo di Marmont nei pressi, con 50.000 uomini e 78 cannoni, lo induce a ritirarsi e ad attestarsi sulle alture a nord della città.
Marmont si guarda bene dall’attaccare le solide posizioni nemiche e ripiega verso il Duero, inducendo l’avversario a seguirlo. I due eserciti marciano quasi paralleli per tentare o evitare l’aggiramento, estendendo sempre di più le loro linee di comunicazione e assottigliando le colonne.
Dopo oltre due settimane di schermaglie, Marmont vede Wellington attraversare il fiume Tormes e pensa che l’avversario si stia ritirando verso il Portogallo; prova pertanto a varcare il fiume a sua volta per attaccarne la retroguardia.
Ma il suo movimento allunga ulteriormente la colonna francese e crea un varco di un chilometro e mezzo tra le divisioni di testa, di cui l’altro si accorge.
Nel primo pomeriggio il condottiero inglese manda quindi una divisione all’attacco del fianco nemico, e nell’arco di due ore impiega quasi tutte le sue unità contro la sfilacciata colonna francese.
Marmont, ferito da una palla di cannone e trasportato lontano dal campo di battaglia, non può impedire che 5 delle sue 8 divisioni si disperdano verso il Tormes, subendo 14.000 caduti, contro le 5.214 perdite di Wellington.