La Prima Guerra Mondiale, conosciuta anche come la Grande Guerra o Guerra di Trincea sconvolse il mondo tra il 1914 ed 1918 e vide coinvolte 28 nazioni.
A contrapporsi in quello che divenne il primo conflitto mondiale furono due grandi schieramenti: le Potenze alleate, conprendeva anche Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia e Stati Uniti, e gli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria).
Le cause politiche riguardavano i contrasti fra gli stati europei ed alcuni problemi presenti al loro interno, e precisamente:
- La Germania desiderava acquisire territori in Russia, temeva la superiorità navale britannica e, soprattutto, si sentiva minacciata e relegata all’isolamento dai Paesi confinanti;
- L’Austria-Ungheria, considerandosi un’alleato di minore importanza nei confronti della Germania, nonché direttamente minacciato dal desiderio di indipendenza delle proprie, molteplici minoranze etniche e dei Paesi confinanti, cercava un rafforzamento economico e diplomatico in Europa.
- La Gran Bretagna, in seguito all’apertura del Canale di Kiev, temeva una costante e inarrestabile crescita della Marina militare e commerciale tedesca; inoltre si sentiva seriamente minacciata da una possibile invasione teutonica.
- La Francia agognava riconquistare Alsazia e Lorena – perdute e concesse alla Germania nel 1870 – e temeva una crescente egemonia europea tedesca;
- L’Italia, alla quale la Triplice Alleanza, stipulata in precedenza con Austria e Germania, risultava decisamente poco proficua – mirava ad acquisire territori austro-ungarici: in particolare, in Dalmazia e nell’Adriatico.
- La Serbia cercava uno sbocco sul Mare Adriatico e avrebbe voluto condurre la rivolta delle popolazioni Slave nei Balcani ai danni dell’oppressione imperiale Austriaca;
- La Russia condivideva gli interessi della Serbia – al fine di spezzare il giogo imperiale che gravava sulle popolazioni Slave – e temeva le mire espansionistiche pan-europee tedesche.
Nella situazione internazionale appena delineata, fu sufficiente una “scintilla” per far esplodere il conflitto.
E la scintilla scoccò il 28 giugno 1914, quando un nazionalista serbo, Gavrilo Princip, uccise a Sarajevo (capitale della Bosnia) l’erede al trono d’Austria , l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, che erano in visita alla città (allora appartenente all’Impero Austro-ungarico).
I Generali della Prima Guerra Mondiale sembrano aver saltato a piè pari qualsiasi tipo di insegnamento derivato dall’esperienza dei loro predecessori, essendo sprofondati tragicamente a nella devastante “materialschlacht”, o “guerra di materiali”, sperando di strappare facili vittorie con migliaia e migliaia di vite umane continuamente sprecate in un insensato tritacarne bellico.
L’intera Europa del 1914-1918 era in fiamme e ben presto il singolo individuo si trovò a combattere semplicemente per portare a casa la “ghirba” e non più per inseguire un’ideale politico o economico.
Ecco allora imporsi a imperitura memoria, l’inferno di Ypres, Verdun, Caporetto, della Somme e via dicendo, reiterato scenario di incommensurabili carneficine dettate esclusivamente dall’ego e dall’ottusità di troppi scellerati “burattinai” ai vertici della contesa.
Purtroppo, la cosiddetta “Grande Guerra”, sembra essere stata dimenticata troppo in fretta e quasi “oscurata” dalla Seconda Guerra Mondiale (trattata, documentata e riproposta a oltranza dai principali Media).
Ed è un grave peccato perché la Prima Guerra Mondiale ha gettato, guarda caso, proprio quasi tutte le basi della Seconda, creando i presupposti per la nascita di movimenti politici e vere e proprie “ritorsioni” in grande stile, di cui si parla ancor oggi, ogniqualvolta si tratta la figura delle dittature Italiane e Tedesche che hanno avuto un ruolo predominante dagli anni ‘30 fino al 1945.
Per non parlare poi di ciò che i francesi chiamano “Le Tournant Du Siecle”, l’avvento del secolo scorso cioè, che ha assistito ed è stato direttamente interessato da un’infinita serie di sconvolgimenti, innovazioni, scoperte e mutazioni economiche, sociali e politiche catalizzate e apparse subito prima, durante o dopo la cosiddetta Grande Guerra.
Oggi vedremo 5 tra le battaglie più importanti che hanno caratterizzato questa “Grande Guerra”. Leggiamole insieme.
1. Ypres
Sul finire del 1914, al termine della “corsa verso il mare”, la cittadina di Ypres (oggi Ieper), nelle Fiandre settentrionali, assunse il ruolo di ultimo caposaldo dell’esercito Inglese, prima della regione prossima alle coste del Belgio (completamente inondata all’inizio del conflitto, per impedire l’avanzata tedesca).
Il fronte pertanto, assunse una conformazione tipica di un saliente, con la cittadina di Ypres pericolosamente protesa a oriente e circondata su tre lati da modesti rilievi occupati dai tedeschi.
Ben tre terrificanti campagne, con il concerto di un clima quasi perennemente piovoso, ridussero l’intera zona ad un paesaggio lunare e spettrale, dove moltissimi soldati furono vittima del fango e degli elementi naturali particolarmente avversi, ancor prima delle mitragliatrici e dei cannoni.
La prima battaglia di Ypres (22 aprile 1915) inaugurò, tra l’altro, un nuovo, tremendo sistema per cercar di aver la meglio sul nemico: l’uso indiscriminato di gas letali, tra cui il fosgene, il cloro e il solfuro dicloroetilico: non a caso, tutte queste miscele letali presero poi il nome identificativo generico di “Iprite”, dalla stessa cittadina Belga.
I gas aggressivi vennero prodotti e impiegati in grande quantità nella Prima Guerra Mondiale. Non ebbero tuttavia grande influenza strategica, salvo che in episodi locali, a causa dell’estrema sensibilità alle condizioni atmosferiche e la notevole difficoltà di impiego.
La British Expeditionary Force, solo a Ypres, registrò 5.000 morti e 10.000 intossicati dal 1915 fino al termine del conflitto.
Nel 1917, lo stesso settore di Ypres fu teatro dell’ultima offensiva di Sir Douglas Haig, il Capo di Stato Maggiore britannico, che, convinto per l’ennesima volta di poter sconfiggere il nemico con la “guerra di materiali”, mandò allo sbaraglio migliaia di uomini per conquistare, in ben tre mesi di inutili massacri, solo qualche chilometro in più all’interno del saliente (Battaglia di Passchendaele).
2. Verdun
Recita una delle tantissime testimonianze dei soldati francesi, gettati nel diabolico tritacarne di Verdun: “Se non avete visto Verdun, non avete visto niente della guerra”.
Alla vigilia di Natale 1915, Eric von Falkenhayn presentò al Kaiser Guglielmo II° un dettagliato memorandum per l’attacco a ovest.
L’obiettivo sarebbe stato il tranquillo settore meridionale di Verdun, che la propaganda francese aveva dichiarato assolutamente inespugnabile. Il 21 febbraio 1916, l’artiglieria iniziò a martellare le posizioni francesi.
Per tre giorni i tedeschi investirono le linee nemiche. Il morale dei soldati francesi subì un durissimo colpo, massacrato da circa due milioni di proiettili, lanciati solo nelle prime nove ore di bombardamento (in soli venti chilometri quadrati di zona di combattimento!).
I tedeschi si lanciarono all’assalto provando, per la prima volta, tecniche di infiltrazione supportate da due terribili armi: i gas e i lanciafiamme (che fecero la loro prima apparizione proprio a Verdun). Il 25 cadde il bastione centrale delle difese di Verdun, il forte Douaumont (lasciato pressoché indifeso già dall’inizio della guerra, in seguito a una grave valutazione strategica).
Politicamente tuttavia, Verdun non sarebbe dovuta mai cadere in mano al nemico e proprio su questo si era basata la strategia del Generale von Falkenhayn: dissanguare l’esercito nemico, impegnandolo in un deleterio e inevitabile tritacarne bellico.
Lo Stato Maggiore francese decide di resistere a qualsiasi costo, affidando l’intero settore di guerra al Generale Philippe Pétain.
Quest’ultimo lanciò una serie di furiosi contrattacchi, alimentati dai rinforzi che arrivano lungo la Voie Sacrèe (la “Via Sacra”): una strada battuta dall’artiglieria, ma unica via di collegamento al fronte, sulla quale sfilarono, per mesi e mesi, circa 20.000 uomini al giorno e un autocarro ogni 5 secondi.
“Ils ne passeront pas” – “Non passeranno”, fu l’unica parola d’ordine di Petain: Verdun diventò allora il simbolo della Francia, del suo onore e della follia stessa della guerra.
Lo scontro, violentissimo e senza quartiere (si arrivò spesso agli attacchi alla baionetta e a selvaggi confronti a mani nude) si protrasse fino all’ottobre del 1916, quando entrambe le fazioni si arresero di fronte al reciproco sfinimento e a circa 700.000 soldati caduti.
3. Caporetto
Nella seconda metà del 1917, l’esercito russo non aveva praticamente più capacità bellica: questo permise ai germanici di sottrarre al fronte orientale un cospicuo numero di divisioni.
Date le pressanti richieste del nuovo imperatore d’Austria, fu creata un’armata agli ordini del capace Generale Von Below, allo scopo di ricacciare gli Italiani sulle posizioni del 1915. L’operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi.
Per aprire la strada agli attaccanti nella conca di Plezzo, fu fatto arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas, che piazzò centinaia di tubi lanciagranate di fronte alle linee italiane (i reparti che Cadorna avrebbe in seguito tacciato di codardia, erano già destinati a morire, in battito d’ali, per intossicazione da gas fosgene nemico).
La mattina del 24 ottobre 1917, l’alta valle dell’Isonzo era piena di nebbia e il tempo era freddo e piovoso. Nonostante conoscessero l’ora d’inizio dell’attacco nemico, gli artiglieri italiani restarono immobili.
Ben presto, una valanga di fuoco si abbatté sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere le retrovie, ma i vertici militari italiani erano stati chiarissimi, quando avevano imposto di non sparare fino a che ciò non venisse esplicitamente richiesto e autorizzato.
Tuttavia, sotto un simile uragano di ferro, le linee telefoniche saltarono subito; i segnali ottici non servirono e i portaordini non riuscirono a recapitare alcun ordine, falciati ovunque dal fuoco nemico.
In realtà, il tiro di contropreparazione sarebbe dovuto iniziare prima e non dopo quello austrotedesco (il che, quando accadde, come nella battaglia del Solstizio, azzerò le possibilità di successo dell’attacco), dato che tutte le informazioni indicavano un ammassamento di truppe d’assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi, poco protette da un efficace sbarramento d’artiglieria.
Il Generale Pietro Badoglio fu il principale esecutore dell’ordine che imbavagliò le artiglierie; il Generale Luigi Capello, dopo giorni di farneticazioni e preparazioni di controffensive strategiche, cadde malato: il caos totale regnava dunque sovrano e gli austro-tedeschi violarono e dilagarono facilmente per la val Natisone e la valle dell’Isonzo, in mezzo a isolate sacche di resistenza e a grottesche incapacità dei comandi italiani.
La difesa si spostò dapprima sulla linea al Tagliamento e quindi sul Piave e sul Grappa (dove le truppe del neodecorato “Pour le mérite” Tenente Ervin Rommel, condottiero delle avanguardie austro-tedesche, ebbero poi modo di spuntarsi le corna contro i battaglioni degli Alpini).
Qui e sull’Altopiano dei Sette Comuni, si combatté una terribile battaglia d’arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio del 1918; infine, l’esercito italiano si ricompattò con ritrovato fervore patriottico e riprese la pugna a oltranza.
Nella battaglia vi parteciparono per l’Italia 257.400 soldati, con 1.342 cannoni, per l’Austria 350 mila uomini con 2.518 cannoni.
Per l’Austria il bilancio fu di 50 mila tra morti e feriti, tra i 10.000 e i 13.000 furono i morti italiani, 30.000 i feriti, decine di migliaia tra prigionieri e disertori, oltre un milione i profughi civili.
Dopo Caporetto, l’esercito italiano, tra il Brenta e il mare, poteva contare su non più di 300.000 uomini - ma erano uomini che la tragedia di Caporetto aveva profondamente cambiato e, in qualche modo, forgiato e preparato al ben più radioso futuro del 1918.
4. La Somme
Cinquantanovemila perdite, circa lo stesso numero di soldati scomparsi in dieci anni di guerra in Vietnam, furono le perdite della British Expeditionary Force solo nel primo giorno di offensiva nel settore del fiume Somme, a sud di Ypres e a nord-est di Parigi.
Narrano le cronache dei testimoni oculari, che i mitraglieri tedeschi smisero ben presto di sparare, esterrefatti e allibiti dal terrificante tiro al bersaglio che venne loro offerto, la mattina del 1° luglio 1916.
I soldati inglesi, convinti che una settimana di bombardamento di preparazione avesse annichilito qualsiasi tipo di difesa passiva, uscirono dalle trincee e marciarono incontro a morte certa, a passo rallentato, senza nemmeno imbracciare il fucile.
I tedeschi, dal canto loro, usciti dalle “stollen” - profonde caverne studiate per sopravvivere anche ai cannoneggiamenti più intensi - si trovarono a sparare contro file inspiegabilmente compatte di bersagli, senza dover neanche prendere la mira.
La Battaglia della Somme, voluta principalmente dalla Francia, per alleggerire la pressione su Verdun, testimoniò per la prima volta la caparbia testardaggine dello stato maggiore britannico, unitamente alla sua alta impreparazione ed immaturità nella prima offensiva di materiali dell’Intesa.
Dal tragico risultato di questa campagna, l’esercito inglese non riuscì a trarre sufficienti insegnamenti per evitare, un anno dopo, un’analoga strage annunciata durante la Terza Battaglia di Ypres (Passchendaele).
A rendere più amara l’inutile perdita di tante vite umane, contribuì poi la scoperta di moltissimi proiettili inesplosi e difettosi, che durante il bombardamento preparatorio avevano lasciato pressochè intatti reticolati, filo spinato e trincee avversarie.
Con l’autunno, il campo di battaglia si coprì di fango. La pioggia trasformò le trincee in acquitrini, rendendo ancora più difficile la vita ai soldati. L’ultima fase della battaglia si svolse il 19 novembre.
Da un punto di vista strettamente tattico si trattò di una sconfitta tedesca, ma il guadagno territoriale alleato rispetto a luglio precedente fu davvero minimo: un saliente profondo al massimo dieci chilometri, conquistato a carissimo prezzo: le perdite, tra morti e feriti, ammontarono a 620.000 per l’Intesa a e 450.000 per la Germania.
5. Gallipoli
Verso la metà del 1915, apparve chiaro a tutte le potenze coinvolte nel conflitto che la guerra di movimento aveva definitivamente ceduto il posto a quella di logoramento statico, in trincea.
Ciò costrinse non solo a una lunga e dispendiosa revisione di tattiche, strategie e apparati logistici, ma anche alla spasmodica ricerca di un altro teatro di battaglia dove fosse possibile sbloccare, di riflesso, lo stallo Europeo.
Il Primo Lord dell’Ammiragliato Britannico, il giovane Winston Churchill, pensò di aver trovato la soluzione ideale, proponendo l’idea di un clamoroso attacco allo stretto dei Dardanelli.
Liberando questa zona dal controllo Turco, le forze dell’Intesa avrebbero potuto rifornire liberamente la Russia dal Mar Nero, incrementando così la pressione dal Fronte Orientale ai danni di Austria e Germania.
Lo Stretto dei Dardanelli era tuttavia ben difeso dall’artiglieria e dalle mine turche e, per liberarsi da queste ultime, la Reale Marina Britannica avrebbe ricoperto un ruolo predominante in tutta l’operazione.
Il piano si concretizzò il 19 Febbraio 1915, ma la flotta inglese incontrò subito difficoltà insormontabili e delegò alle truppe da sbarco, composte perlopiù da “Tommies” Australiani e Neozelandesi, l’esclusivo e arduo compito di snidare le batterie costiere turche e le truppe arroccate a ridosso dello Stretto.
Fin dal primo giorno di combattimento, le spiagge della penisola interessata dallo sbarco si trasformarono in una specie di “prova generale” del D-Day della Normandia di un ventennio dopo.
I “Tommies” britannici vennero inesorabilmente falciati a migliaia dai colpi avversari e da condizioni ambientali assolutamente deleterie (che provocarono dissenteria, colera, disidratazione).
La decisione di porre fine ad un ennesimo, inutile massacro, fu presa dopo ben 259 giorni di inutile guerriglia e circa 205.000 caduti.
Da quel giorno, la Penisola di Gallipoli è rimasta nella storia degli Australiani e dei Neozelandesi come il calvario di un’intera generazione, che non potrà mai essere dimenticato.