La ’ndrangheta è il principale prodotto criminale della Calabria ed è un’organizzazione mafiosa, sicuramente simile alla mafia e alla camorra, ma dalle stesse profondamente diversa.
Essa costituisce un’associazione segreta, che vincola gli associati alle regole dell’omertà, che parla con il silenzio o con gli sfregi o con gli omicidi o con la simbologia degli animali sgozzati o degli alberi tagliati o dei negozi bruciati o delle automobili andate in fumo.
Che non ha statuti o documenti scritti, che non conserva i verbali delle riunioni e delle decisioni assunte, che esiste anche se molti affermano che non esiste, che dice di credere in Dio ma viola abitualmente molti dei comandamenti principali tra i quali quello di non uccidere.
Che frequenta numerosi uomini politici, i maggiorenti locali, i potenti di turno, gli uomini che detengono il potere economico.
Che produce cultura anche se non ha scuole o università, che ha inciso sulla vita quotidiana delle gente e nel suo costume anche con le regole dell’onore che non erano quelle dell’antica tradizione ma erano ben diverse perché il concetto dell’onore per gli ’ndranghetisti è legato al controllo del territorio.
Che parla di famiglia mischiando insieme in un intreccio inestricabile famiglia naturale e famiglia mafiosa rendendo in tal modo complicato separare l’una dall’altra.
Per capire le ragioni del suo successo e il segreto del formarsi di questa autentica potenza mafiosa non bisogna solo indagare sul mondo criminale, ma bisogna volgere lo sguardo alla storia della Calabria, all’economia, alla società, alla politica, alla formazione del personale politico, alle classi dirigenti, alle furibonde lotte familiari che nei paesi contrapponevano due famiglie o poche altre per la conquista del potere locale sicché già in pieno Ottocento erano all’ordine del giorno i brogli elettorali, l’uso spregiudicato delle clientele e l’ossessiva ricerca di tutti i mezzi pur di vincere le elezioni comunali. Bisogna inoltre scandagliare i mari profondi della cultura, del folklore, della religione e, perché no?, anche delle favole come quella molto importante di Osso, Mastrosso, Carcagnosso.
Oggi conosceremo 5 aspetti molto interessanti di quest’organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa originaria della Calabria, e cioè l’origine e l’affermazione del nome, il rapporto che lega la Ndrangheta ai mitici cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, la sua struttura familiare, il ruolo delle donne al suo interno e, infine, vedremo diversi codici, riti e rituali.
A chi è particolarmente interessato all’argomento, consigliamo la lettura del libro “’Ndrangheta” di Enzo Ciconte. Buona lettura.Buona lettura.
1. Origine e affermazione del nome
Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, i magistrati cominciarono a processare i criminali calabresi avevano un problema di definizione perché non sapevano come chiamarli. L’incertezza durò molto a lungo.
Alcuni adoperavano termini come mafia, maffia o camorra, che erano parole in uso in Sicilia e in Campania, oppure facevano ricorso a quello di onorata società o di famiglia Montalbano.
Erano in tanti a chiamarla così, e lo fecero a lungo. In una requisitoria pronunciata il 27 febbraio 1927 il sostituto Procuratore generale del Re di Messina, Vittorio Barbera, nel processo contro 90 imputati originari di Santo Stefano e di Podargoni in provincia di Reggio Calabria, definì l’associazione a delinquere «la Montalbano famiglia onorata».
Ancora nel 1961 v’era qualcuno che parlava di famiglia Montalbano oppure di onorata società. E nel 1973 Saverio Montalto scrisse un romanzo dal titolo La famiglia Montalbano mettendo in scena figure di ’ndranghetisti spietati contro i poveri e alleati degli antichi notabili.
Ai primi del novecento scrittori come Dino Taruffi, Leonello De Nobili e Cesare Lori o Enrico Morselli e Santo De Sanctis registravano la parola picciotteria, che sembrava essere il termine più appropriato a definire i mafiosi calabresi, e questa parola fu la più usata per mezzo secolo.
Dopo una fugace apparizione nel 1909 nel dizionario del Malara bisognerà attendere l’ottobre del 1961 per trovare su una rivista come «Cronache meridionali» un articolo di Attilio Piccolo dal titolo La “ndranghita” in Calabria.
L’anno dopo la parola ’ndrangheta comincerà ad essere adoperata anche da Giuseppe Guido lo Schiavo nel suo 100 anni di mafia. Da quel periodo in poi il termine nella sua versione ultima – ’ndrangheta – ha preso a circolare e ad affermarsi dappertutto.
Ma non tramontava la parola mafia che continuava ad essere utilizzata anche in ambienti politici.
Ndranghita è d’origine grecanica e deriva da andragathos – parola contratta di due termini anér /andròs, che significa uomo e agathòs che sta per bellezza – che nella nuova accezione si tramuterà nel significato di uomo valoroso e coraggioso, termine che ben s’attaglia ad un’associazione formata da uomini d’onore, come loro stessi amavano definirsi.
C’è anche chi non è convinto dell’origine nobile della parola e propende per una spiegazione più popolaresca e meno onorifica: essa non sarebbe altro che il ritornello – e ’ndranghete e ’ndra – che accompagna il battere delle mani durante la tarantella.
2. I cavalieri spagnoli
Si può fare uno schizzo storico della criminalità mafiosa facendo ricorso alle favole?
Può sembrare un paradosso, ma la risposta è si, si può fare proprio per la funzione che ha avuto nell’immaginario mafioso la favola più importante, quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso; nomi terrificanti ma anche intriganti che suscitavano curiosità, che accendevano fantasie.
Chi erano costoro che avevano nomi così improbabili? Osso, Mastrosso e Carcagnosso erano i tre mitici cavalieri spagnoli appartenenti ad una società segreta di Toledo chiamata Guarduña i quali sarebbero venuti in Italia attorno al 1412.
Erano in fuga dalle proprie terre perché avevano difeso l’onore della propria famiglia vendicando con il sangue l’offesa arrecata ad una sorella.
Si racconta che se ne stettero nell’isola di Favignana per 29 lunghi anni. Lì, di nascosto da tutti, lavorando sotto terra, approntarono le regole sociali delle più grandi organizzazioni mafiose.
Quando riemersero, Osso si recò in Sicilia e lì fondò la mafia, Mastrosso si portò in Campania per organizzare la camorra e Carcagnosso, valicato lo stretto, arrivò in Calabria per dare vita alla ’ndrangheta.
Secondo un rituale riportato da Luigi Malafarina Osso rappresenta Gesù Cristo, Mastrosso San Michele Arcangelo e Carcagnosso San Pietro che starebbe sopra un cavallo bianco davanti alla porta della Società.
Altre fonti attribuiscono la protezione di San Giorgo a Osso, quella della Madonna a Mastrosso, mentre san Michele Arcangelo o l’Arcangelo Gabriele sarebbero a protezione di Carcagnosso.
Favola, certo; ma di notevole importanza per la costruzione della cultura e dell’ideologia ’ndranghetista, anche perché è gravida di straordinari elementi simbolici: rimanda alla Spagna che è il mito fondante di tutte e tre le organizzazioni mafiose, accredita origini nobili – fatto di cruciale importanza per chi ha un problema di identità da trasmettere ai propri affiliati – richiama l’onore, la famiglia, la segretezza, le regole.
C’è anche un’allusione all’importanza del carcere nella formazione e nella mitologia mafiosa come si comprende facilmente per il richiamo fatto all’isola di Favignana, sede di penitenziario.
E infine c’è la mescolanza tra il sacro e il profano, il volere a tutti i costi aggrapparsi ai mantelli dei santi della Chiesa cattolica e delle madonne per trovare sotto quel riparo forza e autorevolezza.
Ci sono tutti i principali ingredienti per fare un buon mafioso. Il resto sarà forgiato dall’esperienza e dalla pratica quotidiana che per uno ’ndranghetista inizia molto presto, sin dalla prima gioventù.
3. La struttura familiare
Uno dei punti di maggiore forza della ’ndrangheta è quello della famiglia naturale del capobastone che è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ’ndrina.
La ’ndrina a base familiare è il segreto del successo della ’ndrangheta sul piano criminale e della sua forza attuale di fronte a tutte le altre formazioni mafiose.
Il mafioso è sempre figlio del suo tempo e della sua terra. E il mafioso calabrese ha costruito le proprie fortune con i materiali che si trovava a portata di mano, a cominciare dalla cultura della famiglia.
Non ha inventato nulla, ha solo utilizzato e strumentalizzato ai suoi fini il deposito culturale calabrese. All’interno di una precisa concezione della famiglia, la «Calabria è uno dei paesi che ha in maggior grado il senso della gerarchia, il senso paterno, patriarcale».
Su questa base culturale, sullo zoccolo duro di un’antica concezione che si tramanda da generazioni la ’ndrangheta ha fondato la sua struttura organizzativa. La famiglia naturale è il cuore pulsante della famiglia mafiosa.
All’interno di essa c’è una precisa gerarchia di comando che era già connaturata alla famiglia patriarcale. È il patriarca la guida di tutto il parentado, è il capobastone il capo assoluto della famiglia mafiosa.
C’è un’assoluta continuità tra le due figure, che in fin dei conti si sommano. Il figlio-affiliato che già doveva obbedienza al padre-patriarca trasferirà questa obbedienza al padre-capobastone senza avvertire contraddizione alcuna.
Ancora fino a pochi decenni fa non era infrequente trovare figli, per non parlare delle figlie, che in segno di rispetto davano del voi al padre. In quel “voi” c’era tutta la distanza tra padre e figlio e tutta la sottomissione del secondo al primo.
Si potrà obiettare che quel tipo di famiglia ottocentesca o d’inizio Novecento non esiste più perché è profondamente cambiata e s’è trasformata sin dalle fondamenta da allora ad oggi. Ed è una obiezione giusta.
Oggi tutto ciò è solo il ricordo del passato ed il rapporto tra padre e figlio non è più quello d’un tempo. Ma è altrettanto vero che tutto ciò non ha indotto la ’ndrangheta a modificare la struttura di fondo della composizione familiare.
La’ndrina ha avuto la capacità di assorbire i mutamenti della famiglia calabrese e ha trovato al suo interno ammortizzatori e forme di compensazione. Ogni ’ndrina familiare era autonoma nel proprio comune dove aveva il potere assoluto, a meno che non ci fossero altre famiglie ’ndranghetiste.
In tal caso c’era una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ’ndrine la coabitazione era regolata dal “locale”, una sorta di struttura di vertice della ’ndrangheta calabrese che possa essere lontanamente paragonabile a quella della commissione provinciale di Palermo.
4. Le donne di ’ndrangheta
Le donne hanno un ruolo centrale in questa realtà familiare non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella cura complessiva della famiglia, compresa la gestione diretta degli affari quando il marito è impossibilitato perché arrestato o limitato perché latitante, hanno via via ricoperto ruoli rilevanti.
La ’ndrangheta è, tra l’altro, l’organizzazione mafiosa che prevede il grado di “sorella d’umiltà”, che è il più alto grado che può essere conferito ad una donna come hanno scritto Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. Lo si trova persino in Lombardia nella ’ndrina dei Mazzaferro lì trapiantata.
Per lungo tempo si è dato credito alla favola che per le donne fosse interdetto l’universo mafioso perché non era possibile la loro presenza in organizzazioni di uomini d’onore, composte da soli maschi.
Questa convinzione era figlia di un pensiero che riteneva che lo scontro fosse solo tra uomini, da una parte e dall’altra della barricata, da parte dello Stato e da parte della ’ndrangheta. Si fronteggiavano due eserciti di maschi schierati sul campo del conflitto armato che era sempre un attributo dell’onore maschile.
E invece non era così; anzi, non è mai stato così, neanche agli albori della ’ndrangheta. In quel periodo le donne, vestite come i maschi per non essere individuate, partecipavano alle attività criminali dei loro uomini.
Lo accertarono i giudici che avevano mandato sotto processo donne che appartenevano a ’ndrine di comuni dei circondari di Nicastro e di Palmi. Ad un certo punto, la donna non partecipò più alle attività in prima persona e fu relegata apparentemente nelle retrovie perché rimaneva confinata entro le mura domestiche. Non era una prigione né era una punizione, tutt’altro.
Rimanere a casa voleva dire svolgere il ruolo insostituibile di trasmissione della cultura ’ndranghetista ai propri figli che dovevano essere allevati esattamente in quel modo per poter cooperare alle attività della famiglia e prendere il posto del padre alla morte di costui o in caso di impedimento nell’esercizio del suo potere di comando perché era in galera.
Questa è la ragione che spiega come mai la cultura mafiosa si è trasmessa da una generazione all’altra, mummificata ma nel contempo vivificata da nuovi apporti. Un tempo le donne erano importanti anche per concludere una faida.
Le faide sono quanto di più arcaico e tribale si possa immaginare, di più stridente con la cultura moderna, e tuttavia in terra di ’ndrangheta esse hanno assunto una diversa valenza legata al predominio territoriale. Di norma la faida tradizionale si concludeva quando una delle famiglie in lotta perdeva tutti i maschi.
Arrivati a quel punto non c’era più il pericolo della trasmissione del cognome e non ci sarebbe stato più un discendente diretto del ramo maschile in grado di riprendere in futuro la vendetta. C’era un altro modo per concludere la faida interrompendo la catena di sangue, ed era un matrimonio tra le famiglie contendenti.
Era un modo simbolico, ma di sicura efficacia. La vergine portata in sposa versava il suo sangue verginale in compensazione di quello versato fino a quel momento. E gli animi si pacificavano; quanto meno sul piano formale. Quello che è certo è che, ancora oggi, la struttura portante è quella della famiglia naturale. La ’ndrangheta sembra immobile nonostante il trascorrere del tempo.
Ma è un’immobilità apparente perché al suo interno ci sono stati adattamenti e aggiustamenti dettati anche dalla capacità delle forze dell’ordine di colpire le ’ndrine, di arrestare i capi costringendo a una promozione forzata altri membri della famiglia a volte ancora inesperti e determinando dinamiche nuove al suo interno.
La ’ndrangheta s’è imbozzolata dentro la famiglia perché ha compreso, d’istinto, che quello era il suo vero, intangibile rifugio contro il quale neanche una potenza come lo Stato avrebbe potuto averne ragione.
Non tutti i membri della famiglia del capobastone sono mafiosi, perché ci sono quelli che non lo sono e che cercano, con tutte le prevedibili difficoltà, di avere una vita normale.
5. Codici, riti, rituali
Il rito d’ingresso è solo uno dei tanti riti che caratterizzano la vita d’uno ’ndranghetista. Conosciamo i riti perché, contravvenendo alle regole, sono stati trascritti e, dunque, sono arrivati sino a noi.
Avrebbero dovuto essere imparati a memoria e tramandati oralmente. Allora davvero non avremmo saputo niente, o molto poco, e solo da qualche collaboratore.
C’è da chiedersi se non sia in contraddizione il rito formale con la struttura familiare della ’ndrina. Non deve sorprendere l’uso dei riti formali tra parenti, perché le cerimonie mafiose, alle quali partecipano anche membri che non sono parenti stretti del capobastone, hanno un alto valore simbolico e di suggestione.
Tra le altre cose, la ritualità e la simbologia, le figure allegoriche che sono onnipresenti servono a cementare legami, frequentazioni e rapporti. Il rito è una festa, come lo sono le feste di compleanno, quelle dell’onomastico, del battesimo, della prima comunione o del matrimonio.
Un modo come un altro per stare insieme, per festeggiare, per riconoscersi, per affermare e riaffermare gerarchie e supremazie. Il rito serve per dare identità ai nuovi arrivati, e per permettere una reciproca conoscenza tra il nuovo arrivato e gli altri affiliati.
La sopravvivenza del rito è il segno evidente che ci sono uomini che si vogliono organizzare con giuramenti e vincoli formali che si sommano a quelli parentali. Il fascino è innegabile.
Chi legge i codici vede come le parole, il linguaggio, i modi di dire siano astrusi, incomprensibili. Alcune domande e risposte riportate in un codice pubblicato da Luigi Malafarina ce ne danno preziosa testimonianza:
«Da dove venite Giovanotto? Io vengo dall’Oriente da dove nascono tutti i venti e sottoventi e sono venuto a portare le novità a questo corpo di società. Dove siete nato? Io sono nato dentro a una chiesa matrice dove mia madre, dopo avermi abbracciato in carne, pelle ed ossa, mi ha gettato dentro il fuoco ardente e mi ha dato coltello e rasoio. Il rasoio per scacciare carognità, infamità e il coltello per difendere la mia persona».
Hanno un senso queste parole? No, sono incomprensibili, sembrano senza senso logico o forse c’è stato un periodo in cui l’hanno avuto ma poi s’è perso con il trascorrere del tempo. Ma non è questo che conta. Conta la musicalità, il fascino di parole incomprensibili e per questo ancor più attraenti.
Il mistero, la segretezza, il silenzio. Cosa c’è di più attraente per un giovanotto di uno sperduto paese di cui nessuno s’è mai occupato e che ora trova qualcuno che gli parla di cose che non capisce ma che devono restare segrete e devono essere proprio importanti e più grandi di lui?
Che gli promette rispetto da parte di tutti, che gli consente di far parte di un’associazione dove non possono partecipare tutti ma solo i prescelti, gli uomini di valore e d’onore, e gli dà la possibilità di fare soldi?