Jorge Luis Borges, il grande scrittore argentino, sosteneva che in una sola lettera, l’aleph, è contenuto l’intero universo.
Più modestamente, ma con la stessa inquietudine, noi possiamo guardare a Bill Tilden e riconoscere tutte le storie, tutti i volti del tennis concentrati e riflessi in una sola vicenda umana.
Perché Bill Tilden è stato:
- arrogante e geniale come McEnroe,
- imbattibile come Borg,
- sportivo come Edberg,
- più teatrale di Nastase e delle Williams,
- più perfezionista di Lendi,
- più longevo di Rosewall,
- controverso quanto la Navratilova,
- tignoso quanto Connors,
- più famoso e carismatico di Agassi,
- più mondano di Perry,
- più solitario di González.
La sua gloria è stata superiore a quella di Sampras. La sua fine, più misera di quella di Althea Gibson.
Bill Tilden fu il numero uno: nella tecnica e nel carattere, nelle vittorie e nelle sconfitte, nella vita e per l’eredità che ha lasciato.
Il tennis deve molto a lui, l’uomo che considerava il suo sport un’arte, e non smise mai di sentirsi su un palco scenico.
Ma vediamo meglio la vita di questo leggendario personaggio a cui appartengono record ancora imbattuti. Quest’uomo “numero uno” e maestro assoluto, definito il “Leonardo da Vinci del tennis”.
1. Un'adolescenza nell'ombra
William Tatum Tilden II nacque il 10 febbraio 1893 a Philadelphia, da una famiglia benestante di antica origine inglese, i baroni Tylden, che presto gli evaporò attorno.
Papà William Tatum senior era un mercante di lana e filati ammanicato con la grande politica, tanto che Bill da cucciolo gattoneggiava tra i piedi di Theodore Roosevelt e William Taft, due inquilini della Casa Bianca.
Mamma Selina era una dotatissima pianista. La vita felice dei Tilden durò poco. Tre sorelle morirono durante l'infanzia, l'amatissima madre nel 1911, lasciando Bill distrutto.
Il padre e il fratello Herbert, primo e unico maestro di tennis di Bill, se ne andarono nel 1915. Rimanevano la zia Selena, l'amatissima sorella, e una rendita appena sufficiente a garantire l'iscrizione al College.
Bill era il più giovane di casa, cresciuto con un carattere lunatico e in adorazione del fratello maggiore e della madre. Alto quasi 2 metri, la faccia cavallina attraversata da un sorriso sardonico, gli atteggiamenti un po' effeminati, non era esattamente l'idolo dei compagni di scuola.
Il tennis fu per lui una vocazione strana, prima diluita poi quasi tossica. Iniziò a maneggiare racchette a sei anni, per mantenersi agli studi diede poi anche lezioni, ma dopo qualche piccolo exploit da teenager si bloccò.
Avvertiva, nonostante l'affinità sociale, un distacco rispetto al tennis troppo educato e soft del circolo: "Nessuno picchiava davvero la palla - scrisse - Nessuno neppure sudava, e io sentivo che in qualche modo c'era qualcosa di sbagliato".
Preferiva allora leggere, scrivere, ascoltare l'Opera. Trovò un lavoro da giornalista specializzato in teatro e musica al Filadelfia Ledger, e insomma fino ai 25 anni fu poco più che un mediocre agonista.
Non ebbe mai un coach. "Tenetemeli lontani", diceva, "Il tennis lo conosco quanto chiunque altro. E quello che ancora non so, lo imparerò da solo". Durante la Grande Guerra venne riformato - per via dei piedi piatti… - e spedito nei corpi ausiliari.
Nel 1919, a 26 anni suonati, era ancora semisconosciuto quando arrivo alla finale degli Us Nationals e perse 6-4 6-4 6-3 da William Johnston, "Little Bill"che sarebbe diventato il suo più testardo avversario oltre che uno dei suoi migliori amici.
La netta sconfitta convinse Tilden a scegliere la clausura. Si ritirò nel Rhode Island, dove secondo la leggenda passò un inverno intero a spaccar legname per rinforzare i muscoli.
In realtà smontò e rimontò il proprio gioco. "Lasciò perdere lo slice, troppo difensivo - scrive Al Stump - e iniziò a fare di ogni rovescio un drive violento e piatto. Perfezionò una serie di rotazioni ingannevoli e di cambi di ritmo.
Sudò per sviluppare una cannon-ball di servizio stile McLoughlin alla quale non fosse possibile rispondere". Nella primavera del 1920, quando tornò sui campi, i suoi avversari si trovarono davanti un maestro pressoché imbattibile.
2. Dieci anni da imbattibile
Bill Tilden iniziò a vincere ovunque. Anzi, per quasi un decennio si rifiutò letteralmente di perdere, soprattutto quando si trattava di match importanti.
"A volte giocava lento, a volte veloce - ha scritto di lui Fred Perry - alternava il topspin allo slice. Cercava sempre soluzioni differenti. E quando entrava in campo era il re.
Dominava la scena". Manuel Alonso disse che vederlo giocare "era come osservare Nijinsky ballare dall'altra parte della rete". Il servizio era il suo colpo migliore, insieme al dritto. La cannon-ball arrivava, dicono, a 200 km/h, ma sapeva alternarla a un kick molto alto e a uno slice pesantissimo.
Smorzava e lobbava con precisione, aveva gambe fenomenali, una mobilità eccezionale per un uomo della sua altezza, e si costruì un rovescio solidissimo. L'unico colpo in cui eccelleva era la volée.
Fu teorico supremo del gioco, e fra le sue fatiche letterarie spicca un manuale di tecnica che divenne Bibbia per tutti, "The Art of tennis and the spin of the ball".
Dovette fra l'altro superare anche l'amputazione di metà del dito medio della mano destra, per una infezione che nel 1922 rischiò di costagli una mano, ma ne uscì mettendo a punto una nuova impugnatura. "Avevano tutti una gran voglia di vedervi finito", commentò sardonico, "ma ovviamente non potevo dar loro questa soddisfazione".
Vederlo giocare era insomma uno spettacolo, e non solo per via del tennis. Arrogante, teatrale al limite del grottesco, prendeva a male parole linesmen e giudici, dirigenti, fotografi e giornalisti.
Dagli avversari era invece adorato e ammirato (uniche eccezioni: Borotra e la Lenglen (nella foto), altri supremi narcisi) tanto per la sua determinazione nel cercare la vittoria quanto per il suo assoluto fair play: nel 1923 in un match di Coppa Davis perse volutamente l'intero terzo set contro l'australiano James Anderson per risarcirlo di un errore commesso da un giudice sul set-point del secondo.
Sempre in Coppa, nel Challenge Round del 1921 contro il sorprendente Giappone di Zenzo Shimizu, infebbrato e molestato da una vescica al piede, Tilden si ritrovò sotto 7-5 6-4 5-3. Riuscì a chiudere miracolosamente 7-5 il terzo, poi si tuffò completamente vestito sotto la doccia fredda negli spogliatoi del West Side Tennis Club di Forest Hills.
Il capitano Usa Sam Hardy lo vide, e si sentì intimare "Spogliami". Rivestito di abiti asciutti e dopo essersi fatto incidere l'ascesso al piede, Big Bill tornò in campo e lascio tre game a Shimizu nei restanti due set.
Nel 1927, in una delle sue successive spedizioni a Londra (dove s'impose l'ultima volta nel 1930 contro il pronostico di tutti), riuscì invece a smarrire una incredibile semifinale contro Cochet: in vantaggio 6-2 6-4 5-1, perse 17 punti di fila e il match.
A Forest Hills, nella finale del 1920 contro Johnstone - l'uomo che avrebbe finito col giocarsi la salute e morire prematuramente nel tentativo di riprendersi l'egemonia perduta - un aereo finì addirittura per schiantarsi a 150 m dallo stadio.
Ma i due continuarono a giocare, incoraggiati dal giudice arbitro che teneva un fuggi-fuggi disastroso. Appena una cinquantina di spettatori, sulle migliaia presenti, decisero di lasciare le tribune prima della fine del match.
3. Perseguitato in patria
Anche in Coppa Davis Tilden nutrì la leggenda.
Le sue vittorie si alternarono alla infinita fai da con la USLA, la federazione americana, che non sopportava l'indipendenza, l'irriverenza e il protagonismo del proprio miglior giocatore, e che lo perseguitò a lungo tagliandogli le spese e squalificandolo ripetutamente.
Dopo aver strappato l'insalatiera all'Australasia orfana di Wilding nel 1920, Tilden, a fianco di Johnstone, la difese per 6 anni consecutivi. Capitolò solo contro i Moschettieri, a Filadelfia nel 1927, in un match avvelenato dall'ennesima polemica con la federazione Usa e dopo aver respinto due assalti di Lacoste & Co.
Proprio contro il Coccodrillo, che lo aveva già battuto nella finale di Parigi, Tilden perse il primo match veramente importante in otto anni di Davis. Quando nel 1928 si presentarono a Parigi per riprendersi la Zuppiera scoppiò addirittura un caso diplomatico. Al centro, ovviamente, c'era Tilden.
La USLTA, per difendere il purismo dilettantesco, nel 1924 aveva impedito ai propri tesserati di svolgere attività giornalistica. Tilden aveva risposto firmando un contratto da columnist per $ 20.000 all'anno ed era stato scomunicato.
In suo sostegno nacque addirittura una "Bill Tilden Fair Play Society", cui parteciparono anche celebrità non tennistiche, e l'USLTA alla fine fu costretta ad accettare un compromesso: scrivere si sarebbe potuto, ma non dei tornei a cui si partecipava.
Nel 1928 Bill sul San Francisco Chronicle si divertì però a commentare Wimbledon e di nuovo la USLTA lo bandì, proprio alla vigilia della semifinale di Coppa che gli yankee vinsero contro l'Italia.
La finale era in programma nel nuovo stadio intitolato a Roland Garros, ma senza Tilden, l'unica vera star mondiale del tennis, si rischiava un bagno al botteghino. Bill si presentò a Parigi e organizzo uno show mediatico, osannato da giornalisti e avversari.
I francesi si rivolsero all'ambasciatore americano a Parigi, Myrok Merrick, il quale consultandosi con il Presidente Coolidge, reintegrò d'imperio Tilden in squadra. Il 35enne campione era a corto di allenamenti, e Lacoste lo aveva battuto nei precedenti quattro scontri diretti.
In una giornata ventosa, l'ex-imbattibile perse il primo set 6-1, poi decise che era il caso di cambiare ruolo e tattica e iniziò a tagliare tutti i colpi. Il francese andò in confusione, perse al quinto.
Frank Deford riassunse così il match nella sua biografia del campione: "Tilden non poteva battere Lacoste alla Tilden. Così battè Lacoste alla Lacoste.
4. Le valigie dell'attore
Dopo aver vinto il suo terzo Wimbledon contro Wilmer Allison accettò un contratto con la Warner Bros per recitare in un paio di film muti e quattro pellicole sportive, e passò al professionismo.
Un istrione, del resto, lo era sempre stato anche fuori dal campo. "Quando entrava in una stanza - ricorda George Lott, che pure lo detestava - c'era come una scarica di elettricità. Circolava lo stupore, e si aveva l'impressione di essere in presenza di qualcosa di regale".
Tilden non era certo bello, né elegante. In campo indossava scioccanti t-shirt rosse o nere, fuori girava spesso con impossibili maglioni blu scollati a "v" di lana sfrangiata (da cui il soprannome "Blue Grizzly"), vecchie polo e impermeabili troppo grandi, ma affascinava chiunque, gente comune e star del cinema.
Fu amico di Douglas Fairbanks e del re Alfonso di Spagna, di Noel Coward, Greta Garbo, Mary Pickford e Betty Grable.
Dopo la morte di zia Selena, con cui aveva continuato ad abitare, si trasferì in un piccolo monolocale a Los Angeles e lo si trovava spesso sul campo personale di Charlie Chaplin, oppure ospite della villa di Joseph Cotten a Santa Monica. Era il tipo capace di inviare $ 400 di fiori alla sua amica Pola Negri per festeggiare una première.
Da tennista, insieme alla Lenglen e prima di Kramer, trasformò il suo sport in un business, riempiendo ovunque stadi e prime pagine di giornali. "Vendette letteralmente il tennis all'America" secondo Stump. Nel 1946, insieme a Budge, Riggs e Perry, fondò la Professional Player Association.
"Come direttore dei tornei - racconta Bobby Riggs - era da ammirare. Vendeva lo show in tutte le città, firmava i contratti, si curava della pubblicità, lavorava in continuazione. Si divertiva a guidare da una città all'altra ad ogni ora, senza preoccuparsi della distanza.
Una volta stavamo giocando con Budge in Pennsylvania, lui era impegnato con un'altra troupe di professionisti a centinaia di migliaia di distanza, ma venne a trovarci. Budge non stava bene, così lui si offrì di sostituirlo in doppio.
Quando lo annunciarono la folla emise un boato. Dopo il match l'organizzatore si offrì di pagarlo, ma lui si rifiutò. Poi però mi chiese di nascosto: "Bobby, di quanto era l'assegno?". Era così Bill. Non poteva resistere al grande gesto".
5. Ottantotto dollari e undici cents
Bill Tilden come attore era mediocrissimo.
A Broadway recito in un paio di commedie ("The kid himself" e "They all Want something") e ne scrisse una, "New Shoes", che tenne brevemente la scena al teatro "El Patio" di Los Angeles.
Il suo ruolo più riuscito, sia secondo i colleghi di compagnia sia a parere dei detrattori, fu quello di Dracula, in una pièce che girò per 16 settimane in piazze di provincia.
La sua omosessualità durante gli anni d'oro era rimasta nell'ombra, nonostante le sue passioni per molti giovani compagni come Arnold Jones, Art Anderson e Vinnie Richards, ma divenne un problema nella decadenza, dove cade vittima dell’intolleranza e della "caccia al diverso" e lo condusse addirittura due volte in prigione, novello Oscar Wilde.
Bill Tilden ha avuto il coraggio di essere sé stesso ma che ha pagato a caro prezzo la “colpa” di aver seguito la sua natura.
Nel 1946 fu arrestato e poi rilasciato dopo un'avventura con un minorenne, nel 1949 fu condannato a 10 mesi per essersi intrattenuto con un 16enne raccattato per strada.
Nel 1951, nonostante i pregiudizi dell'incombente epoca maccartista, un sondaggio del Associated Press sui più grandi sportivi della prima metà del Novecento lo vide trionfare: su 393 voti, Babe Ruth nel baseball ne ebbe 253, Jesse Owens nell'atletica 210, Tilden nel tennis 310.
Ma la fine era vicina. Nel 1953, mentre stava preparando la valigia per un viaggio a Cleveland, una trombosi coronarica lo stroncò. Aveva 60 anni. Da tempo molti tennis club avevano preso a negargli l'accesso, quasi tutti i suoi vecchi amici, tranne Chaplin, lo avevano abbandonato.
Della considerevole fortuna accumulata con la sua arte gli rimanevano 88 dollari e 11 cents, la vecchia Packard, qualche vestito da sera, e una improbabile collezione di vecchi maglioni e racchette da tennis.