Avvolta dalla foschia di una calda giornata estiva, una vasta isola si staglia all’orizzonte: le navi greche hanno impiegato pochi giorni ad arrivare fin là, in quella terra che oggi conosciamo con il nome di Sicilia.
E che più di 3mila anni fa era diventata, grazie alla sua posizione centrale e al gran numero di approdi naturali, una piazzola di sosta dell’antica “autostrada d’acqua” del Mediterraneo.
Ma non l’avevano incrociata soltanto i commercianti che navigavano verso occidente: qualcuno, attraversando lo stretto braccio di mare che separa Sicilia e Calabria, era venuto anche dalla Penisola italiana e si era poi accorto di aver trovato una terra ospitale, ideale metter su casa.
Ma chi erano e come vivevano le genti che abitavano la Trinacria (Sicilia) 3mila anni fa? Scopriamolo insieme.
1. Triangolare
I greci, che notoriamente avevano il pallino della geometria, la chiamarono Trinacria per la sua forma (da treis, “tre”, e akra, “promontori”).
I primi abitanti a rendersi conto dei vantaggi di quell’isola così fertile furono però i sicani, seguiti da siculi ed elimi.
Ai quali si aggiunsero presto i popoli che qui fondarono colonie e centri di scambio.
Lo storico greco Tucidide (V secolo a.C.) racconta che i sicani erano approdati in Sicilia provenendo dalla Spagna, da dove li avevano scacciati i liguri. Il loro nome, infatti, deriverebbe da quello dell’antico fiume iberico Sikanos.
Ma diversi studiosi moderni non sono d’accordo. Contrariamente a quanto affermano gli scrittori antichi, sono convinti che il popolo sicano, così come quello siculo, si sia formato direttamente in Sicilia.
Ciò avvenne quando le genti che già dal III millennio a.C. abitavano il territorio centrale e sud-occidentale dell’isola, prima del 1000 a.C. furono costrette a confrontarsi con i popoli che arrivavano dal mare.
Fu allora che si resero conto di avere una lingua comune e gli stessi usi e costumi. Capirono cioè di essere diventati un unico popolo: i sicani.
I greci amavano far circolare leggende terribili sulla Sicilia arcaica, forse per spaventare i concorrenti. Tra le credenze più diffuse c’era quella sull’esistenza, nello Stretto di Messina, di una vorace creatura marina, Cariddi.
La donna, secondo il mito, era stata punita per la sua smodata voracità: aveva divorato alcuni degli inviolabili buoi del gigante Gerione e Zeus, con il suo fulmine, l’aveva fatta sprofondare negli abissi.
Ma la punizione non placò la fame di Cariddi: si racconta che, per riempirsi lo stomaco, tre volte al giorno la creatura risucchiasse in un vortice l’acqua di mare e tutto quello che c’era in mezzo, navi e marinai compresi.
Dall’altra parte dello stretto c’era invece Scilla, un’altra donna mostruosa, circondata da cani pronti a sbranare tutto ciò che galleggiava alla loro portata.
Secondo alcuni mitografi, Scilla era figlia di Tifèo (mostro della mitologia greca, concepito in funzione di nemico di Zeus e di minaccia all'ordine costituito), responsabile delle eruzioni dell’Etna.
Il mostro alato, metà uomo e metà bestia, che con la testa sfiorava le stelle, osò sfidare Zeus.
Per vendetta, mentre attraversava il mare di Sicilia, il re dell’Olimpo gli lanciò il monte Etna tra capo e collo: il gigante rimase schiacciato, ma non cessò di vomitare fuoco e fiamme.
2. Sicani, Siculi ed Elimi
Secondo gli storici, la “nascita” dei sicani dovette precedere di poco l’arrivo da Calabria, Campania e Puglia di tribù di popoli italici particolarmente abili nel lavorare il bronzo e allevare i cavalli.
Dopo aver attraversato su zattere lo Stretto di Messina, questi nuovi arrivati si unirono agli indigeni come il lievito con la farina.
Nacque così un altro popolo, simile eppure diverso dai sicani: i siculi.
Secondo la leggenda, i siculi avrebbero ereditato il loro nome dal principe Siculo, figlio di Italo, re del Bruzio (una regione dell’Italia preromana che corrispondeva più o meno all’attuale Calabria).
Da lì erano partiti e, dopo un lungo peregrinare nel meridione della Penisola, erano approdati in Sicilia.
Si stabilirono nella cosiddetta Sikelìa (la zona centro-orientale dell’isola) dopo che i sicani “duri e puri”, che non volevano saperne di mischiarsi con altre genti, si erano spostati a sud, nell’area ribattezzata Sikanìa (nel territorio tra Gela e Agrigento), non si sa se costretti con la forza o sloggiati dalle eruzioni dell’Etna.
Più o meno nello stesso periodo, anche gli elimi si erano ritagliati una fettina del triangolo, nella parte occidentale dell’isola: non affibbiarono l’ennesimo nome a quella terra solo perché la loro presenza era troppo esigua.
Secondo la leggenda, li aveva guidati fin lì il principe Elimo, fratellastro di Enea, sfuggito alla caduta di Troia.
Una versione meno romantica vuole che il nome di questo popolo derivi da élymos (che in greco significa “miglio”, la qualità più scadente del grano), un nomignolo che i coloni greci attribuirono a questo gruppetto periferico, del quale non avevano grande stima e che ritenevano talmente rozzo da dover mangiare miglio per mancanza di cereali più nobili.
Probabilmente gli elimi erano genti arrivate in Sicilia dall’Oriente o dall’Italia Meridionale. I sicani li avevano lasciati tranquilli e loro erano diventati una piccola comunità.
Ma nessun esperto crede all'esistenza un territorio elimo compatto. Gli elimi infatti costruirono solo tre grandi centri: Erice, Segesta ed Entella (oggi tutti in provincia di Trapani), dove abitarono finché i romani non sottomisero la Sicilia, nel III secolo a.C.
3. Isola trafficata
La Sicilia antica divenne rapidamente multietnica, come una metropoli di oggi.
L’isola era calpestata da piedi greci, cartaginesi, dell’Epiro (una regione tra Grecia e Albania), oltre che latini.
Gli studiosi non sanno dire con esattezza quando queste genti entrarono in contatto con i primi abitanti della Sicilia, ma stando alla leggenda di Dedalo i rapporti iniziarono molto presto.
Fin dal XIII secolo a.C. i micenei solcavano le acque del Mediterraneo per commerciare e nell’VIII secolo a.C. i fenici avevano già fondato sull’isola le loro basi di import-export.
Verso il VII secolo a.C., infine, altri greci giunsero in cerca di nuovi mercati e terre da colonizzare.
I siciliani “doc” erano ormai ospiti in casa loro: i capi fecero fortificare i villaggi con alte mura, molte famiglie misero al sicuro i propri averi in nascondigli segreti, lontani dalle abitazioni, ma nulla poté fermare la colonizzazione.
Le popolazioni locali non amavano quegli invasori, ma furono conquistate dalla loro cultura. Il risultato fu che nel V secolo a.C. gli antichi siciliani erano ormai più greci che italici.
Persino i siculi, più combattivi e numerosi dei sicani, si erano dovuti sottomettere: pur continuando a parlare la loro lingua, simile al dialetto campano dell’epoca, scrivevano utilizzando i segni dell’alfabeto greco.
E sfoggiando corazze, cinturoni in bronzo, lance e spade, combattevano come mercenari nelle guerre fratricide dei coloni greci, facendo impallidire le spade da parata con cui i loro vicini sicani sfilavano in mezzo al villaggio nei giorni di festa.
La verità è che ai sicani la guerra importava poco. Più che sui bottini, per vivere facevano affidamento sui prodotti della loro terra, accontentandosi dello stretto necessario.
Il menù si limitava a zuppe di cereali, olio d’oliva, ghiande, selvaggina e formaggi prodotti con il latte di pecora. Ci volle la lungimiranza dei greci per riconoscere in quell’isola fertilissima quello che i romani definiranno più tardi “il granaio dell’impero”.
Gli antichi siciliani non avevano una mentalità da imprenditori: vivevano di baratto, non pensavano al commercio e non erano grandi navigatori. L’arrivo dei colonizzatori d’oltremare li spinse finalmente in acqua, ma solo per brevi rotte a ridosso della costa.
4. Oracolo vendesi
Un altro tipo di commercio, quello di responsi, oracoli e divinazioni varie, era invece appannaggio degli indigeni.
I sacerdoti di Hybla (una dèa, ma anche l’antica città di Ragusa) interpretavano i sogni, e quelli di Afrodite Ericina, a Erice, controllavano la prostituzione sacra.
Accanto alla tradizionale dea-madre mediterranea dai seni prosperosi, simbolo di abbondanza e fecondità, gli isolani tenevano però soprattutto al culto dei gemelli Pàlici.
I due fratelli, secondo il mito figli di Zeus e della ninfa Talìa, erano considerati divinità nazionali.
E chi si rifugiava nel loro santuario, nella piana di Catania, non poteva essere toccato.
Sempre secondo il mito, i Pàlici erano nati dalla terra sotto cui Talìa si era nascosta per sfuggire alla vendetta di Era, gelosa del tradimento di Zeus, e si manifestavano ribollendo ed eruttando gas attraverso i due crateri da cui erano venuti alla luce.
L’antico laghetto di acque sulfuree di Naftia (presso Palagonia, in provincia di Catania), dove i divini gemelli davano ai sacerdoti i loro enigmatici responsi, oggi appartiene alla Società nazionale metanodotti e fornisce anidride carbonica per scopi industriali.
Ma all’epoca i siculi vi avevano costruito intorno un recinto sacro e, più tardi, un santuario che si trasformava in tribunale.
Chi era accusato di un crimine poteva scegliere di sottomettersi al giudizio divino (inappellabile) invece che a quello umano. Ed erano i sacerdoti consacrati ai Pàlici ad “amministrare” la giustizia.
Di fronte a loro l’imputato lanciava una tavoletta di legno dentro a uno dei due crateri: se affondava, l’imputato era colpevole, se restava a galla o era rigettata fuori da un’emissione di vapore, era innocente. È da allora, forse, che si dice che “la verità viene sempre a galla”.
5. Il re sicano che mise in pentola Minosse
Se non avesse costruito quella mucca di legno, Dedalo, inventore e architetto ateniese, si sarebbe evitato un sacco di grane.
Ma non seppe dire di no a Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta.
La donna aveva visto un toro bianco sulla spiaggia e, colpita dalla sua bellezza, aveva chiesto a Dedalo, profugo a Creta, di trovare un modo per farle passare qualche ora in compagnia di quel prestante esemplare.
Dedalo le fabbricò così una mucca di legno nella quale mettersi per potersi accoppiare con il toro.
L’incontro diede i suoi frutti: Pasifae partorì il Minotauro, un mostro metà uomo e metà toro. Minosse chiese a sua volta a Dedalo di costruire un labirinto dentro cui nascondere la prova del tradimento.
E dove, per evitare pettegolezzi, rinchiuse anche lo stesso inventore, che però (secondo una versione del mito) riuscì a fuggire e a trovare rifugio a Camico, in Sicilia (vicino all'odierna Agrigento), alla corte del re sicano Cocalo.
Minosse non si arrese: rintracciò Dedalo e bussò alla porta di Cocalo per reclamare il prigioniero. Il re sicano, deciso a salvare Dedalo, ordinò alle figlie di bollire Minosse con la scusa di un bagno caldo.
Poi, fingendosi molto addolorato, restituì il corpo ai soldati cretesi. Eraclea Minoa (nell’Agrigentino) si chiamerebbe così per onorare il nome del re cretese finito “cotto”.