Possiamo far risalire l’origine delle moderne neuroscienze alla fine dell’Ottocento, quando per la prima volta i ricercatori stabilirono che il sistema nervoso era costituito, come gli organi di tutte le creature viventi, da cellule.
Facciamo un balzo in avanti di un secolo: il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush dichiara gli anni ’90 il «decennio del cervello».
Da allora, la ricerca sul funzionamento di questo complesso organo ha fatto passi da gigante.
Qualcuno sostiene che ciò che abbiamo imparato sul cervello negli ultimi dieci anni sorpassi tutto quel che è stato fatto nei cento precedenti: anche se fosse vero, stiamo solo iniziando a scalfirne la superficie, e molto ancora rimane da scoprire.
In questo breve lasso di tempo, molte sono le teorie salite alla ribalta sul funzionamento del cervello e sulla sua capacità di generare pensieri e comportamenti.
Alcune delle prime, come la frenologia, che nel XIX secolo tentava di correlare i tratti di personalità con la forma del cranio, hanno avuto grande influenza ma sono state in seguito messe da parte ed etichettate come pseudoscienze.
Altre, come la teoria del neurone, secondo cui il cervello è costituito da cellule, continuano a occupare un posto centrale nelle neuroscienze moderne.
Con il progredire della tecnologia e il miglioramento delle conoscenze sul cervello, è cresciuta l’attenzione per le neuroscienze e per il significato delle sue scoperte.
Questo tipo di ricerca, tuttavia, è circondato da grande sensazionalismo e da una pletora di informazioni errate: i miti sul cervello abbondano, e alcuni dei più popolari —come l’idea che l’emisfero sinistro sia «logico» e il destro «creativo» – sembrano prendere sempre più piede, specialmente in campi come l’istruzione e l’economia.
Oggi parleremo del cervello umano ed in particolare scopriremo 5 cose importanti che contribuiscono a definirlo come “l’organo più complesso e affascinante del corpo umano”.
1. La specializzazione delle regioni cerebrali
La corteccia cerebrale può essere suddivisa in decine di regioni ben distinte, ciascuna composta da diversi tipi di cellule che svolgono funzioni specializzate.
Questa idea ha influenzato in maniera significativa la nostra concezione di come funziona il cervello, tuttavia ad essa si contrappone una teoria alternativa, che considera le regioni cerebrali come interconnesse e cooperanti.
L’idea che le funzioni cognitive siano localizzate in specifiche parti del cervello è chiamata «modularità funzionale» o «localizzazione delle funzioni cerebrali».
La sua origine può essere fatta risalire alla fine del XVIII secolo, quando Franz Joseph Gall sviluppò la frenologia, che correlava i tratti della personalità alla forma del cranio. La frenologia fu molto popolare per tutto il XIX secolo, ma alla fine venne degradata a pseudoscienza.
La localizzazione delle funzioni cerebrali assunse credibilità scientifica durante la seconda metà del XIX secolo, grazie al lavoro di due neurologi che, osservando alcuni pazienti affetti da un disturbo del linguaggio, notarono la presenza di lesioni in alcune specifiche aree del cervello.
Uno di questi, il francese Pierre Paul Broca, studiò alcuni pazienti che avevano perso la capacità di parlare a seguito di un ictus. Alla loro morte, Broca ne esaminò il tessuto cerebrale e notò in tutti una lesione nella stessa parte del lobo frontale sinistro: questa regione venne poi denominata area di Broca, e l’incapacità di parlare a seguito di un ictus è spesso chiamata afasia di Broca.
Circa 10 anni più tardi un medico tedesco, Carl Wernicke, studiò alcuni pazienti colpiti da ictus che avevano perso la capacità di capire il linguaggio parlato. Quando esaminò i loro cervelli, Wernicke si accorse che avevano tutti subito un danno a un’altra particolare area del cervello. L’area di Wernicke, come è ora nota, si trova nel lobo temporale sinistro, e l’incapacità di capire il linguaggio parlato dopo un ictus è detta afasia di Wernicke.
Nei primi anni del XX secolo, il neurologo tedesco Korbinian Brodmann analizzò e comparò la corteccia cerebrale dell’uomo, delle scimmie e di varie altre specie di mammiferi. Brodmann dissezionò i tessuti appartenenti a diverse aree della corteccia, evidenziandoli tramite una tecnica di colorazione (metodo di Nissl) e ne esaminò la struttura al microscopio.
Sebbene la corteccia sia uniforme e stratificata, Brodmann notò alcune piccole differenze: in diverse aree, alcuni strati erano più voluminosi di altri e più densamente popolati di neuroni.
ùBrodmann notò anche che queste differenze nell’organizzazione cellulare definivano i confini tra le regioni adiacenti: sulla base di questa osservazione suddivise la corteccia cerebrale dell’uomo in 43 regioni distinte e nel 1909 ne pubblicò la mappa.
Nel corso del XIX secolo, la mappa di Brodmann è stata ampiamente usata, e rimane rilevante ancora oggi: la corteccia motoria primaria, ad esempio, è spesso chiamata area 4 di Brodmann, e la corteccia visiva primaria è conosciuta anche come area 17.
Grazie alle tecniche moderne, i ricercatori hanno potuto confermare le osservazioni originali di Brodmann, ma allo stesso tempo hanno scoperto ulteriori dettagli che affinano la mappa originaria: Brodmann aveva individuato cinque aree nel cervello della scimmia (le aree 17-21) dedicate all’elaborazione dell’informazione visiva, mentre le moderne tecniche anatomiche e fisiologiche indicano che queste possono essere ulteriormente suddivise in circa quaranta regioni distinte, ciascuna con una funzione specifica.
Alcuni ricercatori hanno criticato l’idea che la corteccia cerebrale contenga aree distinte e specializzate e propongono invece il concetto di «elaborazione distribuita». Uno di essi è stato il fisiologo Karl Lashley, che negli anni ’20 eseguì una serie di esperimenti per determinare la localizzazione dei ricordi. Lashley istruiva i ratti a orientarsi all’interno di un labirinto e in seguito ne lesionava parti della corteccia cerebrale, nel tentativo di cancellare le tracce di memoria.
Scoprì che i ratti riuscivano sempre a ritrovare la strada, indipendentemente dalla localizzazione della lesione. Sulla base di queste osservazioni, concluse che la funzione mnemo nica non era localizzata in una precisa regione della corteccia, ma era invece distribuita su tutto il cervello. È stato anche osservato che alcune aree apparentemente specializzate nell’esecuzione di funzioni come la visione o l’elaborazione del suono possono svolgere anche altre mansioni.
Uno studio pubblicato nel 2012, ad esempio, mostra che nelle persone nate sorde la corteccia uditiva, che in genere gestisce l’informazione sonora, può elaborare anche l’informazione tattile e visiva. Tuttavia, l’idea di modularità funzionale e quella di elaborazione distribuita non si escludono a vicenda. In realtà, l’opinione attuale sul funzionamento del cervello è una combinazione delle due.
Oggi i neuroscienziati sono convinti che il cervello operi come un «processore distribuito in parallelo», dove molteplici reti collaborano alla genesi del pensiero e del comportamento.
In altre parole, il cervello è composto da aree distinte e specializzate nell’esecuzione di specifiche funzioni, tuttavia esse non agiscono da sole: al contrario, ciascuna rappresenta un nodo all’interno di una rete distribuita sull’intero cervello o all’interno di regioni particolari.
Ciascuna rete contiene regioni cerebrali multiple e interconnesse, che cooperano per codificare particolari tipi di informazione o per generare determinati comportamenti. All’interno di ciascuna rete, l’informazione è elaborata in maniera seriale, ovvero trasferita da un’area a quella seguente e analizzata per stadi successivi.
Le numerose reti, probabilmente, lavorano simultaneamente e, a un livello superiore di organizzazione, la loro attività si integra facendo sì che a generare i nostri pensieri e comportamenti sia la somma dei loro schemi di attivazione.
2. L'asimmetria cerebrale
L’emisfero destro e sinistro del cervello si distinguono per la presenza di varie differenze anatomiche e per la suddivisione del lavoro, per cui alcune funzioni risultano localizzate nell’uno o nell’altro.
Il linguaggio è di competenza per lo più dell’emisfero sinistro, mentre le abilità spaziali e la percezione dipendono in gran parte da quello destro.
La scoperta di queste asimmetrie ha portato al popolare mito della contrapposizione tra cervello destro e cervello sinistro.
Le asimmetrie cerebrali sono evidenti nella maggior parte degli animali ed è probabile che siano comparse nei nostri antenati all’incirca cinquecento milioni di anni fa. Il cervello dell’uomo è diviso in emisfero destro e sinistro, ciascuno dei quali controlla la parte opposta del corpo.
I due emisferi comunicano tramite il corpo calloso, un grosso fascio di centinaia di milioni di fibre nervose, e da due fasci di fibre più piccoli, posti rispettivamente sulla parte anteriore e posteriore del cervello.
A prima vista, gli emisferi sembrano l’uno l’immagine speculare dell’altro, ma un’osservazione più attenta rivela differenze di dimensioni e forma. I due emisferi sono simili per peso e volume, anche se in genere quello sinistro è appena più grande e protende leggermente verso la zona posteriore, al contrario di quello destro, che sporge in avanti.
Le regioni frontali e centrali, che contengono le aree relative al linguaggio e al movimento, sono spesso più ampie nell’emisfero destro rispetto al sinistro, e il lobo occipitale, che contiene le aree coinvolte nella visione, è spesso più ampio a sinistra che a destra.
Alcune differenze anatomiche tra i due emisferi sono chiaramente visibili ancor prima della nascita. Nella maggior parte dei destrimani, ad esempio, la scissura di Silvio (un profondo solco che separa il lobo temporale dai lobi frontale e parietale) è più lunga e più superficiale nell’emisfero sinistro rispetto al destro.
Questa asimmetria cerebrale e quelle associate alle regioni circostanti sono state tra le prime ad essere identificate e sono probabilmente correlate alle funzioni del linguaggio, il quale è ampiamente - ma non esclusivamente - confinato nei lobi temporale e frontale dell’emisfero sinistro.
La maggior parte degli studi sull’asimmetria cerebrale si concentra sulle differenze strutturali a livello macroscopico, ma è possibile osservarne anche a livello microscopico.
Nella corteccia, le cellule sono organizzate in colonne regolari e ripetute, e l’organizzazione cellulare può differire tra le diverse regioni dei due emisferi: le colonne nelle aree del linguaggio dell’emisfero sinistro, ad esempio, sono più ampie rispetto a quelle nelle regioni corrispondenti a destra.
Secondo uno studio, nell’emisfero sinistro i dendriti delle cellule di queste aree sono più lunghi e si ramificano in maniera più estesa rispetto a quelli dell’emisfero destro.
Gli emisferi differiscono anche per le funzioni che svolgono. Tale fenomeno, chiamato lateralizzazione delle funzioni corticali, fu scoperto nel XIX secolo soprattutto grazie agli studi condotti sui pazienti con danni neurologici.
Durante gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento, Pierre Paul Broca e Carl Wernicke esaminarono alcuni pazienti colpiti da ictus che presentavano un disturbo del linguaggio; alla loro morte, l’esame autoptico rivelò che determinate aree dell’emisfero sinistro erano danneggiate, e furono quindi associate alle funzioni linguistiche.
All’incirca nello stesso periodo, il neurologo inglese John Hughlings Jackson osservò come un danno a carico dell’emisfero destro fosse spesso causa di un disturbo delle capacità percettive e spaziali. Jackson descrisse un paziente con paralisi alla parte sinistra del corpo che aveva perso la capacità di riconoscere luoghi, oggetti e persone (inclusa la moglie).
Un altro paziente aveva invece completamente perso il senso della direzione, e quando morì fu trovato un grosso tumore vicino alla parte posteriore del suo emisfero destro. Sulla base di queste osservazioni, Jacksòn concluse che il linguaggio doveva essere mediato dall’emisfero sinistro e le funzioni spaziali dal destro.
Più di recente, gli studi condotti sui pazienti split-brain hanno ulteriormente avvalorato l’ipotesi della lateralizzazione delle funzioni cerebrali. Questi rarissimi soggetti sono definiti tali dopo essere stati sottoposti alla resezione del corpo calloso, una procedura eseguita per attenuare i sintomi di un’epilessia resistente ai farmaci e per evitare che gli attacchi epilettici si estendano da un emisfero all’altro.
Queste persone conducono una vita normale, ma nei test di laboratorio emergono bizzarri fenomeni comportamentali: ad esempio, sono in grado di denominare e descrivere gli oggetti che afferrano con la mano destra, ma non con quella sinistra, perché in questo caso le informazioni tattili giungono all’emisfero destro ma non riescono ad arrivare nei centri del linguaggio dell’emisfero sinistro.
L’asimmetria cerebrale, il linguaggio e l’essere destrimani o mancini sono in qualche modo correlati tra loro, in una relazione complessa e poco chiara.
Nella maggior parte dei destrimani (circa il 97%) le funzioni linguistiche sono decisamente localizzate nell’emisfero sinistro, così come per il 70% circa dei mancini, mentre in una piccola percentuale di persone il linguaggio è elaborato nell’emisfero destro, o bilateralmente (su entrambi gli emisferi).
Per questo motivo a volte si dice che l’emisfero sinistro sia «dominante» rispetto a quello destro. Anche gli animali mostrano un’asimmetria cerebrale e una preferenza nell’uso delle zampe, tuttavia rimane un mistero il motivo preciso per cui il cervello si sia evoluto così e perché i centri del linguaggio siano di solito localizzati nell’emisfero sinistro.
Secondo alcuni, la ragione è da cercare nella specializzazione di questo emisfero nell’esecuzione di sequenze di movimento complesse, tra cui il linguaggio. In termini evolutivi, le asimmetrie cerebrali potrebbero essere un vantaggio perché permettono l’esecuzione in parallelo, ovvero simultaneamente, di compiti diversi.
3. Le differenze di genere
Esistono piccole differenze osservabili tra il cervello dell’uomo e della donna, ma non è chiaro come queste siano correlate alle differenze comportamentali.
Tali differenze di genere sono spesso ingigantite non solo dai mezzi d’informazione ma anche dagli scienziati stessi, rinforzando gli stereotipi esistenti e perpetuando i miti.
La scienza delle differenze di genere è sempre stata, ed è ancora oggi, carica di controversie. Alcuni credono che le differenze comportamentali tra uomo e donna siano principalmente culturali, mentre altri sostengono che siano in larga parte determinate dalla biologia.
In realtà, la situazione è molto più complessa: la risposta si trova nel mezzo e implica l’interazione di due fattori indipendenti, che spesso vengono confusi ed enfatizzati.
Uno di questi fattori è il sesso biologico, determinato dai cromosomi sessuali. La maggior parte delle persone ha due cromosomi X, che definiscono il sesso femminile, oppure un cromosoma X e uno Y, che stabiliscono il sesso maschile.
L’altro fattore è il genere, largamente influenzato dalla socialità: crescendo, impariamo le norme sociali su come si presentano e si comportano i maschi e le femmine; per la maggioranza delle persone, sesso e genere sono associati, per cui l’adesione a tali norme avviene in maniera involontaria.
I cervelli degli uomini e delle donne differiscono in maniera minima, e probabilmente le variazioni si stabiliscono nel corso della gravidanza per gli effetti degli ormoni sessuali, che mascolinizzano o femminilizzano il cervello durante lo sviluppo.
Tuttavia, non è ancora chiaro l’effetto degli ormoni sessuali sul cervello del neonato, o come le piccole differenze anatomiche cerebrali osservate tra uomo e donna siano correlate alle differenze tra i loro comportamenti.
La differenza più ovvia tra il cervello di un uomo e quello di una donna è la dimensione: il primo misura in media tra il 10 e il 15% in più del secondo. Un recente studio postmortem ha confrontato il cervello di 42 uomini e 58 donne, scoprendo che quello degli uomini pesa in media 1378 g contro i 1248 g delle donne.
Queste differenze sono state ripetutamente osservate, ma emergono solo quando si confrontano grandi numeri, e ciò significa che il cervello di alcune donne può essere più grande della media, e quello di alcuni uomini più piccolo.
Tali differenze, inoltre, riflettono in parte il fatto che gli uomini, solitamente, sono più grandi e alti delle donne, ma non sono correlate a differenze di intelligenza.
Il cervello degli uomini e quello delle donne differiscono anche nella composizione generale. Quello dei primi ha, in genere, una quantità leggermente maggiore di sostanza bianca, mentre quello delle donne possiede, in proporzione, più sostanza grigia nella maggior parte della corteccia cerebrale.
Di conseguenza, la corteccia cerebrale delle donne è leggermente più spessa e, secondo numerosi studi, anche un po’ più convoluta.
Differenze legate al sesso si riscontrano anche nelle dimensioni delle singole strutture cerebrali: l’ippocampo, coinvolto nella formazione dei ricordi, è in media più grande negli uomini, così come l’amigdala, anch’essa coinvolta nei processi mnemonici e nelle emozioni.
Sono molti gli studi che mostrano come uomini e donne siano caratterizzati da piccole differenze nel comportamento e nelle funzioni cognitive. Gli uomini sono in genere più aggressivi e hanno più successo in compiti mentali che implicano l’uso di abilità spaziali come la rotazione mentale, mentre le donne in genere mostrano maggiore empatia e ottengono migliori risultati nei compiti linguistici e nelle attività che coinvolgono la memoria verbale.
Risultati come questi vengono spesso esagerati, andando a rinforzare stereotipi come l’incapacità delle donne a parcheggiare in retromarcia e il loro amore per le chiacchiere! In alcuni casi, i singoli studi che pretendono di dimostrare le differenze sessuali in determinati compiti si sono rivelati inadeguati.
Ad esempio, un piccolo studio autoptico pubblicato nel 1982, avente per oggetto lo studio del corpo calloso, giungeva alla conclusione che il grosso fascio di fibre nervose che connette i due emisferi cerebrali è in proporzione più grande nelle donne rispetto agli uomini.
Questo dato è stato poi ampiamente utilizzato per dimostrare la superiorità della donna in compiti multitasking, nonostante gli studi successivi non siano riusciti a replicare i risultati.
Una ricerca più recente ha stabilito che le donne sono leggermente più brave ad ascoltare i suoni presentati simultaneamente a entrambe le orecchie, un risultato interpretato come prova che «gli uomini non ascoltano». Molte di queste affermazioni sono accompagnate dall’asserzione che le differenze osservate sono permanenti e quindi irreversibili.
Tuttavia, ora sappiamo che la struttura e la funzionalità del cervello cambiano in risposta all’esperienza, e che quindi qualsiasi differenza osservata potrebbe anche essere dovuta a un diverso tipo di educazione e socializzazione. Ad oggi, tuttavia, sono pochi gli studi che dimostrano l’influenza esercitata dall’ambiente sullo sviluppo del cervello.
4. Apprendimento e memoria
Il cervello possiede una capacità apparentemente illimitata di acquisire nuove informazioni, e contiene diversi sottosistemi per apprendere e immagazzinare differenti tipi di dati.
Il fondamento biologico dell’apprendimento e della memoria è uno degli argomenti più studiati delle neuroscienze: decenni di ricerche hanno dimostrato che l’apprendimento modifica la struttura fisica del cervello.
Il cervello permette di immagazzinare una quantità apparentemente illimitata di informazioni, con cui acquisire nuove abilità, ricordare nozioni ed eventi della vita, e imparare dalle esperienze passate per modificare eventuali comportamenti futuri.
Per più di un secolo abbiamo studiato l’apprendimento e la memoria, e ora sappiamo che ne esistono tipi diversi.
Negli ultimi cinquant’anni la comprensione dei meccanismi cellulari alla base di entrambi i processi ha compiuto passi da gigante ed è ora ampiamente riconosciuto che entrambi implichino il rafforzamento delle connessioni tra le reti di neuroni.
II condizionamento operante è una forma di apprendimento in cui il comportamento è modificato dalle sue conseguenze, ed è stato proposto per la prima volta dallo psicologo americano Edward Thorndike, il quale studiò il comportamento di alcuni gatti posti in gabbie appositamente progettate, che tentavano di fuggire per raggiungere avanzi di cibo.
I gatti provavano vari mezzi, fino a quando non inciampavano in una leva che apriva la porta. Quando venivano rimessi nella gabbia, i gatti ne uscivano ogni volta più velocemente, perché avevano imparato ad associare la pressione sulla leva al risultato positivo.
In base a queste osservazioni, Thorndike propose la legge dell’effetto, secondo la quale qualsiasi comportamento che determina conseguenze positive avrà più probabilità di essere ripetuto, al contrario di un comportamento con conseguenze spiacevoli.
Lo psicologo comportamentale Burrhus Frederic Skinner, in seguito, approfondì il condizionamento operante usando i concetti di rinforzo e punizione. Il rinforzo può essere positivo, e in tal caso agisce premiando un comportamento che così si rinsalda, o negativo, che invece può stabilizzare un comportamento in grado di rimuovere uno stimolo avverso.
Se, ad esempio, un ratto riceve del cibo ogni volta che preme una leva, la ricompensa rinforza in maniera positiva il comportamento. Se, invece, premendo una leva il ratto interrompe una scossa elettrica, questo evento rinforza negativamente il comportamento.
La punizione, al contrario, ha l’effetto opposto, e indebolisce qualsiasi comportamento associandolo a uno stimolo avverso.
Un’altra forma di apprendimento è il condizionamento classico, scoperto per caso dal fisiologo russo Ivan Pavlov. Egli stava studiando la digestione nei cani, e notò che questi animali cominciavano a salivare prima di ricevere il cibo.
Nei suoi famosi esperimenti, Pavlov suonava un campanello mentre dava da mangiare agli animali, e a seguito del ripetuto accostamento di campanello e cibo, questi imparavano ad associare i due stimoli, e iniziavano a salivare al solo suono del campanello.
Se, tuttavia, questo veniva fatto suonare diverse volte senza che i cani ricevessero il cibo, la risposta condizionata (la salivazione al suono del campanello) si estingueva, o diminuiva.
Entrambi i condizionamenti, operante e classico, possono essere usati per modificare il comportamento dell’uomo. Il condizionamento classico, ad esempio, è alla base della terapia della repulsione, un trattamento in cui i pazienti imparano ad associare un comportamento indesiderato a stimoli spiacevoli:
ai pazienti alcolizzati, ad esempio, sono spesso somministrati farmaci emetici, che causano nausea e vomito in associazione all’alcol, nella speranza che il ripetuto accostamento dei due stimoli possa sopprimere lo stimolo del bere.
Esistono diversi tipi di memoria e ognuno dipende da un insieme distinto di strutture cerebrali per l’archiviazione e il recupero: l’ippocampo è fondamentale nella formazione e nel recupero dei ricordi, ma la loro registrazione coinvolge anche la corteccia frontale. Con il tempo, recuperare i ricordi dipende sempre meno dall’ippocampo e più dalla corteccia frontale.
- La memoria dichiarativa è la memoria di fatti e nozioni. Ci permette di ricordare, ad esempio, che Parigi è la capitale della Francia e che George W. Bush è stato un Presidente degli Stati Uniti. Dipende in larga parte dall’ippocampo.
- La memoria episodica riguarda gli eventi della vita. Ci permette di ricordare le esperienze dell’infanzia o cosa abbiamo mangiato ieri a colazione; interessa l’ippocampo e la corteccia frontale.
- La memoria procedurale riguarda il nostro saper fare certe cose, come andare in bicicletta, guidare un’auto o suonare uno strumento musicale. All’inizio imparare queste abilità richiede uno sforzo enorme, ma in seguito eseguirle diventa automatico. La memoria procedurale dipende dal cervelletto e dal corpo striato.
- La memoria semantica riguarda significati e concetti. È fondamentale, ad esempio, nella lettura, che dipende dalla nostra capacità di ricordare il significato delle parole. Coinvolge l’ippocampo e la corteccia frontale.
- La memoria spaziale registra le informazioni sull’ambiente e il rapporto tra oggetti e punti di riferimento all’interno di esso. Dipende in larga parte dalle strutture del lobo temporale mediale che circondano l’ippocampo.
Si ritiene che l’apprendimento e la memoria comportino il rafforzamento delle sinapsi; il potenziamento a lungo termine (LTP, Long-Term Potentiation) è un meccanismo in cui ciò accade.
L’LTP è stato scoperto nel corso di esperimenti eseguiti su sezioni di cervello di coniglio in cui venivano usati elettrodi per stimolare gli assoni in entrata nell’ippocampo insieme alle cellule che da essi ricevono input.
La stimolazione contemporanea di queste cellule fa sì che si attivino simultaneamente e ciò migliora le segnalazioni tra di esse per giorni o settimane, di modo che un unico impulso di stimolazione inviato agli assoni successivamente provocherà una risposta maggiore nelle cellule a valle. Il miglioramento dei segnali si deve a diversi meccanismi.
Le cellule presinaptiche possono produrre quantità maggiori di neurotrasmettitori, ad esempio, mentre le cellule postsinaptiche possono in serire nella propria membrana recettori extra.
Sappiamo anche che l’apprendimento e l’esperienza portano alla formazione di sinapsi nuove di zecca inducendo la crescita immediata di spine dendritiche, quelle minuscole strutture a forma di fungo in cui avvengono le trasmissioni sinaptiche.
5. L’elaborazione linguistica
In passato si pensava che l’emisfero sinistro contenesse due aree distinte deputate al linguaggio: una specializzata nella produzione della parola, l’altra per la sua comprensione.
Questo modello si era basato sugli studi del XIX secolo condotti su pazienti colpiti da ictus con danni cerebrali, la ricerca moderna, tuttavia, mostra che i circuiti linguistici sono molto più complessi.
Negli anni ’60 dell’Ottocento, un paziente di nome Leborgne fu trasferito nella clinica del neurochirurgo francese Pierre Paul Broca. Dieci anni prima, Leborgne aveva perso l’uso del braccio sinistro e si era guadagnato il soprannome di «Tan», dal suono dell’unica sillaba che riusciva a pronunciare e che ripeteva senza sosta.
Leborgne morì pochi giorni dopo il suo trasferimento, e quando Broca ne esaminò il cervello individuò una lesione al lobo frontale sinistro. Broca esaminò in seguito altri pazienti con gli stessi sintomi, notando durante l’autopsia che presentavano tutti la stessa lesione.
Più tardi, Carl Wemicke, un medico tedesco, descrisse altri due pazienti con ictus. Diversamente da quelli di Broca, questi pazienti riuscivano a parlare, ma pronunciavano parole e frasi senza senso, e avevano perso la capacità di intendere le parole degli altri.
Wemicke eseguì l’autopsia su uno di questi pazienti, scoprendo una lesione localizzata in un’altra regione, nella parte posteriore del lobo temporale frontale.
Le osservazioni di Broca e Wemicke non solo permisero di identificare le aree cerebrali che da loro presero il nome, ma contribuirono anche alla nascita della nozione di localizzazione delle funzioni cerebrali, secondo la quale il cervello contiene regioni distinte e specializzate nello svolgimento di particolari funzioni (una nozione che all’epoca venne messa in disparte a favore della più popolare frenologia).
Contribuirono, inoltre, all’idea della superiorità dell’emisfero sinistro in quanto sede delle funzioni linguistiche. Da queste osservazioni, dunque, nacque il modello neurobiologico classico del linguaggio:
la produzione del linguaggio sarebbe localizzata nell’area di Broca, nella quale una lesione produrrebbe la cosiddetta afasia di Broca o incapacità di formulare il parlato, mentre l’area di Wemicke sarebbe associata alla comprensione, e la sua compromissione determinerebbe la cosiddetta afasia di Wemicke.
Tuttavia, questo modello fu in seguito messo in discussione. Negli stessi anni, alcuni ricercatori notarono che una lesione nell’area di Broca non sempre generava un deficit del linguaggio, e gli stessi disturbi si potevano riscontrare anche a seguito di una lesione al di fuori di quest’area.
Le tecniche di imaging lo confermano: Broca e Wernicke non sono stati precisissimi nelle loro descrizioni anatomiche, ed entrambe le aree linguistiche sovrintendono a funzioni molto più complesse rispetto a quelle originariamente ascritte loro.
I neuroscienziati considerano oggi il modello classico troppo riduttivo e alcuni sostengono che avrebbe addirittura intralciato la ricerca sulle basi neurologiche del linguaggio, e che i termini area di Broca e area di Wemicke sono ormai privi di significato.
L’area di Broca è parte del sistema motorio, e come tale è responsabile del controllo dei muscoli della bocca e della laringe necessari all’articolazione del linguaggio. La ricerca moderna ha mostrato, inoltre, il suo coinvolgimento anche in altre funzioni linguistiche.
Quando Leborgne e Lelong, entrambi pazienti di Broca, morirono, lo stesso Broca decise, dopo averli esaminati, di donare i loro cervelli a un museo parigino perché li conservasse.
Più di 140 anni dopo, alcuni ricercatori li hanno analizzati nuovamente utilizzando sofisticate tecniche di imaging, scoprendo che l’estensione della lesione cerebrale era molto maggiore rispetto a quanto ipotizzato da Broca.
Nel 2007, alcuni ricercatori californiani hanno usato la risonanza magnetica (MRI, Magnetic Resonance Imaging) ad alta risoluzione per analizzare il cervello di Leborgne. Le immagini hanno rivelato che la lesione più estesa non era nella regione chiamata area di Broca, ma in una antistante.
Secondo i resoconti originali, la lesione era limitata alla superficie del cervello, tuttavia le immagini mostrano che questa in realtà si estendeva in profondità.
Broca, a occhio nudo, non avrebbe potuto notarlo, e inoltre non aveva tenuto in considerazione come gli ictus del paziente avessero alterato le connessioni tra quest’area e le altre parti del cervello:
gli studi di imaging sui pazienti con ictus mostrano che l’afasia di Broca può essere determinata da un danno localizzato in una struttura chiamata insula, nei gangli basali o nella sostanza bianca sotto i lobi frontali.
Allo stesso modo, gli studi con tomografia a emissione di positroni (PET) hanno mostrato che i confini anatomici identificati da Wernicke erano poco accurati, e che questa area linguistica contiene numerosi sottosistemi specializzati nell’elaborazione dei diversi aspetti linguistici.
Questi studi hanno identificato due aree separate all’interno della cosiddetta area di Wernicke: una sarebbe coinvolta nella percezione e nel ricordo delle parole, mentre l’altra si attiverebbe durante la produzione del linguaggio.
Ciò significa che l’area di Wernicke partecipa ad alcune delle funzioni tradizionalmente ascritte solo all’area di Braca e, allo stesso modo, oggi pare chiaro che l’area di Braca contribuisca anche alla comprensione del linguaggio.
Gli studi di imaging hanno inoltre individuato che l’area cerebrale più attiva mentre si ascolta un messaggio linguistico si trova ben 3 cm più avanti rispetto alla tradizionale area di Wernicke.
Quest’area, scoperta nel 2000 da alcuni ricercatori londinesi, si attiva quando percepiamo delle parole, ma non se udiamo suoni privi di significato, ed è appunto parte di un fascio neurale. che percepisce i suoni linguistici e le parole.
È stato identificato anche un fascio, ancora più lontano, che include la regione tradizionalmente chiamata area di Broca, la quale sembra contribuire all’integrazione degli aspetti sensoriali e motori del linguaggio.