Il tè è un’opera d’arte e ha bisogno della mano di un maestro per esprimere le sue più nobili qualità.
Esiste un tè buono e uno cattivo esattamente allo stesso modo in cui vi è della buona o della cattiva pittura, più spesso cattiva, e non esistono ricette sicure per riuscire a preparare un tè perfetto, così come non esistono regole che consentano di produrre un Tiziano o un Sesson.
Ogni modo di preparare le foglie ha una sua caratteristica individuale, particolari affinità con l’acqua e il calore, ricordi ereditari e un proprio modo di raccontare.
Ma l’autentica bellezza lo deve sempre compenetrare. Per noi è una vera sofferenza osservare come la società si rifiuti di prendere atto di quella legge semplice, ma quanto fondamentale, dell’arte e della vita.
Lichihlai (Li Chi Lai), un poeta Sung, ha notato tristemente che le tre cose più deplorevoli del mondo sono: vedere la giovinezza devastata da un’educazione sbagliata, dei quadri belli degradati dall’ammirazione di gente volgare, e tanto ottimo tè sciupato da una lavorazione imperfetta.
La pianta del tè, originaria della Cina del Sud, era conosciuta fin dai tempi più antichi dalla medicina e dalla botanica cinesi.
Chiamata con nomi differenti, Tou, Tsch, Chung, Kha e Ming, con i quali veniva nominata da diversi scrittori, era apprezzata per le sue numerose virtù che consentivano di alleviare la fatica, deliziare l’anima, irrobustire la volontà e rafforzare la vista.
Il tè usato come medicina non veniva solamente bevuto, ma spesso era usato anche come medicamento esterno e applicato in forma di pasta per curare le malattie reumatiche.
La prima menzione del tè di cui si abbia notizia in Europa si trova nelle indicazioni di un viaggiatore arabo che afferma che, dopo l’anno 879, le maggiori entrate della città di Canton erano dovute alle tasse sul tè e sul sale.
Marco Polo parla della destituzione, avvenuta nel 1285 in Cina, di un ministro delle finanze responsabile di un aumento arbitrario delle tasse sul tè.
Ma è solo nell’epoca delle grandi scoperte che l’Europa cominciò a sapere qualcosa di più preciso su quanto avveniva nell’Estremo Oriente.
Verso la fine del XVI secolo gli olandesi portarono la notizia di una gustosa bevanda che veniva preparata in oriente con le foglie di un arbusto.
Ma vediamo 5 cose molto interessanti che riguardano il tè e, per tutti quelli che sono interessati all’argomento, consigliamo la lettura del libro di Kakuzo Okakura “Il libro del tè”.
1. Tè e Teismo
Prima di diventare una bevanda, il tè era una medicina. Solamente nell’VIII secolo in Cina venne introdotto nel regno della poesia come uno dei divertimenti eleganti.
Nel corso del XV secolo il Giappone elevò questa bevanda al rango di una vera religione estetica: il Teismo.
Il Teismo è un culto fondato sull’adorazione del bello, nello squallore dell’esistenza quotidiana. La sua essenza è costituita da purezza, armonia, mistero della reciproca carità e romanticismo dell’ordine sociale.
È essenzialmente il culto dell’Incompiuto, un tentativo delicato di raggiungere il possibile in mezzo a quell’Impossibile che chiamiamo vita.
La filosofia del tè non è un banale estetismo, almeno nell’accezione in cui usiamo comunemente questo termine, poiché essa ci aiuta a esprimere, insieme all’etica e alla religione, il nostro modo di vedere l’uomo e la natura.
La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.
Infine rappresenta il vero spirito della democrazia orientale perché trasforma i suoi adepti in veri aristocratici del gusto.
Il lungo isolamento che il Giappone ha mantenuto nei confronti del resto del mondo è stato estremamente importante sia per lo sviluppo della sua vita interiore, sia per quello del Teismo.
Okakura Kakuzo, autore del “Libro del tè” scrive:
Questa filosofia ha influenzato l’arredamento delle nostre case, le nostre abitudini, il nostro modo di vestire, la nostra cucina, la nostra ceramica, la lacca, la scultura e persino la letteratura. Nessuno studioso della cultura giapponese può ignorare la presenza del Teismo, che è penetrato nelle case più nobili ed eleganti così come nelle più umili dimore. Ha insegnato ai nostri contadini l’arte di disporre i fiori e ha ispirato anche al più povero lavoratore il rispetto per l’acqua e gli scogli. Quando dobbiamo parlare di un uomo insensibile ai tragicomici episodi della sua storia personale, diciamo che “non ha il tè”. Quando condanniamo la vita disordinata degli esteti che, trascurando l’aspetto tragico dell’esistenza, si abbandonano a sentimenti troppo esuberanti, diciamo che “hanno troppo tè”.
I legami tra Zen e Teismo sono risaputi. Il nome di Lao-tzu, il fondatore del Taoismo, è ugualmente legato strettamente alla storia del tè.
Il manuale scolastico cinese sull’origine degli usi e dei costumi della Cina afferma che l’usanza di offrire il tè a un ospite risale a uno dei più famosi discepoli di Lao-tzu, Kwanyin (Kuan Yin-tzu), il quale, alle porte del passo di Han, offrì al “Vecchio Filosofo” una tazza del dorato elisir.
Non ci interessa scoprire se questa leggenda abbia o meno un fondamento di verità, comunque sia essa conferma che fin dall’antichità i taoisti facevano uso di questa bevanda.
Quello che a noi interessa del Taoismo e dello Zen è l’atteggiamento di queste due filosofie nei confronti della vita e dell’arte che è racchiuso in quello che chiamiamo Teismo.
2. Un po' di storia
La prima menzione del tè di cui si abbia notizia in Europa si trova nelle indicazioni di un viaggiatore arabo che afferma che, dopo l’anno 879, le maggiori entrate della città di Canton erano dovute alle tasse sul tè e sul sale.
Marco Polo parla della destituzione, avvenuta nel 1285 in Cina, di un ministro delle finanze responsabile di un aumento arbitrario delle tasse sul tè.
Ma è solo nell’epoca delle grandi scoperte che l’Europa cominciò a sapere qualcosa di più preciso su quanto avveniva nell’Estremo Oriente. Verso la fine del XVI secolo gli olandesi portarono la notizia di una gustosa bevanda che veniva preparata in oriente con le foglie di un arbusto.
I viaggiatori Giovan Battista Ramusio (1559), L. Almeida (1576), Maffei (1588) e Tareira (1610) parlano anche loro del tè. Nel 1610 le navi della Compagnia olandese delle Indie portarono in Europa il primo tè, che fu poi introdotto nel 1636 in Francia e nel 1638 in Russia.
La bevanda orientale giunse nel 1650 in Inghilterra, dove venne giudicata: “Una bevanda eccellente, consigliata da tutti i medici cinesi e che viene chiamata Tcha, mentre le altre nazioni la chiamano Tay o Tee”.
Come per ogni buona cosa, anche la propaganda del tè incontrò una fiera opposizione. Eretici come Hemery Saville (1678) la denunciarono all’opinione pubblica tacciandola di essere “una impura sostanza”.
Jonas Hanway (nel suo Saggio sul Tè del 1765) afferma che l’uso del tè fa diminuire gli uomini di statura e li fa divenire volgari, così come imbruttisce le donne.
Inizialmente l’alto costo del tè (che veniva venduto a un prezzo variante dai 15 ai 16 scellini per libbra) impedì all’esotica bevanda di conoscere una vasta diffusione e contribuì invece a farla divenire un piacere riservato “alle feste e ai ricevimenti del gran mondo, adatto unicamente per essere, sorbito da principi e da aristocratici”.
Ma nonostante tutto l’usanza di bere il tè si diffuse con rapidità straordinaria. Già verso la prima metà del secolo XVIII, i caffè londinesi si erano in effetti tramutati in case da tè ed erano divenuti luoghi di incontro per spiriti nobili del tipo di Addison e Steele, i quali davanti alla loro teiera dimenticavano il mondo esterno.
Ben presto il tè entrò a far parte dei bisogni quotidiani di un numero di persone sempre maggiore e dunque divenne anche merce tassabile. A questo proposito bisogna ricordare l’importanza che il reddito ricavato dalle imposte sul tè ha avuto nella storia mondiale.
L’America sopportò l’oppressione coloniale fino a quando, non essendo infinita la pazienza dell’uomo, non insorse contro le pesanti tasse che gravavano sul commercio del tè. L’indipendenza degli Stati Uniti d’America cominciò il giorno della distruzione delle casse di tè avvenuta nel porto di Boston.
3. Le tre epoche de tè
Come l’arte, anche il tè ha le sue scuole e le sue epoche.
La sua evoluzione si può dividere in tre periodi principali: quello del tè bollito, quello del tè frullato e quello del tè infuso. Noi moderni apparteniamo all’ultima scuola.
Questi diversi modi di onorare il tè mostrano chiaramente lo spirito delle epoche in cui si sono sviluppati, perché la vita è un’espressione e le nostre azioni inconsce rivelano sempre i nostri più intimi pensieri.
Confucio una volta disse: “L’uomo non sa nascondere nulla”. Può darsi che ci riveliamo troppo nelle piccole cose, perché abbiamo così poco da nascondere nelle grandi. I piccoli avvenimenti quotidiani mostrano gli ideali di un popolo quanto i grandi voli delle opere filosofiche e poetiche.
Come le preferenze per le diverse bevande caratterizzano le diverse epoche e nazionalità dell’Europa, così gli ideali del tè caratterizzano i diversi momenti della cultura orientale.
L’impasto di tè che si faceva bollire, il tè in polvere che veniva frullato e le foglie di tè che vengono lasciate in fusione rappresentano i diversi impulsi emotivi delle dinastie cinesi dei Tang, dei Sung e dei Ming.
Ma se si vuole usare la terminologia con cui vengono classificate le opere La pianta del tè, originaria della Cina del Sud, era conosciuta fin dai tempi più antichi dalla medicina e dalla botanica cinesi.
Chiamata con nomi differenti, Tou, Tsch, Chung, Kha e Ming, con i quali veniva nominata da diversi scrittori, era apprezzata per le sue numerose virtù che consentivano di alleviare la fatica, deliziare l’anima, irrobustire la volontà e rafforzare la vista.
Il tè usato come medicina non veniva solamente bevuto, ma spesso era usato anche come medicamento esterno e applicato in forma di pasta per curare le malattie reumatiche.
I taoisti consideravano il tè un elemento importante dell’elisir dell’immortalità e i buddisti lo usavano correntemente come rimedio contro il sonno durante le sedute di meditazione.
I legami tra Zen e Teismo sono risaputi. Il nome di Lao-tzu, il fondatore del Taoismo, è ugualmente legato strettamente alla storia del tè.
Il manuale scolastico cinese sull’origine degli usi e dei costumi della Cina afferma che l’usanza di offrire il tè a un ospite risale a uno dei più famosi discepoli di Lao-tzu, Kwanyin (Kuan Yin-tzu), il quale, alle porte del passo di Han, offrì al “Vecchio Filosofo” una tazza del dorato elisir.
Non ci interessa scoprire se questa leggenda abbia o meno un fondamento di verità, comunque sia essa conferma che fin dall’antichità i taoisti facevano uso di questa bevanda.
Quello che a noi interessa del Taoismo e dello Zen è l’atteggiamento di queste due filosofie nei confronti della vita e dell’arte che è racchiuso in quello che chiamiamo Teismo.
4. La Stanza del Tè
La Stanza del Tè (sukiya) non vuole essere altro che una piccola casa, una capanna di paglia, come la chiamano i giapponesi.
I caratteri ideografici originari della sukiya significano “Dimora della Fantasia”.
Col passare del tempo i diversi Maestri del Tè vi sostituirono alcuni caratteri cinesi a seconda della loro personale concezione della Stanza del Tè, e adesso il termine sukiya può anche significare “la Dimora del Vuoto” oppure “la Dimora dell’Asimmetria”:
- È infatti la Dimora della Fantasia in quanto non è che una semplice costruzione che serve di asilo alle impressioni poetiche.
- È anche la Dimora del Vuoto, in quanto è priva di qualsiasi ornamento, a eccezione di quel poco che vi trova posto per poter soddisfare l’ispirazione poetica del momento.
- È infine la Dimora dell’Asimmetria in quanto è destinata al culto dell’Incompiuto, e appositamente vi si lascia sempre qualche particolare non finito che deve essere completato dal gioco della fantasia.
Gli ideali del Teismo hanno esercitato, dal XII secolo in poi, un’influenza così importante sulla nostra architettura, che anche i comuni interni giapponesi dei giorni nostri danno agli stranieri l’impressione di essere quasi vuoti a causa dell’estrema semplicità e purezza del loro sistema decorativo.
La creazione della prima Stanza del Tè fu opera di Sen-no-Soeki, generalmente conosciuto con il suo ultimo nome, Rikyu, il più grande di tutti i Maestri del Tè, che nel XVI secolo, stabilì e portò ad un elevato grado di perfezione il rituale della Cerimonia del Tè.
Le proporzioni della Stanza del Tè erano già state fissate, prima di lui, da Joo, celebre Maestro del Tè che visse nel XV secolo. Inizialmente la Stanza del Tè non era che una parte del salotto che veniva separata dal resto della stanza da alcuni paraventi.
Il luogo così separato era chiamato kakoi (recinto), termine con cui ancora oggi si indicano quelle Stanze del Tè che fanno parte della casa e che quindi non sono delle vere e proprie costruzioni indipendenti.
La sukiya si compone innanzitutto della Stanza del Tè vera e propria, che non può accogliere più di cinque persone, un numero di cui si dice “più delle Grazie e meno delle Muse”, secondo le parole di un noto proverbio.
Inoltre la sukiya è dotata di un’anticamera (mizuya) dove vengono lavati e preparati gli utensili necessari per la preparazione del tè, di un portico (machiai) dove gli ospiti attendono l’invito a entrare e infine di un sentiero (roji) che unisce il portico alla Stanza del Tè.
La sukiya è un luogo semplice e poco appariscente. È più piccola delle più piccole case giapponesi, e i materiali con i quali è stata costruita danno l’impressione di una povertà raffinata.
La Stanza del Tè non si distingue solo dalla produzione architettonica occidentale, ma anche dalla stessa architettura classica giapponese. La semplicità e la purezza della Stanza del Tè derivano dalla ispirazione al modello dei monasteri Zen.
5. I Maestri del Tè
Nella religione il Futuro è dietro di noi. Nell’Arte, il presente è eterno.
I Maestri del Tè ritenevano che la vera comprensione dell’arte è possibile unicamente per coloro che la rendono una forza attiva e vivente.
Cercavano quindi di uniformare la loro esistenza al perfetto modello di raffinatezza che regnava nella Stanza del Tè.
Si preoccupavano di conservare, in ogni circostanza, la serenità dello spirito e di dirigere la conversazione in modo tale che l’armonia circostante non venisse mai alterata.
Il taglio e il colore degli abiti, l’equilibrio del corpo, il modo di camminare, ogni cosa può essere la manifestazione di una personalità artistica. Sono tutte cose che non possono venire trascurate, perché chi non coltiva la bellezza in se stesso, non ha diritto di avvicinarla.
La Cerimonia del Tè è una pratica che si è saldamente inserita nella tradizione Zen a partire dal XV secolo.
Divenuta una tecnica psicofisica con il dichiarato scopo di modificare i ritmi di chi vi partecipa per farlo giungere a una dimensione di calma e serenità interiore, la CHA-NO-YU può essere considerata alla stessa stregua di una meditazione.
Con il passare degli anni si è formata una catena di Maestri del Tè, che fondarono scuole, offrirono contributi, varianti e innovazioni personali alla Cerimonia, all’arredamento della Stanza del Tè e agli utensili usati nella CHA-NO-YU.
Uno dei più famosi Maestri del Tè è Murata Juko (1422 - 1502), che nacque da una famiglia di modeste condizioni sociali a Nara.
Si recò a Kyoto, ancora oggi uno dei principali centri di studio e diffusione della cultura giapponese, dove studiò lo Zen presso il rinomato Ikkyu e dove ebbe anche una notevole attività artistica nel campo della poesia e del teatro No.
Juko è ancora oggi famoso per le sue poesie e per i suoi detti, nei quali racchiudeva l’essenza del suo pensiero riguardo la Cerimonia del Tè. Juko ebbe numerosi allievi che alla morte del maestro si divisero in due correnti, quelli che seguirono l’indirizzo che egli aveva dato alla cerimonia e quelli che tornarono invece all’indirizzo più formale.
Fu un allievo di un discepolo di Juko a diventare uno dei più importanti Maestri del Tè del XVI secolo: Takeno Joo (1504-1555). Figlio di un ricco mercante, Joo studiò Zen nel tempio Daitokuji, e Waka, la classica poesia giapponese di trentuno sillabe, con un famoso intellettuale del tempo, Sanjonishi Sanetaka.
Secondo Joo la Cerimonia del Tè doveva essere spoglia e il più semplice possibile, esattamente come quei dipinti Zen che si compongono di un veloce tratto di pennello nero sulla carta bianca, in cui è racchiusa tutta l’essenza di un discorso.
Senza dubbio, e senza nulla togliere agli altri, il più venerato e conosciuto di tutti i Maestri del Tè è Sen-No Rikyu, nella foto (1522-1591).
Proveniente da una famiglia di mercanti divenuta da poco ricca grazie al mercato del pesce, probabilmente Rikyu cominciò a interessarsi al tè poiché in quei tempi era molto di moda soprattutto tra i ricchi commercianti.
Da giovane aveva studiato molto profondamente sia lo Zen che il teatro No. È importante infine sottolineare come Rikyu non desiderava affatto dare un taglio netto con la vita del mondo.
Al contrario, considerava la Cerimonia del Tè un aspetto fondamentale della esistenza e riteneva indispensabile trasportare i suoi principi nelle azioni della vita quotidiana. CHA-NO-YU, quindi, non come parentesi distensiva, ma come tecnica di realizzazione.
Rikyu, ha inoltre scritto cento poesie Waka in cui esprime in forma poetica il suo pensiero sugli aspetti principali della Cerimonia del Tè. Ancora oggi i praticanti della CHA-NO-YU usano, durante la cerimonia, dei piccoli ventagli su cui sono stampate le cento Waka di Rikyu.