Il pane e gli altri prodotti lievitati sono da millenni, per economicità e facilità di approvvigionamento, alla base dell’alimentazione e costituiscono una fonte importante di carboidrati.
Questo alimento ha un indice di sazietà medio e un contenuto medio di calorie (da 200 a 300 kcal per 100 g).
Non ci sono controindicazioni nel consumarlo più volte al giorno, anche se si deve avere l’accortezza di non eccedere nelle quantità assunte o di esserne in un certo senso dipendenti (come capita a quelle persone che non riescono a mangiare niente se non accompagnato dal pane).
Per chi avesse problemi e dovesse seguire una dieta ipocalorica si consiglia di puntare su pani, come quello toscano o il pugliese, che sono più voluminosi di altri a parità di calorie; così da “saziarsi” anche dal punto di vista visivo.
Il pane bianco ha un indice glicemico molto elevato, dunque bisognerebbe evitare di assumerlo da solo o insieme a zuccheri semplici come la marmellata, mentre è sempre bene inserirlo all’interno di un pasto equilibrato, contenente proteine e grassi.
A tal proposito è molto interessante il pane prodotto con farine ad alto contenuto proteico, come quello di kamut o di grano duro, che ha un indice di sazietà più elevato e un indice glicemico più basso.
Quando si dice pane si pensa di aver detto tutto: ma questo alimento è tra i più vari che possano esistere. Cambia a seconda degli ingredienti con cui viene preparato ma anche a seconda dei tipi di lavorazione che subisce.
Non per niente in Italia esistono dei pani che hanno ricevuto anche la certificazione DOP, come il famoso pane di Altamura. Acquistare il pane fresco ogni giorno sembra un impresa, con i ritmi della vita moderna.
Perciò spesso si riduce al consumo dei pani a cassetta preconfezionati che però non hanno le stesse caratteristiche nutritive e capacità di saziate di un pane fresco.
Oggi parleremo degli ingredienti principali del pane, ossia di questo cibo nutriente che viene considerato come “l’alimento per antonomasia”, fondamentale nella dieta dell’uomo in ogni luogo del mondo da millenni.
1. La farina
Quando in una ricetta vediamo la dicitura ’"farina", ci si dovrebbe chiedere di quale tipo di farina si sta parlando.
La farina è un alimento ottenuto dalla macinazione dei cereali, in genere grano o mais ma anche orzo, farro, riso, avena, segale e kamut.
La più importante proprietà della farina di grano consiste nella presenza di due proteine, la gliadina e la gluteina che, a contatto con l'acqua, reagiscono e formano il glutine, una proteina completa che forma un reticolo all'interno della massa di farina e acqua, rendendola compatta, elastica e capace di trattenere i gas che si sviluppano al suo interno, creando delle bolle: questo dà al pane e agli altri lievitati la caratteristica consistenza spugnosa.
Ma quali sono i tipi di farina? Una prima distinzione si può fare in base al tipo di strumento da cui la farina viene estratta: ci sono grani teneri e grani duri.
- I grani teneri danno farine di colore bianco, dalla consistenza polverosa, usate per lo più in pasticceria e nella panificazione. Tra i grani teneri ce ne sono di diverse specie, distinti a seconda del luogo di origine: Stati Uniti, Canada, Argentina producono i migliori grani teneri con il Manitoba, il Plata, ecc.
La legge italiana prevede che le farine di grano tenero siano classificate in base alle ceneri in esse contenute, secondo il seguente schema:- tipo 00 con generi fino al 0,50%;
- tipo 0 con ceneri fino allo 0,65%;
- tipo 1 con ceneri fino allo 0,80%;
- tipo 2 con ceneri fino allo 0,95%;
- integrale con ceneri fino all'1,40-1,70% cioè comprensivo anche della crusca.
Per ceneri si intende il residuo che la farina testata lascia dopo essere stata portata ad altissima temperatura, quindi combusta. In realtà non si tratta di vere e proprie ceneri ma di sali minerali non dannosi alla salute umana ma comunque regolati da normativa per la classificazione della macinatura delle farine.
Le diciture "Integrale", "2", "1", "0", "00" indicano rispettivamente con quale parte del chicco di grano è stata ottenuta la farina, quindi per l'Integrale la macinatura sarà grossolana e riguarderà l'intero chicco compresa la crusca (involucro esterno di colore marrone), per la 2 macinatura sarà un po più fine dell'intero chicco senza la crusca, per la 1 invece la macinatura sarà ancora più sottile e riguarderà il chicco privato del tritello (primo strato che racchiude gli ultimi tre strati che compongono il chicco), e via via si arriva al 00 che è solo il cuore del chicco, la parte più nobile, più ricca di glutine e zuccheri.
Le farine 2 e 1 ormai le usano solo pochi fornai e non tutti i mulini le producono: con queste si ottengono perni molto caserecci, pesanti e con alveolatura molto fitta, dato che la farina e ottenuta con la parte meno nobile del chicco. Alla maggior parte delle persone non piace. La 0 è la farina più comunemente usata nella panificazione industriale - Per il grano duro il discorso è un po' diverso: la pane esterna del chicco non ha alcun pregio e viene scartata e destinala all'alimentazione animale mentre il resto del chicco viene macinato e poi passato attraverso setacci, da dove verrà estratta la semola, la rimacinata ecc.
I grani duri invece danno farine di colore gialognolo, più granulose al tatto e utilizzate per le paste alimentari e alcuni tipi di pane che vengono definiti di "semolato di grano duro" oppure di "sfarinato di grano duro".
Le sostanze principali che compongono le farine sono: enzimi, zuccheri, proteine e sali minerali.
- Gli enzimi sono importanti nella panificazione in quanto si dividono in amilasi e pregasi. I primi attaccano l'amido della farina e producono l'alimento fondamentale per i lieviti, i secondi invece attaccano il glutine rendendolo più elastico.
- Gli zuccheri servono ad alimentare i lieviti, facendoli crescere e moltiplicare.
- Le proteine sono solubili e insolubili: le più importanti sono la gliandina e la gluteina che si legano assieme durante l'impasto formando il glutine.
- I sali minerali sono principi nutritivi essenziali per l'organismo umano e soddisfano diverse funzioni chimiche all'interno del corpo.
A seconda di quanto glutine contiene la farina, l'impasto con l'acqua sarà più o meno elastico e resistente e avrà diversi comportamenti anche con i lieviti. Tecnicamente la forza delle farine è indicata con un fattore "W", che però non si trova citato sulle confezioni familiari ma solo su quelle a uso industriale.
In ogni caso più alto è il fattore W, più alto sarà il contenuto in glutine. In base a questa misurazione, le farine vengono classificate in "deboli" o di "forza" :
- Deboli (fino a 170 W): sono farine per cialde, biscotti, grissini, piccola pasticceria; assorbono circa il 50% del loro peso in acqua;
- Medie (dai 180 fino ai 260 W): sono farine per impasti lievitati che necessitano di una media quantità d'acqua come il pane francese, all’olio o la pizza; assorbono dal 55 al 65% del loro peso in acqua e sono quelle più usate comunemente in pizzeria;
- Forti (dai 280 ai 350W): sono farine per impasti lievitati che necessitano di una elevala quantità di acqua o di altri liquidi come babà, brioches, pasticceria e pizza, assorbono circa dal 65 al 75% lei loro peso in acqua;
- Speciali (oltre i 350 W): sono farine prodotte con grani speciali, soprattutto americano, canadesi, usato soprattutto tagliate per rinforzare farine più deboli oppure per pani di difficile panificazione; assorbono fino al 90% del loro peso in acqua.
Pei scoprire il fattore W, anche quando non viene segnalalo nelle confezioni di farina a uso casalingo, si può far riferimento, qualora ci sia, alla tabella nutrizionale. Infatti più alto è il contenuto di proteine, maggiore è la forza della farina.
Un modo ottimo per ottenere la farina giusta è invece recarsi ai mulini o ai negozi di granaglie dove spesso si può comprare la farina sfusa, prelevata dai sacchetti da 30-50 kg per uso professionale, e sapere quindi l'indicatore W che in questi casi deve essere riportato dall'etichetta.
2. Il lievito
Il lievito venne conosciuto già al tempo degli Egizi e derivò probabilmente da una dimenticanza che fece fermentare, sotto il sole tropicale di quel paese, della farina con dell'acqua.
Il lievito ha la funzione di far fermentare e levare la pasta mediante lo sviluppo di acido carbonico; contribuisce alla creazione di un pane spugnoso e leggero, trasforma i substrati liberati dalla macinazione al fine di modificarli in modo che la loro assimilazione e digeribilità siano più agevoli.
E' composto da microrganismi vivi detti saccaromiceti (che sono funghi), batteri (B-glutinis, B-subtilis, ecc.) e miceli (cioè organismi simili alle alghe). Qualche microflora si trova nella pasta dopo che si è mescolata la farina con l'acqua per qualche ora. e si moltiplica lentamente, senza grosse energie.
Il processo di modificazione dei saccaromiceti è molto veloce, e nei lieviti compressi, ci sono milioni di cellule che, moltiplicandosi, conducono la pasta a lievitazione in poche ore.
Se il processo prosegue, in un centimetro cubico di pasta si condenseranno 150 milioni di cellule. Nei lieviti naturali invece a una fase di germinazione segue quella di riduzione durante la cottura.
Il lievito che potete usare è di diversi tipi:
- ne esiste in commercio uno chimico che, inserito nell'impasto, non ha bisogno dei tempi di sosta della lievitazione in quanto si attiva durante la cottura. È un prodotto di minor resa e qualità rispetto ai lieviti tradizionali ma è ottimo perché risulta intollerante ai saccaromiceti.
- Il lievito secco in polvere invece, è lievito disidratato. II suo utilizzo é d'obbligo nei paesi molto caldi, in cui la conservazione del lievito fresco non sarebbe possibile.
La sua resa é pari almeno a tre volte rispetto al lievito normale. Nonostante quanto riportato da alcune indicazioni sulle confezioni di tali prodotti, deve essere trattato come una sostanza viva, soltanto da reidrattare.
Pertanto va sciolto in acqua a temperatura di circa 25 °C e nutrito eventualmente con un piccolo quantitativo di zucchero o di matto. Una volta integrato nell'impasto, bisogna dargli il tempo di fermentare perché provochi la lievitazione. - Il lievito fresco viene comunemente venduto in panetti. La sua resa è minore rispetto al lievito secco perché il 70% di tale impasto, che è una cultura di saccharomiceti, è costituita da acqua.
Tuttavia il suo risultato è migliore per quanto riguarda la qualità di lievitazione. Vi consigliamo di tenerlo in frigorifero fino al momento dell'utilizzo in quanto le basse temperature addormentano i lieviti impedendo loro di proliferare; a partire infatti dai 25 °C questi lieviti cominciano a muoversi e a riscaldarsi lavorando anche su se stessi e imputridendo. Un errore comune è quello di pensare di poter congelare il lievito, mettendolo in freezer, quando non c'è necessità di utilizzarlo ed è prossimo alla scadenza.
Una volta passato il periodo di scadenza i saccaromiceti sono irrimediabilmente deteriorati e non servono più per la lievitazione.
Piuttosto un consiglio nutrizionista che vi possiamo dare è quello di inserire il panetto di lievito nel frullatore con un paio di bicchieri acqua e prepararvi un bel frullato ricco di vitamina B. Il gusto tuttavia non sarà dei migliori…
Come fare il lievito in casa?
- Ponete in una scodella di terracotta un po ' di farina biologica macinata di fresco e aggiungete la stessa quantità di acqua tiepida con un cucchiaino di miele per aiutare i fermenti ad attivarsi.
Lasciate la pastella formarsi in un luogo caldo e areato per 2-3 giorni facendo attenzione a che la temperatura non sia mai inferiore ai 15 °C o superiore ai 20 °C. Dopo questo tempo lavorate la pastella con dell'altra farina e acqua. Lasciate riposare ancora per 1-2 giorni, trascorsi i quali, dovrebbe essere pronta.
Per il caratteristico odore viene detta pasta acida e si dovrebbe presentare resistente alla pressione e sfilacciosa. - Un altro sistema prevede che impastiate 100 g di farina biologica con 1 cucchiaio di olio extravergine d'oliva, 1 cucchiaio di miele e un po' di acqua tiepida. Dovete lavorare il tutto finché non otterrete un impasto che non si attacchi alle dita. Mettete il tutto in una scodella di terracotta, coprite con un panno umido e lasciate riposare per 2-3 giorni a temperatura di circa 20°C. Riprendete la pasta dopo questo tempo e lavoratela con un altro po' di farina e di acqua tiepida. Lasciate fermentare il tutto per altri 2 giorni e la vostra pasta acida sarà pronta.
- C'è anche un terzo procedimento, rispetto a quelli precedenti, che consiste nel procurarsi un po' di lievito di pasta dal fornaio. Sbriciolate un pugno in una scodella di terracotta e diluite del tutto completamente. Aggiungete 2-3 hg di farina fresca e lavorate con un cucchiaio di legno finché non diventi spessa. Impastate ora con le mani aggiungendo un altro po' di farina. Quando l'impasto non è più appiccicoso, mettetelo in una scodella a lievitare per circa una giornata intera.
Qualsiasi procedimento scegliate di seguire, potete conservare la pasta acida frigorifero o in un posto fresco avvolta in un panno di cotone o in un barattolo di vetro medica per 10-15 giorni.
Questo tipo di lievito non dura molto perché la fermentazione acida, dovuta a certi batteri, li fa sviluppare e prendere il sopravvento sui saccaromiceti. Il lievito vecchio perciò produrrà una fermentazione acida con il risultato di un pane duro e di sapore acido.
Per evitare ciò si deve ringiovanire i lievito ogni 3-4 giorni con l'aggiunta di acqua tiepida e farina; una volta rimpastato il tutto, il lievito sarà nuovamente attivato in quanto gli si darà modo di attivare fermentazioni alcoliche che aumentano il numero dei saccaromiceti e diminuiscono quello dei batteri acidi.
Il rinfrescamento del lievito ha la funzione di conservare attivo il lievito e di prepararlo alla messa in fermento per la panificazione.
La pasta acida - nota anche come lievito naturale - è per eccellenza il lievito casalingo, e consente di non comprare mai più altro lievito. Questo tipo di lievitazione è consigliabile se preparate il pane in casa abitualmente e con regolarità (almeno una volta alla settimana). Si può anche ottenere da un pezzetto (grosso come un pugno) dell'ultimo impasto di pane utilizzato, tolto prima della cottura.
Conservate questo impasto in un posto tiepido, coperto da un canovaccio, per 3-4 giorni, trascorsi i quali la pasta comincerà ad avere un odore acido ma gradevole. Questo lievito matura grazie anche a fermentazioni collaterali e dunque si arricchisce di fermenti lattici, acetici butirrici. Di conseguenza, oltre a essere particolarmente efficace, è anche più intensamente aromatico, anche se è per agire richiede un tempo di lievitazione mediamente più lungo degli altri lieviti.
Ne servono circa 80 g ogni chilogrammo di farina. Impastare la pasta acida con 500 g di farina 500 g di acqua tiepida, ottenendo una pastella molle che farete lievitare di nuovo, coperta con un panno, per una notte intera. Se il mattino seguente noterete sulla superficie dell'impasto delle bolle, questo è il segno che la lievitazione ha avuto buon esito.
Lavorate questo primo impasto aggiungendo circa 700 g di farina, 3 cucchiai di miele, 2 cucchiaini di sale e 300 g di latte, impastando a lungo, come descritto. Modellate infine due pagnotte rotonde (o, se preferite, vari panini più piccoli) e lasciate lievitare sulla piastra del forno appena tiepido e con lo sportello socchiuso, finché le loro dimensioni saranno raddoppiate. Sarà necessario, come spiegato precedentemente, più tempo di quello utilizzato per la pasta normale, ma il risultato sarà ugualmente e gratificante.
Preriscaldate il forno a 200°C circa e fate cuocere il pane per circa mezz'ora, dopodiché abbassate il calore a 190°C, e continuate la cottura finché le pagnotte appariranno dorate in modo uniforme. Se, dopo la prima volta, vorrete fare altro pane, conservate un po' del primo impasto in frigorifero, in un vasetto di marmellata a chiusura ermetica. Dovrebbe conservarsi pronto all'uso per almeno una settimana.
La farina che meglio si presta a questo tipo di limitazione è quella di segale, perché è già naturalmente acida, ma anche con la farina 00 si possono ottenere risultati soddisfacenti.
3. Il malto e lo zucchero
- Il malto
Il malto, ottenuto dalla germinazione e dal successivo essiccamento e macinazione dell'orzo, contiene una sostanza molto importante in panificazione ed è quindi un "additivo" utile: si tratta della diastasi, un enzima capace di trasformare l'amido della farina in zuccheri direttamente utilizzabili dai lieviti della fermentazione.
In pratica, aggiungendo agli impasti piccole quantità di malto, si aumenta la disponibilità di nutrimento per il lievito che, quindi, può svolgere meglio la sua azione.
Inoltre, l'aggiunta di malto favorisce la formazione di una crosta di colore gradevole e uniformemente dorata sul pane, che presenta ottimi caratteri organolettici e un più alto valore nutritivo.
C'è grande differenza tra lo zucchero e il malto. Il primo serve a ben poco, solo a togliere il sapore di lievito funzionando come attivatore, mentre il malto contiene lo zucchero maltosio, che assolve a questa funzione e in più apporta enzimi amilasi, che sono quelli che trasformano l'ambito in glucosio, utilizzato a sua volta dagli enzimi zimasi (contenuti nel lievito) per produrre alcol etilico e anidride carbonica, da cui la lievitazione.
La funzione del malto, oltre a influire sul busto e sul colore della crosta, è quindi fornire un nutrimento costante ai lieviti durante tutta la lievitazione.
Il malto migliore è, chiaramente, quello che contiene più amilasi e cioè il malto d'orzo in soluzione concentrata: si presenta come il miele, ma più scuro (nella foto) e va aggiunto agli impasti in ragione dello 0,5-1%.
Bisogna distinguere tra malto d'orzo e malto di frumento. Il primo è adatto a chi mostra intolleranza al glutine ed essendo un ingrediente poco utilizzato, lo potete trovare, in polvere o in pasta, presso i mulini o nei negozi di prodotti biologici.
Aiuta anche la parte finale della fermentazione in fase di cottura. - Lo zucchero
L'industriale alimentare ci ha ormai "drogato", abituando il nostro palato a cibi sapidi e ricchi di zucchero che subito attraggono il gusto smorzando qualsiasi altro tipo di desiderio. Lo zucchero è presente ovunque nei cibi confezionati, anche in quelli in cui non ne presupporremo la necessità.
Lo zucchero è di per sé energia allo stato puro che, se non consumata nell'immediato, si accumula sotto forma di grasso nei tessuti predisposti, cioè adiposi, nelle vene e attorno al fegato.
Inoltre lo zucchero porta a uno scompenso del pancreas che viene messo sotto sforzo per produrre l'insulina necessaria a farlo utilizzare dalle cellule. Un consumo eccessivo e a lungo di zuccheri può causare il diabete e porta a problemi di carie dentaria.
Inoltre l'introduzione di tante calorie nell'organismo va a discapito del consumo di cibi che, oltre che di zuccheri, sono anche ricchi di altri elementi preziosi di nutrizione. Consideriamo poi che tale alimento deriva da una serie numerosa e complicata di elaborazioni della canna da zucchero o della barbabietola da zucchero (si va dalla depurazione con calce alla lavorazione con zolfo per decolorarne lo sciroppo, alla colorazione con blu oltremare per eliminare i riflessi giallognoli!).
A niente vale la pratica di utilizzare zucchero grezzo perché, anche se in maniera minore, è anch'esso sottoposto a tali e tanti procedimenti di lavorazione industriale da risultare comunque un alimento falso e dannoso.
Pertanto si consiglia, laddove è possibile, l'utilizzo di dolcificanti naturali quali il miele o lo sciroppo d'acero. Nella panificazione questo è possibile, dato che lo zucchero costituisce un ingrediente utilizzato per fare sviluppare il lieviti.
4. Il sale e l'acqua
- Il sale
Un consiglio sempre valido in cucina, non soltanto per la preparazione del pane, è l'utilizzo del sale marino integrale.
Chi credesse che il sale che comunemente viene venduto provenga dalle saline e sia quindi il residuo della evaporazione dell'acqua marina, si deve ben ricredere.
Il sale commerciale è ottenuto con una serie di lavature industriali che impoveriscono questo ingrediente di minerali e metalli, altrimenti ritenuti "nocivi".
E' invece buona norma alimentare, sostituire il sale commerciale con sale marino integrale (lo si può trovare nei negozi biologici senza alcun problema, in grana grossa o macinato fine) che apportano all'organismo la giusta quantità di oligoelementi, utili ai vari processi vitali in diversi modi e per diverse funzioni.
Un consiglio prezioso è quello di aggiungere il sale a fine dell'impasto evitare che blocchi la lievitazione, in quanto potente antibatterico, e nemico anche dei saccaromiceti.
Il sale ha anche altre funzioni all'interno dell'impasto: serve come disinfettante contro una eccessiva proliferazione batterica, aumenta la qualità del glutine, rendendo l'impasto più lavorabile e più croccante della crosta. Se nell'impasto vi fosse sfuggito troppo sale, potete rimediare, limitatamente, con l'aggiunta di latte.
Attenzione all'utilizzo eccessivo che oggigiorno si fa del sale, considerato che non è più un elemento così raro e soprattutto prezioso per la conservazione dei cibi. Non incappiamo pertanto nei rischi dell'ipertensione arteriosa che causa, oltre a un irrigidimento delle arterie, anche una forte ritenzione idrica con conseguenze pericolose per reni, sistema circolatorio e cardiaco.
Il consumo medio giornaliero non dovrebbe superare i 5 g, considerando non soltanto il sale che mettiamo a condimento dei nostri piatti, ma anche quello che c'è nascosto nei preparati alimentari industriali. Finiamo per riscoprire pertanto il sapore naturale dei cibi, dimenticando, di tanto in tanto, la necessità di modificarli con la salatura. - L'acqua
Per un buon impasto, vi consigliamo di utilizzare l'acqua dell'acquedotto, perché necessariamente contenente il cloro che farebbe morire il lieviti. Meglio, se ne avete la possibilità, usare l'acqua di fonte non contaminata.
La temperatura a cui dovrà essere tenuta è di circa 25 °C perché i lieviti sono attivi dai 20 ai 30°C. Se ci si trova a dover usare acqua di acquedotto, meglio farla bollire per eliminare il cloro e i sali di calcio.
5. Grassi vegetali e animali
I grassi sono sostanze alimentari costituite da lipidi che servono all'organismo per il loro apporto calorico, per l'assorbimento delle vitamine liposolubili e perché hanno una funzione strutturale nei confronti di alcune parti del corpo che fungono da isolante.
Si possono suddividere in grassi di origine animale e quelli di origine vegetale. I primi sono costituiti prevalentemente da acidi grassi saturi, i secondi da acidi grassi monoinsaturi o polinsaturi.
- Gli acidi grassi saturi tendono a elevare il colesterolo nel sangue, contribuendo alla creazione di problemi cardiocircolatori.
- I grassi polinsaturi invece, tendono ad abbassare la colesterolemia.
- Al contrario i grassi monoinsaturi, pur non avendo conseguenze rilevanti sul tasso di colesterolo nel sangue, aumentano la presenza di alcune proteine, dette HDL, che sono in grado di impedire la deposizione di colesterolo sulla parete interna dei vasi sanguigni e permetterne quindi la naturale eliminazione.
Oltre nei normali condimenti grassi, acquisiamo grassi attraverso l'utilizzo di cibi che contengono notevoli quantità di grasso nascoste: in particolare, in un regime di dieta vegetariano, i semi oleosi (noci, mandorle, nocciole, pinoli, arachidi, olive, ecc.), i legumi, le uova, il latte e formaggi.
I grassi maggiormente utilizzati in cucina sono il burro e l'olio:
- Per quanto riguarda il burro, ne consigliamo un uso limitato, dato l'alto apporto calorico e la presenza consistente di colesterolo. Per ovviare a questo problema possiamo ricorrere al burro chiarificato o ghee.
Il burro chiarificato si deve utilizzare in tutte quelle preparazioni dove bisogna friggere con il burro. Conferisce ai cibi un caratteristico sapore acidulo e durante la cottura non brucia. Può inoltre essere profumato con erbe aromatiche e se ne usa in quantità minori rispetto al burro normale.
Per prepararlo: fate sciogliere 3 hg di burro in un tegame e, dopo la fusione, che dovrà avvenire lentamente a fiamma media, schiumate il burro della schiuma che si verrà a creare in superficie con l'aiuto di un mestolo forato.
Abbassate il fuoco per mantenere il burro in fusione senza bruciacchiarlo e man mano togliete le impurità che si formano in superficie, fino a ottenere un liquido color ambra e limpido. La preparazione varia dall'ora e mezza alle due ore. Si conserva in frigorifero per molto tempo. - Per quanto riguarda l'olio, la sua composizione è più equilibrata con circa il 20% di grassi saturi, il 10% di grassi polinsaturi e la rimanente percentuale di acido oleico, un acido grasso monoinsaturo, particolarmente resistente alle aggressioni di luce, ossigeno e calore.
E' inoltre ricco di vitamina A e E ma si altera facilmente se cotto, pertanto il suo uso consigliabile è crudo. Si consiglia inoltre vivamente di utilizzare soltanto olio extravergine di oliva spremuto a freddo, cioè ottenuto secondo una procedura che ne garantisce la massima ricchezza e la minima acidità, conservando intatte le virtù delle olive, l'aroma e il sapore di questo prezioso condimento, così tipico della dieta mediterranea.
I grassi, se aggiunti in quantità limitata (max 30% rispetto alla farina), migliorano il gusto, rendendo l'impasto più malleabile e prolungandone la freschezza. Hanno però il difetto di rallentare la fermentazione e - se aggiunti in quantità esagerata - addirittura di inattivarla.
Proprio per questo, nel caso di ricette particolarmente ricche di grassi e zucchero, questi devono essere aggiunti in fasi successive, intervallate da altrettante fermentazioni.
Particolare importanza ha la funzione dell'olio nell'impasto della pizza cotta nel forno di casa.
I tempi di cottura, rispetto a un forno da pizzeria, sono più lunghi, per cui è facile correre il rischio di un'eccessiva asciugatura dell'impasto che, a cottura ultimata, risulterebbe troppo secco. In questo caso, usare dell'olio può aiutare a migliorare il risultato in quanto funge da pellicola impermeabile che rallenta l'evaporazione dei liquidi.