Soldi, potere e vendetta, ma anche strenna difesa di ideali e amore incondizionato per qualcuno.
Queste le ragioni che, dall’Antico Egitto alla Grande Guerra, dall’Europa all’America e dall’Asia all’Africa, hanno spinto a tradimento principi, cortigiani, generali, uomini politici e persino schiavi, ingannando e deludendo chi, in queste persone aveva invece riposto la propria fiducia.
Oggi abbiamo scelto cinque storie, protagonisti delle quali sono individui le cui vite hanno spesso avuto un epilogo drammatico, favorito talvolta persino dai loro stessi complici.
Eppure, neanche la morte è riuscita a cancellare la memoria della loro infedeltà a una causa o alla patria, tanto che un marchio di infamia continua a perseguitarli dopo secoli ho decenni dalla loro scomparsa.
Spinti da ideali o da egoismi personali, uomini e donne hanno violato la fiducia di collaboratori, protettori, sovrani, amanti.
Vi raccontiamo le azioni di 5 di loro (della regina egiziana Tiye, di Olimpiade, la madre di Alessandro Magno, di Marco Giunio Bruto, il cesaricida, di Alessio IV Angelo e di La Malinche, l’indigena che distrusse l’impero azteco).
1. La regina Tiye e la congiura dell'harem
Nel 2012, un team composto da un egittologo, Zahi Hawass, dai genetisti della Università di Tubinga e dai paleopatologi dell’Accademia Europea di Bolzano ha dichiarato che il faraone Ramesse III, uno dei più celebri regnanti della XX dinastia, è stato sgozzato mentre era ancora in vita.
Grazie a una TAC, infatti, è stato possibile rivelare sotto le bende che avvolgono la gola della mummia, proveniente dalla necropoli tebana di Deir- el-Bahari, una profonda ferita inferta da una lama.
Ma chi ha ucciso il monarca? Sembra che ormai non ci siano quasi più dubbi: il colpevole sarebbe l’intrigante regina Tiye, istigatrice di una congiura le cui trame sono narrate nel cosiddetto “Papiro Giuridico” del Museo Egizio di Torino.
Non si sa molto della vita di Tiye. La donna, una delle spose di Ramesse III, vive confinata nell’harem del palazzo accanto alle altre mogli del sovrano e ai loro numerosi figli: nessuna di esse, tuttavia, ricopre il ruolo di Grande Sposa del faraone.
Quando Ramesse fa però intendere di voler lasciare le redini del regno alla prole avuta dalla regina Iside, Tiye, assetata di potere, decide di ribellarsi alla volontà del marito. La sua ambizione è quella di eliminare Ramesse e porre sul trono il figlio Pentauret.
Agendo nell’ombra, la donna riesce a coinvolgere in una congiura sei concubine dell’harem (una delle quali in combutta con il fratello Bin-em-Waset, capitano del corpo degli arcieri stanziati in Nubia), sei ispettori e le rispettive spose e due scribi della cancelleria reale.
Sono della partita persino eminenti personaggi assai vicini al sovrano, tra cui il mago di corte Prekamenef, che ha l’incarico di recitare incantesimi di magia nera per la buona riuscita del delitto e per fiaccare il vigore delle guardie reali, e il capo della Camera Pebekkamen, a cui è demandato il compito di fomentare una rivolta popolare e diffondere le decisioni prese all’interno dell’harem, vero e proprio cuore della cospirazione.
Tiye e i suoi complici agiscono a Tebe nell’anno 1156 a.C., l’ultimo del regno di Ramesse, che molto probabilmente cade proprio sotto i coltelli dei congiurati. Mente dell’oscuro complotto, Tiye riuscirà ad assassinare il faraone, ma non coronerà mai il sogno di vedere Pentauret sul trono.
E infatti Ramesse IV, figlio di Iside, a prendere il potere e a diventare il nuovo monarca; ed è sempre lui che, con estrema durezza, vendica la morte del padre, come rivelato dal “Papiro Giuridico” redatto sotto il suo regno, dal quale si apprendono, oltre ai dettagli della vicenda, anche le pene inflitte ai congiurati.
Alla fine del processo, delle ventotto persone coinvolte nel complotto diciassette sono riconosciute colpevoli di tradimento e condannate a morte. Si ignora la sorte riservata a Tiye, l’istigatrice della cospirazione, mentre è documentata la fine violenta di suo figlio Pentauret.
Al giovane, membro della famiglia reale, viene riservato un trattamento di favore: i giudici, infatti, gli accordano il privilegio di suicidarsi, probabilmente tramite impiccagione.
La mummia del figlio del faraone, forse, è stata anche ritrovata: si tratta del corpo di un uomo di 18-20 anni, imbalsamato in gran fretta senza aver praticato la fondamentale rimozione degli organi interni.
Il cadavere, inoltre, presenta una sospetta piegatura sul collo e il suo materiale genetico corrisponde per il 50 per cento a quello estratto dal corpo di Ramesse III. Per essere certi che la mummia sia quella di Pentauret bisognerebbe analizzare anche quella della regina Tiye, che, tuttavia, non è mai stato rinvenuta.
2. Olimpiade, la velenosa serpe d'Epiro
Nel 336 a.C. a Pella, capitale del regno di Macedonia, nel pieno delle celebrazioni per le nozze della principessa Cleopatra, il re Filippo II, padre della sposa, è pugnalato a morte.
L’attentatore, il nobile Pausania, membro della guardia del corpo del sovrano, viene raggiunto mentre tenta la fuga e immediatamente trafitto dalle spade dei soldati macedoni.
Malgrado i molti misteri che ancora avvolgono la vicenda, sembra plausibile attribuire il delitto a un potente e terribile personaggio della corte, la vendicativa Olimpiade, moglie del monarca. Non a caso sarà proprio lei, unica in tutto il regno, a rendere onori funebri al regicida, innalzando un sepolcro in sua memoria.
Figlia dei sovrani d’Epiro, Olimpiade nasce attorno al 375 in una regione culturalmente ancora barbarica, ma strategicamente assai rilevante, tanto che Filippo II, fautore di un ambizioso progetto espansionistico della Macedonia, chiede la principessa epirota in moglie.
Così, nel 357 a.C., sebbene già coniugato con numerose altre donne, Filippo sposa Olimpiade. Bella, passionale, sanguigna, la principessa introduce a Pella le ancestrali e truculente pratiche religiose del Paese natale, incuriosendo e affascinando Filippo, che la innalza ben presto al rango di sposa prediletta.
Dal re Olimpiade ha due figli, Alessandro e Cleopatra, entrambi legatissimi alla madre. Grazie alle nozze con lei, Filippo può reclamare l’Epiro come un suo possedimento e, nel 342, caccia il legittimo sovrano per assumere il pieno controllo della regione.
Padrone di un regno vastissimo, il re macedone non è però sazio di conquiste e continua a stringere matrimoni di interesse per accrescere il suo potere, minando sempre più il rapporto con la moglie epirota.
Quando nel 337 sposa Euridice, nipote di uno dei suoi più fidati consiglieri, Attalo, la rottura con Olimpiade è definitiva. Durante il banchetto di nozze, inoltre, lo zio della sposa si lascia andare a una battuta infelice, augurando alla coppia di generare un erede legittimo.
Alessandro, furente per l’implicita accusa di essere un bastardo indegno del trono, si scaglia contro Attalo, che viene però difeso da Filippo, il quale, accecato dai fumi del vino, tenta invano di colpire il giovane con un pugnale.
Dopo il triste episodio, Alessandro e la madre, umiliati per l’affronto pubblicamente subito, abbandonano Pella per trasferirsi in Epiro. Ancora amareggiata, Olimpiade non prende parte ai festeggiamenti per le nozze della figlia Cleopatra, che sposa il fratello della regina Alessandro il Molosso.
A uccidere Filippo durante i festeggiamenti è Pausania, un uomo divorato dalla rabbia nei confronti del re: come racconta infatti lo storico Diodoro Siculo, dopo essere rimasto vittima di una torbida vicenda di stupro, Pausania avrebbe chiesto giustizia a Filippo, che gliel’avrebbe negata.
Ma l’omicidio del monarca può ridursi effettivamente al risentimento di un cortigiano oppure nasconde, in realtà, la vendetta di Olimpiade, come suggerisce lo scrittore romano Giustino, segnalando che la donna “consacrò ad Apollo (...) il pugnale con cui era stato ucciso Filippo, tanto sembrava desiderosa di far vedere a tutti che l’assassinio del marito era stata opera sua”?
Certo, scomparso Filippo, a ottenere la corona è proprio l’amato figlio di Olimpiade, Alessandro, il quale, presente il giorno dell’omicidio, si proclama sovrano, eliminando con la complicità della madre nemici e possibili pretendenti al trono: i primi a cadere sono Attalo ed Euridice.
Dopo la partenza per l’Oriente del giovane re, destinato a ricoprirsi di gloria al punto da diventare il leggendario Alessandro Magno, Olimpiade, insaziabile di potere, continua a intrigare, scontrandosi con il generale Antipatro, che suo figlio ha nominato reggente di Macedonia.
La vita di una sovrana così impetuosa non può che finire nella maniera più tragica: nel 316 a.C., dopo aver fatto assassinare centinaia di persone fedeli ad Antipatro, Olimpiade viene giustiziata dai suoi avversari politici.
3. Marco Giunio Bruto, il cesaricida
Nell’anno 42 a.C. infuria la guerra civile tra gli eredi e i sostenitori di Cesare e i suoi assassini, dichiarati nemici pubblici.
Per Bruto, uno dei principali cospiratori, l’atto finale si svolge a Filippi, in Macedonia.
Narra lo storico Plutarco che, alla vigilia della battaglia, Bruto abbia ricevuto la visita di uno spettro: “Chi sei tu? Da dove vieni?”, domanda il cesaricida. “Sono il tuo cattivo demone, Bruto. Ci rivedremo a Filippi” è la profetica risposta. L’indomani, sconfitto in battaglia. Bruto si uccide.
“Mater semper certa est”: nessun detto, meglio di questo, si addice a Marco Giunio Bruto, figlio della nobildonna Servilia e di un uomo di cui tutt’oggi si ignora l’identità. Bruto viene alla luce a Roma, tra il 79 e il 78 avanti Cristo.
Bella, focosa e intelligente, Servilia sposa il tribuno della plebe Marco Giunio Bruto, ma si innamora presto del giovane e valente soldato Caio Giulio Cesare. La relazione tra Servilia e Cesare durerà più di trent’anni e si concluderà solo con la morte del dittatore.
Entrambi gli amanti sono passionali, molto astuti e schierati dalla parte del partito dei populares, la fazione che sosteneva la plebe, sebbene discendenti da antiche famiglie patrizie.
Come scrive Plutarco, Cesare “aveva una qualche ragione di credere che Bruto, nato all’incirca nel periodo in cui ardeva la passione della donna, fosse suo figlio”. E proprio come un figlio Cesare tratterà Bruto.
Dal canto suo quest’ultimo, timido, riservato e tutto dedito agli studi di filosofia, si lascia influenzare dall’intransigente zio Catone, fratellastro di Servilia, testardamente conservatore e avverso a Cesare.
Sotto la sua ala protettiva, Bruto inizia la carriera politica: nel 58 è a Cipro, amministratore delle proprietà dell’isola, mentre quattro anni dopo, nominato triumviro monetale, ribadisce la sua fede repubblicana facendo coniare denari con l’immagine di due tirannicidi suoi antenati.
Nel frattempo, i successi militari di Cesare, il suo crescente prestigio e l’accumulo di cariche, se da una parte eccitano e rendono orgogliosa Servilia, dall’altra preoccupano i conservatori, tra cui lo stesso Bruto.
Quando, nel 49 a.C., scoppia la guerra civile, Bruto si schiera dalla parte dei tradizionalisti guidati da Pompeo. Sconvolta dalla decisione del figlio, Servilia chiede a Cesare la clemenza per Bruto; lui acconsente.
All’indomani della battaglia di Farsalo, Bruto si prostra ai piedi di Cesare, che non solo lo perdona, ma gli assegna anche incarichi politici di prestigio: il governatorato della Gallia Cisalpina e la carica di prefetto urbano.
A riaccendere però i fermenti repubblicani di Bruto sono la tragica morte di Catone, suicida a Utica, e le parole di Cicerone, uno dei maggiori esponenti del partito tradizionalista.
Nel gennaio del 44 a.C. Cesare è nominato dittatore perpetuo: appare ormai chiaro che “la repubblica e un fantasma senza corpo”, per usare un’espressione attribuita a Cesare. È giunto il momento di abbattere il tiranno.
A capo della congiura, accanto al pretore Cassio Longino, c’è Bruto. “Anche tu, figlio?”, avrebbe detto Cesare, agonizzante, riconoscendo tra i suoi assassini proprio lui, il figlio dell’amata Servilia, se non addirittura sangue del suo sangue.
All’indomani della morte del dittatore, Roma precipita nel caos e i cesaricidi sono costretti a fuggire. La guerra civile è inevitabile. Asserragliatisi a Filippi, nell’ottobre del 42 a.C. Bruto e Cassio, sconfitti dal triumviro Marco Antonio, si danno entrambi la morte.
Il corpo di Bruto, cremato, viene portato a Roma, a Servilia, che non cesserà, fino alla fine dei suoi giorni, di piangere l’ingratitudine del figlio. La testa del cesaricida, invece, per volere di Ottavio, figlio adottivo ed erede di Cesare, è deposta sotto la statua del dittatore, a memoria del turpe assassinio da lui perpetrato.
4. Alessio IV Angelo e la caduta di Bisanzio
"Sfasciarono le sacre immagini e gettarono le sacre reliquie dei martiri in luoghi che ho vergogna a nominare, spargendo ovunque il corpo e il sangue del Salvatore (...).
Sul trono del patriarca fu fatta sedere una prostituta per insultare Gesù Cristo (...).
Nè ci fu pietà per le matrone virtuose, per le fanciulle innocenti e neppure per le vergini consacrate a Dio”!
Testimone oculare della conquista di Bisanzio del 1204, con queste parole lo storico Niceta Coniata parla non di un’invasione di barbari pagani, bensì del saccheggio compiuto dai crociati, i cristiani d’Occidente.
Ma, ironia della sorte, a provocare il sacco dell’antica Costantinopoli è stato proprio un bizantino, Alessio Angelo, un giovane principe assetato di vendetta.
Alessio nasce attorno al 1182 in un’epoca assai difficile per Bisanzio, sfiancata dalla guerra civile, dai repentini rovesciamenti di potere e dalla brama di terre dei Normanni e, soprattutto, dei Saraceni, che nel 1187 conquistano Gerusalemme, la culla della cristianità.
Il padre di Alessio, Isacco II Angelo, salito al trono nel 1185, ha ereditato, oltre al manto e ai calzari purpurei del basileus (imperatore), anche un regno sull’orlo della rovina. Dieci anni dopo la sua ascesa, Isacco è rovesciato dal fratello maggiore che, proclamatosi sovrano con il nome di Alessio III, lo fa accecare e imprigionare.
Alessio Angelo, risparmiato in virtù della sua giovane età, non ci mette molto a capire che non si può fidare di quello zio crudele e imprevidente e che la sua stessa vita è in pericolo; così, approfittando di una sommossa, fugge nottetempo da Bisanzio e raggiunge la Germania, su cui regna sua sorella Irene, sposa di Filippo di Svevia.
E' la regina a perorare la causa di Alessio presso il marito, il quale, nel 1203, comunica ai veneziani e ai principi d’Occidente, da poco salpati per intraprendere una spedizione per strappare Gerusalemme agli infedeli, l’allettante proposta del principe bizantino: se aiuteranno lui e suo padre Isacco a riconquistare il trono, egli si farà carico di pagare l’enorme debito contratto dai crociati con Venezia per equipaggiarsi in vista della partenza.
Il giovane, inoltre, paventa la possibilità di far ricongiungere le Chiese d’Oriente e Occidente, divise da uno scisma da quasi centocinquant’anni.
Messi da parte scrupoli morali e religiosi - l’imperatore di Bisanzio, infatti, è pur sempre un cristiano -, i veneziani e i principi occidentali, desiderosi di denaro, accolgono l’offerta di Alessio. Il nemico, adesso, non è più l’infedele musulmano, ma il sovrano bizantino Alessio III: la Quarta crociata si è mutata in una guerra fratricida.
Nell’estate 1203 i crociati assaltano Bisanzio e Alessio III si dà alla fuga. Isacco, che da anni giace dimenticato in una prigione, viene liberato e posto sul trono, ma, logorato dalla lunga detenzione, non ha la forza di comandare e decide di associare all’impero il figlio, che viene acclamato con il nome di Alessio IV.
La soddisfazione di aver raggiunto il soglio imperiale, tuttavia, si tramuta in amarezza per il giovane sovrano quando si rende conto che le casse del Tesoro, rapacemente razziate da Alessio III, sono vuote.
Impossibilitato a rispettare la promessa fatta ai veneziani e ai crociati, l’imperatore, maledicendo la sua brama di potere, inizia a pretendere esose tasse dai sudditi, rendendosi in tal modo assai impopolare.
Nel gennaio 1204, a pochi mesi dalla sua ascesa, Alessio IV viene deposto e strangolato dietro ordine del cortigiano Alessio Murzuflo, proclamatosi nuovo imperatore.
Malgrado il rovesciamento di potere al vertice, la gravosa eredità del sovrano traditore tormenterà anche il successore Murzuflo, il quale, rifiutandosi di pagare la somma pattuita da Alessio, scatenerà inevitabilmente una guerra tra greci e crociati.
Il 12 aprile 1204, dopo nove secoli di gloriosa indipendenza, Bisanzio viene invasa e saccheggiata.
5. La Malinche, l'indigena che distrusse l'impero azteco
"Sapevo cosa significava prestare fede alle vostre false promesse Malinche; sapevo che mi avevate condannato a tale destino fin da quando non mi detti la morte di mia mano, nel momento in cui entraste nella mia città”.
A parlare è l'ultimo imperatore azteco, Guatimozino, condannato a morte dagli spagnoli nel 1525, qualche anno dopo la conquista della capitale del regno Tenochtitlàn.
Le ultime, aspre parole del sovrano sono rivolte a lei, La Malinche, schiava azteca, amante e interprete del conquistador Hernàn Cortés. Ancora oggi i giudizi degli studiosi su questo enigmatico personaggio sono contrastanti.
Se c’è chi venera La Malinche come Madre del Messico, c’è anche chi la bolla come una traditrice del suo popolo, tanto che, nella lingua popolare messicana, "malinchismo" designa proprio il tradimento.
La Malinche nasce in una nobile famiglia azteca attorno al 1503, nella zona dell'attuale città di Acayucan. Suo padre muore prematuramente e la vedova, Cimatl, risposatasi e divenuta madre di un figlio maschio, per evitare che l’eredità di famiglia venga divisa, decide di ridurre in schiavitù la prole avuta dalla prima unione.
Sarà La Malinche, anni dopo, a raccontare la triste storia a Cortes. La giovane viene così venduta a un capo maya, ma quando, nel 1519, Cortes conquista la città di Potonchàn, esibendo la sua intenzione di proseguire la marcia, La Malinche, insieme ad altre diciannove ragazze, viene donata come segno di pace agli spagnoli, che la battezzano con il nome cristiano di Marina.
Il portamento della fanciulla, la sua intelligenza, la sua bellezza e la sua spavalderia attirano presto le attenzioni di Cortes, il quale intuisce che Marina è in grado di parlare sia la lingua nahuatl, quella del popolo azteco, sia l’idioma dei Maya: inizia così la carriera di Marina come interprete.
La donna segue Hernàn Cortes ovunque, comunicando e trattando con gli indios in nome del conquistadores. La sua dedizione è totale e il ruolo che svolge è fondamentale negli anni della conquista che, culminata con la presa di Tenochtitlàn nel luglio 1521, prosegue con l’esplorazione e la sottomissione del Messico.
Soggiogato dal fascino di Marina, dalla quale ha anche un figlio di nome Martin, Cortes ascolta con attenzione tutto ciò che la giovane ha da raccontare sugli usi e i costumi locali, sulle immense ricchezze custodite dal re Montezuma, sulla truce religione azteca, che contempla cannibalismo, sodomia e sacrificio umano.
Dal canto suo Marina, che si è sempre servita di frate Aguilar, interprete spagnolo, per parlare con Cortes, inizia ad apprendere anche la lingua iberica, rendendo i suoi servigi assolutamente indispensabili; il prestigio di Marina sale alle stelle, soprattutto dopo che, nell’ottobre 1519, riesce a sventare un complotto ordito dagli indigeni ai danni di Cortés.
Al popolo azteco Marina presenta gli europei come divinità portatrici di pace e benessere e di una nuova, salvifica religione. Morto Montezuma e diventato sovrano, Guatimozino si ribella a Cortes, che assedia la sua capitale e lo fa prigioniero.
Negli anni che seguirono la caduta di Tenochtitlàn, Marina continua a seguire gli spagnoli nelle loro esplorazioni; l’ultima a cui prende parte è quella nell'Honduras del 1524- 1526, durante la quale viene ceduta da Hernàn Cortés al capitano Jaramillo.
Da questo momento il nome dell’interprete azteca scompare dalle cronache. Ritiratasi a vita privata nelle terre d’origine, Marina trascorre gli ultimi anni nel rispetto e nell’agiatezza, grazie alle immense ricchezze donatele da Cortés.