Di recente Mark Zuckerberg, uno dei fondatori di Facebook, ha affermato che un giorno riusciremo ad aggiornare la nostra lista di amici con la mente.
Ma gli scienziati sono già in grado di decifrare il nostro cervello.
Ecco come.
1. Leggere il pensiero
Pensate a una serie di tipiche scene da film:
1. Il testimone oculare di un crimine osserva esitante una fila di volti inespressivi, tentando di identificare il colpevole.
2. Un uomo sotto processo si rivolge alla giuria dal banco degli imputati: “Non sono stato io, dovete credermi!”.
3. Una vittima urla: “Va bene, parlo!” mentre qualche orribile strumento di tortura viene applicato al suo corpo.
Ora provate a immaginare questi tre personaggi sottoposti a scanner cerebrale.
Accanto alla loro testa c’è uno schermo sul quale lentamente si forma un'immagine: dapprima è sfocata, ma pian piano si delinea mostrando magari un volto, o una sequenza di parole. Lo scanner sta leggendo il pensiero del personaggio e mostrando i risultati della lettura.
La seconda delle due scene che avete immaginato è stata per molto tempo tipica dei film di fantascienza, ma negli ultimi anni la “lettura del pensiero” tramite analisi del cervello sta diventando sempre più una realtà.
Di recente ricercatori americani e tedeschi sono stati in grado di trascrivere un discorso comunicato da un paziente mentre veniva sottoposto a chirurgia cerebrale, mediante interpretazione degli schemi elettrici generati dal suo cervello.
Questo esperimento “da cervello a testo” è la più recente dimostrazione che la neurotelepatia - comprendere cosa sta sperimentando una persona solo con la lettura della sua attività cerebrale - è una realtà.
L’anno scorso un team di ricercatori di Yale è riuscito a produrre ricostruzioni digitali di visi osservati da alcuni pazienti mentre si trovavano all’interno di una macchina per la risonanza magnetica funzionale
Anche questa volta le immagini derivavano dall’attività elettrica in atto nel cervello dei soggetti e dagli esiti pubblicati si evince che i volti ricostruiti sono riconoscibili quanto quelli ottenuti con un tradizionale procedimento di fotofit (usato per ottenere identikit assemblando parti di foto diverse), se non addirittura di più.
Marvin Chun, che ha condotto lo studio nel suo laboratorio a Yale, dice di avere finalmente una risposta alla domanda che tante persone gli fanno quando scoprono che è uno psicologo:
"Di solito mi chiedono se sono in grado di sapere che cosa c’è nella loro mente. Ora posso rispondere di sì, se accettano di farsi infilare in uno scanner”.
Per il momento, comunque, c’è un limite alla nostra capacità di leggere nel pensiero. Alan Cowen, il dottorando di Yale che ha proposto l’esperimento, sottolinea che i soggetti esaminati stavano tentando attivamente di trasmettere le informazioni che sono state recepite:
“Possiamo leggere solo le sezioni attive del cervello. I ricordi passivi per noi sono irraggiungibili, se prima non chiediamo al soggetto di richiamarli attivamente alla memoria. È solo questione di tempo: forse tra 200 anni avremo una tecnologia capace di leggere anche le parti inattive del cervello. Ma per ora queste ultime rappresentano una sfida molto più complessa, che implicherebbe l’analisi di dettagli minuti del cervello che ancora comprendiamo pochissimo".
2. Pensieri privati
Tutto ciò comunque non è particolarmente rispettoso del concetto di privacy, perché non siamo sempre noi a controllare quali parti del nostro cervello sono attive in un determinato momento.
In uno studio ancor più spettacolare avvenuto nel 2013, un team di ricercatori giapponesi è stato in grado di riprodurre i sogni dei volontari: la loro attività cerebrale è stata registrata e poi trasformata in un video di quel che hanno sperimentato durante la toro fase di sonno REM.
I “film" che ne sono usciti erano più dettagliati degli stessi ricordi che i soggetti avevano dei loro sogni.
La neurotelepatia è possibile perché la localizzazione delle varie attività nel cervello è piuttosto omogenea negli esseri umani: in quasi tutte le persone che vedono un volto si attiva un'area situata nell'emisfero sinistro del cervello subito dietro l’orecchio.
Guardare un oggetto inanimato attiva invece un’area diversa. I pensieri allegri attivano aree differenti da quelli tristi. Dire ad alta voce “Aaah!” coinvolge neuroni diversi dal dire “Eeeh!”. Ovviamente esistono anche delle differenze tra gli individui.
Se due persone sentono la parola “luna", i loro cervelli non hanno risposte identiche: in uno, per esempio, la parola potrebbe evocare immagini di astronauti, mentre nell’altro potrebbe richiamare un’associazione con il formaggio con i buchi.
Ma l’attività cerebrale connessa al sentire i suoni che compongono la parola e all'immaginare un disco argenteo sarebbero comuni a entrambi i soggetti.
Se si potesse costruire una banca dati sufficientemente vasta, che contenesse tutte le risposte che i diversi cervelli danno agli stessi stimoli, si potrebbe arrivare a identificare un “marcatore" riconoscibile per ogni singolo stimolo.
Uno dei primi studi capaci di dimostrare che questo metodo funziona è stato condotto al MIT nel 2000 dal team della professoressa Nancy Kanwisher (una psicologa del Massachusetts Institute of Technology), e consisteva nel mostrare ai volontari alcune immagini mentre i loro cervelli venivano esaminati con uno scanner.
“Anche solo con un esame sommario dei risultati”, dice la studiosa, “siamo stati capaci di determinare se i soggetti stavano immaginando un volto o un luogo con una precisione dell’80 per cento.
Prima di pubblicare i risultati ho temuto a lungo che la gente avrebbe pensato che si potesse usare la risonanza magnetica per leggere nel pensiero, fraintendendo il fatto che il nostro esperimento era possibile solo in una condizione specifica e ben circoscritta.
Abbiamo usato volti e luoghi proprio perché sapevamo con precisione quali aree del cervello processano queste due categorie di informazione, e scelto volontari che avevano una buona capacità di immaginazione e partecipavano attivamente all’esperimento. Ma la gente lo avrebbe capito?
Di certo, mi dicevo, nessuno si sarebbe messo in testa di usare la risonanza magnetica funzionale per tentare di leggere nella mente delle persone”.
E invece, ovviamente, le persone lo hanno fatto. “Sono convinto che un giorno saremo in grado di inviarci direttamente l’un l’altro pensieri completi e dettagliati con il solo uso della tecnologia”, ha recentemente affermato l’amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg.
"Potremo pensare a qualcosa e i nostri amici saranno subito in grado di farne esperienza con noi”. Chiaro che nella pratica c’è un abisso tra il sogno di Zuckerberg e gli studi oggi in corso.
L’esperimento “da cervello a testo”, per esempio, richiede di collegare degli elettrodi direttamente al cervello del soggetto durante un intervento chirurgico, mentre lo studio di Yale sul riconoscimento dei volti comporta un enorme progetto di ricerca sostenuto dall’istituto e lunghe, tediose ore di risonanza magnetica funzionale ai soggetti volontari.
Di fatto, nemmeno i neuroscienziati più entusiasti si sbilanciano sul futuro della neurotelepatia. Jack Gallant dell'Università della California si dice convinto che un casco capace di trasferire il pensiero un giorno esisterà, ma in un futuro lontano.
"Nella più ottimistica delle stime”, afferma lo studioso, “oggi siamo in grado di recuperare un milionesimo delle informazioni disponibili al cervello in un dato istante. Probabilmente meno. Le nostre misurazioni sono solo una vaga ombra di tutto quel che potrebbe venire misurato se disponessimo di una tecnologia migliore”.
3. Impieghi medici e un aiuto alla giustizia
Anche se trasferimenti del pensiero come quelli che si vedono nei film sono ancora impossibili, la neurotelepatia sperimentale si sta lentamente facendo strada nella realtà.
Per esempio è in fase di sviluppo un “dolorimetro" che renda visibile anche agli altri il livello di sofferenza provata da un individuo, e già si può misurare quello di coscienza dei pazienti durante le operazioni chirurgiche per assicurarsi che non comincino a sentire i tagli.
Siamo stati in grado di permettere anche ad alcune vittime della sindrome locked-in, o sindrome del chiavistello (nella quale un paziente è cosciente ma non riesce a muoversi), di comunicare concetti semplici come “sì” o “no” con il solo uso del pensiero.
Successi del genere sono stati possibili perché le “marcature” associate a questi concetti sono meno complesse di quelle connesse ai discorsi articolati o alla percezione dei volti. Tuttavia i principi basilari per la lettura delle informazioni direttamente dal cervello sono ormai stabiliti.
Peraltro, gli strumenti di lettura del pensiero utili ad aiutare i malati non pongono nessun problema etico, ma l’idea di una tecnologia che possa penetrare nelle nostre menti ed estrarne informazioni che vorremmo tenere solo per noi è tutta un'altra cosa.
Per il momento l’unico “lettore di pensiero" che sia mai uscito da un laboratorio è una macchina della verità basata sull’elettroencefalogramma e sulla risonanza magnetica funzionale, in circolazione da una decina d’anni.
In almeno un'occasione è già stata usata per condannare un uomo accusato di omicidio in India, ma generalmente i tribunali americani e britannici non ne ammettono l’impiego.
Le compagnie che la commercializzano sostengono che sia in grado di determinare la verità con un margine di accuratezza del 90 per cento, ma si tratta dei risultati di esperimenti svolti in condizioni molto controllate: nella vita reale la sua efficacia è decisamente inferiore.
Quasi certamente la neurotelepatia diventerà abbastanza affidabile da poter essere impiegata anche dalla polizia e dai servizi segreti, prima o poi.
A molti potrà sembrare una prospettiva spaventosa, ma il gioco potrebbe valere la candela: è possibile che il potere di leggere nella mente degli esseri umani sia un prezzo accettabile a fronte dei danni che riceviamo nel presente dal fatto di non esserne in grado.
La memoria dei testimoni oculari è tremendamente fallibile e i riconoscimenti errati sono la principale causa della condanna di innocenti, più di tutti gli altri errori messi insieme.
La maggior parte delle persone ha una probabilità poco più che casuale di riuscire a identificare una menzogna.
E, fanno notare alcuni, se ottenere un’informazione fosse indispensabile, la lettura del cervello non sarebbe forse un mezzo più umano della tortura?
Come sempre quando si ha a che fare con la tecnologia, il suo valore dipende interamente dall’uso che si decide di farne.
4. La lettura del pensiero sotto processo
Vedremo gli scanner cerebrali impiegati nelle aule di giustizia?
Nel 2008, in India, un tribunale ha condannato all’ergastolo Aditi Sharma, uno studente di 24 anni, per l'omicidio della sua ex fidanzata, dopo aver accettato come prova chiave l'esito di un test fatto con una macchina della verità basata sulla tecnologia dell'elettroencefalogramma.
Sistemi di questo genere sono già stati presentati più volte di fronte ai tribunali, ma nella maggior parte dei casi sono sempre stati giudicati inaffidabili: l’India stessa, dopo il caso citato, li ha dichiarati non ammissibili.
A essere messo in dubbio, per esempio, è se l’attività cerebrale connessa all’atto del mentire sia effettivamente un’indicazione di falsità.
Un importante "marcatore" neurale di falsità è rappresentato da un’elevata attività nelle aree frontali del cervello deputate alla creazione di storie: il ragionamento alla base di ciò è che mentire implica inventare qualcosa, mentre dire la verità no.
Nei test di laboratorio standard questo marcatore è piuttosto affidabile, ma un’attività cerebrale molto simile a questa può prodursi anche in altre situazioni e generare quindi falsi risultati.
In altri studi, ad alcuni volontari è stata mostrata una serie di carte e poi è stato chiesto a ciascuno di sceglierne una senza dire quale.
La carta poi è stata mostrare di nuovo al soggetto e gli è stato chiesto se era quella che lui aveva scelto: l'attività cerebrale correlata è risultata molto simile sia che il soggetto mentisse sia che dicesse la verità.
Questo sembrerebbe dimostrare che anche il semplice atto di attribuire rilevanza a una cosa qualsiasi può indurre il cervello a reagire a essa in maniera diversa da come reagisce a tutte le altre.
Una seconda questione da considerare è se la macchina della verità possa a sua volta venire ingannata. Uno studio avvenuto presso il Memory Lab dell'Università di Stanford ha dimostrato che è effettivamente possibile.
A 24 volontari sono stati mostrati 200 volti di sconosciuti in un giorno: il giorno dopo gli sono stati mostrati ancora gli stessi volti, ma mescolati con altri 200 nuovi, e poi gli è stato chiesto di nascondere i loro ricordi, ossia di fingere di non ricordare i visi noti e anche di riconoscere quelli sconosciuti.
La risultante attività cerebrale ha convinto la macchina che i soggetti stavano dicendo la verità anche quando mentivano. Insomma, fino a quando non verranno risolti questi problemi è improbabile che vedremo le macchine della verità nei tribunali.
Tuttavia, con gli attuali ritmi del progresso, potrebbe non volerci troppo. Nel frattempo, Aditi Sharma è stato rilasciato in attesa dell’appello.
5. Che cos'è la risonanza magnetica funzionale?
La risonanza magnetica funzionale è una tecnica che permette agli scienziati di misurare l’attività cerebrale.
È priva di controindicazioni facile da mettere in atto e fornisce ottimi risultati in breve tempo.
Vedere quel che il cervello sta facendo e, nello stesso tempo, anche in che modo? Lo consente la risonanza magnetica funzionale.
Negli esperimenti con questa tecnologia i volontari di solito intraprendono un’attività di tipo cognitivo come rispondere a una serie di stimoli, fare calcoli, riportare alla mente ricordi o creare immagini mentali.
Contemporaneamente to scanner mostra l'afflusso sanguigno da e verso diverse aree del cervello e le sovrappone a un’immagine anatomica del cervello stesso.
Le aree verso le quali confluisce più sangue sono quelle maggiormente attive: ciò avviene perché il sangue porta ossigeno, che è il “combustibile" necessario alle cellule cerebrali per generare elettricità.
La risonanza magnetica funzionale è la tecnologia più usata per correlare l'attività del nostro cervello ai nostri pensieri, alle nostre risposte e alle nostre percezioni.
Apparentemente non ha controindicazioni ed è molto precisa nell'individuare le aree cerebrali.
Altri sistemi, come l'elettroencefalogramma non invasivo, che impiega elettrodi posizionati sul cranio per individuare segnali emessi dal cervello sottostante, sono più rapidi ma meno precisi.