L’esercito italiano impegnato nei drammatici e sanguinosi conflitti che hanno caratterizzato la Seconda Guerra Mondiale non fu sempre all’altezza del compito che avrebbe dovuto assolvere.
Scelte politiche avventate, mancanza di una visione bellica d’insieme, carenza di materie prime e un sistema industriale spesso miope di fronte ai rivoluzionari cambiamenti tecnologici limitarono in maniera drastica la sua efficienza nei teatri operativi.
Per non parlare poi di una catena di comando non sempre all’altezza, incapace di tenere il passo di fronte all’evoluzione strategica e tattica sui campi di battaglia e troppo conservatrice nei confronti delle grandi innovazioni come, per esempio, nel caso della mancata adozione del radar (tecnologia di cui eravamo pionieri).
Eppure, nonostante gravissime mancanze, alcune realtà impersonate da singoli individui o interi reparti dimostrarono tali capacità operative, determinazione, coraggio ed efficienza da incutere nel nemico timore e rispetto.
Proprio a loro si devono i successi più clamorosi; missioni spesso ai limiti del suicidio che finirono però con riassumere un significato che trascendeva il fatto in sé. E che, in alcuni casi, ancora oggi sono considerate esempi inarrivabili di capacità militari.
Oggi, infatti, vedremo 5 tra le più sorprendenti ed importanti imprese militari italiane che hanno avuto luogo durante la Seconda Guerra Mondiale. Scopriamole insieme.
1. Barchini esplosivi contro l'incrociatore York (25-26 marzo 1941)
La memorabile stagione d’imprese condotte dai reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra non era destinata a esaurirsi.
Gli incursori della Regia Marina avrebbero portato infatti al nostro Paese i più significativi successi anche nel Secondo conflitto mondiale, nonostante una serie di decisioni incomprensibili avessero ritardato lo sviluppo di nuovi mezzi e il loro impiego operativo.
Nel primo anno di operazioni infatti l'attività della 10a Flottiglia MAS, le cui origini risalivano al 1935, portò a esiti deludenti, in alcuni casi disastrosi, sebbene fosse chiaro il potenziale di questa strategia d’attacco.
Nel marzo del 1941, a seguito della perdita del sottomarino Gondar, la cattura del comandante Mario Giorgini e altri incursori (settembre 1940) fu necessaria una riorganizzazione del reparto, ora denominato X MAS.
Non sarebbe passato molto tempo per assistere alla prima grande impresa. Il 24 marzo la ricognizione aveva permesso d'appurare la presenza di alcune unità militari inglesi nella base di Suda a Creta.
Per le particolari caratteristiche della baia fu deciso di procedere ricorrendo a una nuova arma appositamente creata per attacchi veloci di superficie, denominata MTM, più conosciuta come “barchino esplosivo”.
Furono messi pertanto in preallarme due cacciatorpediniere dislocati nell’isola di Stampalia (Cicladi), dotati d’appositi alloggiamenti per il loro trasporto, che potevano raggiungere la penisola di Acrotiri, a dieci miglia da Suda, in poco più di sei ore.
Il 25 iniziò l’operazione. Intorno alle 23,41 le due unità arrivarono sull’obiettivo predisponendo la calata in mare di sei barchini prima di invertire la rotta.
Il comando dell’operazione era stato affidato al tenente di vascello Luigi Faggioni, gli altri battelli invece erano pilotati da Angelo Cabrini, Alessio De Vito, Tullio Tedeschi, Lino Beccati ed Emilio Barberi.
Ora il compito più difficile erano i sistemi di ostruzione distribuiti lungo le sei miglia della baia. Non fu semplice: se il primo fu superato facilmente, nel secondo il battello di Barberi rimase impigliato riuscendo a liberarsi solo dopo grandi sforzi.
Passato questo ostacolo tutto andò liscio e alle 4,30 anche l’ultimo sbarramento fu superato passando in un varco tra l’ultima boa e la costa; quindi gli equipaggi rimasero in attesa delle prime luci dell’alba per poter identificare con precisione gli obiettivi.
Una volta assegnati i vari bersagli, intorno alle 5,00 i barchini si mossero con il motore al minimo per ravvicinamento finale, dopodiché Cabrini e Tedeschi, fissato il timone dei loro mezzi e lanciatili a tutta velocità (dopo essersi tuffati in acqua), riuscirono a colpire l’incrociatore pesante York da ottomila tonnellate, che subì gravissimi danni.
Altrettanto abile si dimostrò Barberi centrando con precisione la petroliera norvegese Pericles che esplose.
Faggioni invece, puntando contro una seconda nave cisterna, fu ingannato dall’arrivo di un incrociatore, il Coventry, che si stava rifornendo: cercò d’impostare una nuova rotta, ma il suo mezzo, ormai fuori controllo, s’infranse contro la banchina.
Tra gli incursori, nonostante l’intensità del raid, non ci furono vittime: finirono tutti prigionieri. L’attacco fu un grande successo.
Per la prima volta la XMAS colpiva al cuore la Royal Navy, dimostrando la validità della sua strategia di combattimento. (Nella foto la nave da guerra britannica York, un incrociatore pesante varato nel 1928).
2. La Rocca finalmente violata (19-20 settembre 1941)
L'impresa di Creta era stato un incredibile successo per la X MAS, ma fu senza dubbio l'operazione di forzamento di Gibilterra, la base navale più importante del Mediterraneo insieme ad Alessandria d’Egitto, nel mese di settembre del 1941, a far suonare per gli inglesi il campanello d’allarme.
Così scriveva infatti nel suo rapporto l’ammiraglio Somerville, a capo della piazzaforte:
"Alle navi in porto è stato ordinato di chiudere tutte le porte stagne e di aumentare la pressione. Sono state fatte uscire delle lance a motore... per ispezionare l’imboccatura della baia...
Motoscafi armati con bombe di profondità sono stati inviati in perlustrazione all’interno delle ostruzioni alle entrate. Un autorespiratore rinvenuto dove la Fiona Shell è stata affondata... indicherebbe che probabile causa di tutto ciò è stato un attacco condotto da sommergibili”.
Sebbene avessero intuito qualcosa, i britannici però brancolavano nel buio sulle caratteristiche di questo mezzo innovativo.
Non si trattava più di barchini esplosivi, bensì un’arma più sofisticata, l’SLC (siluro a lenta corsa), una torpedine azionata da un motore elettrico in grado di trasportare due uomini e una testa esplosiva sganciabile che poteva essere fissata alla chiglia del naviglio, più comunemente chiamato “maiale".
Nella notte tra il 19 e il 20 settembre tre di questi mezzi furono condotti sull’obiettivo, la rada di Algeciras che fronteggia la rocca di Gibilterra, dal sommergibile Sciré comandato da Valerio Borghese.
Intorno all’1,20 tre coppie di incursori, Amedeo Vesco e Antonio Zozzoli (SLC 140), Decio Catalano e Giuseppe Giannoni (SLC 210), Lucio Visintini e Giovanni Magro (SLC 220) incominciarono un lento avvicinamento al porto dove la ricognizione aveva individuato una corazzata, una portaerei e altri mercantili.
II loro compito fin da subito fu reso complicato dalla presenza di una vigilanza strettissima, in particolare motovedette in versione antisommergibile che pattugliavano lo specchio d'acqua e l’accesso al porto.
In più di un’occasione Vesco e Catalano furono sorpresi da cariche di profondità in lontananza che misero a rischio la loro missione, obbligandoli a continui cambi di percorso.
Anche il mezzo di Visintini, a cui era stato affidato il minamento della portaerei Ark Royal, trovò la strada sbarrata all'imboccatura del porto militare da unità di vedetta, ma riuscì comunque a entrare.
Poiché il ritardo accumulato impediva di raggiungere la portaerei, optò per una nave cisterna militarizzata. Le operazioni di collocamento delle cariche non ebbero intoppi, dopodiché, autoaffondato il mezzo, i due riuscirono a fuggire dal porto.
Gli altri equipaggi furono invece costretti a dirottare l’attenzione sulle unità presenti nella rada esterna, la meno difesa, portando comunque a termine il loro compito.
All’alba del 20 settembre nel porto scoppiò l’inferno: in rapida successione tre navi, la cisterna Fiona Shell, la motonave Durham e un’altra petroliera, la Denbydale, esplosero affondando in pochi minuti.
Finalmente, dopo tanti tentativi andati a vuoto a causa di materiale non sempre all’altezza, le nuove versioni dei maiali avevano dimostrato grande affidabilità, permettendo agli operatori di portare a termine con successo il raid.
(Nella foto una rappresentazione di un attacco condotto dai cosiddetti "maiali").
3. L'impresa di Alessandria (18-19 dicembre 1941)
La situazione della Regia Marina, imprese di Suda e Gibilterra a parte, nell'autunno del 1941 non era per nulla rosea. In costante ritirata, si era chiusa nei suoi porti, ammettendo l’impossibilità di contrastare il dominio inglese.
Ma questo stato di cose era destinato a cambiare: ai primi di novembre l’infiltrazione di U-Boot tedeschi nel Mediterraneo incominciò a mietere vittime e in poco più di un mese la supremazia britannica sembrò incrinarsi.
In questo frangente all'Italia fu chiesto uno sforzo per assestare il colpo definitivo. Sarebbe stata la X MAS a sobbarcarsi il compito e la scelta cadde sull’obiettivo più pericoloso, la munita base di Alessandria d’Egitto, sede delle due maggiori unità da guerra nel Mediterraneo, le corazzate Valiant e Queen Elizabeth.
A occuparsene sarebbero stati tre equipaggi a bordo dei loro SLC (siluri a lenta corsa, anche detti maiali), opportunamente condotti in prossimità dell’obiettivo da un sommergibile.
Per il livello di difficoltà la missione fu preparata con meticolosità dopo uno studio minuzioso delle difese portuali. Nella notte senza luna del 18 dicembre lo Sciré, che aveva lasciato l’Italia quindici giorni prima, era immobile a circa un miglio e mezzo dalla diga foranea di Alessandria.
Con il sottomarino in parziale stato d’emersione, poco dopo le 8 di sera, furono rilasciati i “maiali” dai loro contenitori stagni e gli equipaggi, a cavalcioni dei loro mezzi, cominciarono ad avvicinarsi.
Le coppie erano così composte: Luigi Durand de la Penne ed Emilio Bianchi; Vincenzo Martellotta e Mario Marino; Antonio Marceglia e Spartaco Schergat. Dopo essersi riuniti di fronte alle ostruzioni d'accesso al porto, un insperato colpo di fortuna spianò loro la strada.
L’arrivo di tre cacciatorpediniere provocò l’apertura degli sbarramenti e i mezzi riuscirono, mettendosi sulla loro scia, a penetrare all’interno della base. Il loro compito era chiaro: raggiungere il bersaglio e collocare le cariche.
Marceglia e Schergat s'avvicinarono alla Queen Elizabeth, riuscendo a portare a termine il loro compito alla perfezione. Quello degli altri equipaggi risultò più arduo.
De la Penne e Bianchi scelsero la Valiant: senza poter contare sull’aiuto del secondo per problemi al respiratore, De la Penne fu costretto a trascinare il mezzo sotto la carena con grande fatica.
Nonostante tutto riuscì a posizionare la testata esplosiva prima di riemergere ed essere catturato dalle vedette inglesi. Pochi minuti dopo, stessa sorte anche per Bianchi.
Entrambi furono rinchiusi in un locale sotto la linea di galleggiamento della nave per costringerli a rivelare il posizionamento delle cariche. Se fosse affondata loro sarebbero morti di sicuro.
Non cedettero fino a mezz’ora prima dello scoppio, quando ormai era impossibile intervenire per rimuovere le cariche esplosive. Allora avvertirono l’ammiraglio Cunningham, a capo della Mediterranean Fleet, del pericolo, per consentire di mettere in salvo l’equipaggio.
L’ultimo SLC invece attaccò la petroliera Sagona e anche in questo caso ci furono problemi: Martellotta a causa di un malore dovette navigare con Marino in emersione, riuscendo però a posizionare la carica a poppa.
Alle 5,58 avvenne la prima esplosione, che affondò proprio la nave cisterna; le altre cariche esplosero invece alle 6,05 e 6, 16. La prima coinvolse la Valiant provocando estesi allagamenti al deposito munizioni e altri settori della nave, la seconda invece devastò la Queen Elizabeth.
Per gli inglesi fu un colpo durissimo, così ben sintetizzato dal Primo ministro Churchill: “Sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare nel Mediterraneo a vantaggio dell'Asse”. (Nella foto la corazzata Valiant nel 1916).
4. Battaglia di Nikolajewka (26 gennaio 1943)
Il 26 novembre del 1942 l’Operazione Urano aveva raggiunto il suo scopo: l'Armata Russa travolgendo lo schieramento rumeno era riuscita a circondare le forze dell’Asse a Stalingrado dando inizio a un assedio conclusosi il 2 febbraio con l’annientamento della Sesta armata tedesca.
La rottura del fronte lasciò quindi mano libera ai sovietici per concentrare gli sforzi contro l’Ottava armata italiana, l’Armir, del generale Italo Gariboldi, schierata su un fronte di 230 chilometri a ridosso del fiume Don, e costituita da reparti di fanteria e pochissimi mezzi corazzati e cannoni anticarro.
Opporsi alla straripante marca di mezzi corazzati russi sarebbe stato impossibile. Cronica carenza di rifornimenti e mancanza d’equipaggiamento invernale, in un clima polare, completavano il quadro di un dramma già scritto.
A partire dall’11 dicembre Stalin ordinò un poderoso assalto alle linee dell’Armir. Nonostante un’iniziale resistenza che inflisse dure perdite al nemico, la fanteria italiana fu ben presto travolta dai corazzati sovietici che penetrarono in profondità senza trovare che sporadica resistenza.
Molti reparti furono circondati in grandi sacche, altri cercarono di ritirarsi combattendo ma a costo di forti perdite: non meno di 43mila caduti. E il 12 gennaio fu lanciata una seconda offensiva nel settore tenuto dal Corpo d’armata alpino che fu rapidamente spezzato.
Molti reparti si arresero, altri provarono a ritirarsi disordinatamente, alcuni invece si aprirono la strada con le armi. Missione, quest’ultima, ai limiti dell’umano, considerata la sproporzione di forze e mezzi in campo e le condizioni climatiche.
La mattina del 26 gennaio ciò che restava di numerosi reparti italiani, a cui si unirono sbandati tedeschi e ungheresi, si trovò sbarrata la via della ritirata da forti contingenti sovietici, supportati dall’aviazione, in prossimità del villaggio di Nikolajewka.
L’intento era chiaro: bloccare ogni possibile via di fuga e chiudere gli estremi della sacca in cui era rimasto intrappolato il nemico.
Considerato lo stato in cui versava la maggior parte dei combattenti, spesso senza neppure armi leggere, il compito di provare a sfondare le lince russe fu affidato alla Divisione Tridentina (inquadrata nel Corpo d’armata alpino), l’unica ancora in grado di combattere.
Nonostante il nemico potesse disporre di armi pesanti e carri, alcuni battaglioni avanzati (Vestane, Verona, Valchiese e Tirano) riuscirono a costo di terribili perdite ad arginarne l’avanzata.
Per tutta la giornata si verificarono scontri pesantissimi, finché in serata l’intervento di altri due battaglioni, l’Edolo e il Valcamonica, e del resto della Tridentina, impiegando l'unico carro armato tedesco ancora funzionante riuscirono ad aprirsi un varco tra le linee sovietiche a costo di terribili perdite.
Solo allora fu possibile per i sopravvissuti ricongiungersi con il resto delle truppe dell’Asse su nuove posizioni difensive. L’incredibile coraggio dimostrato dal generale Luigi Reverberi, che si lanciò all’attacco di un carro sovietico nelle fasi cruciali dei combattimenti, gli sarebbe valso la Medaglia d’oro al valor miliare.
La tenacia dimostrata da questi reparti, in special modo gli alpini, fu un grande esempio di resistenza e valore.
5. Operazione Herring (20-23 aprile 1945)
Con la guerra ormai agli sgoccioli e l’Italia divisa da due anni di guerra ininterrotta, nei giorni a cavallo tra il 20 e il 23 aprile 1945 si materializzava quella che nella storia militare è considerata l’ultima missione aerotrasportata del Secondo conflitto mondiale nel Vecchio Continente, l’Operazione Herring.
Una vasta azione di sabotaggio dietro le linee nel territorio ancora in mano alla Repubblica Sociale e ai reparti tedeschi, organizzata dal comando alleato, ma affidata a unità dell’esercito cobelligerante italiano attivo nella lunga e sanguinosa Campagna d’Italia dai primi giorni dell’armistizio (8 settembre 1943).
Il piano prevedeva il lancio di 226 paracadutisti così suddivisi: 117 appartenenti allo Squadrone F (Folgore) e 109 del Reggimento Nembo, inquadrato nel Gruppo di combattimento Folgore, e guidati rispettivamente dal capitano Carlo Gay e dal tenente Guerrino Ceiner.
I lanci sarebbero dovuti avvenire in un’area piuttosto vasta, compresa tra Ferrara, Mirandola, Modena e il Po, alle spalle di un esercito tedesco arroccato dietro la Linea Gotica.
Dopodiché, una volta riunitesi, squadre di sei-otto uomini avevano ordine di penetrare le linee nemiche e, con il supporto di partigiani, provocare il maggior danno possibile, sabotando linee telefoniche, depositi di munizioni, strade e ponti, più tutta una serie di obiettivi sensibili.
Il raid nel suo complesso avrebbe dovuto durare trentasei ore, ma ben presto quella che era stata pensata come un’operazione di guerriglia si trasformò in una durissima battaglia senza esclusione di colpi, che portò alla distruzione di tre ponti, una polveriera, oltre quaranta mezzi blindati e messo fuori uso decine di linee telefoniche.
Molte di queste squadre infatti, fin dalla tarda serata del 20 aprile, furono costrette a combattere in netta inferiorità numerica, coadiuvate solo da piccoli gruppi di partigiani, in condizioni durissime.
Uno degli episodi più drammatici si consumò nelle campagne di Dragoncello in provincia di Mantova. Qui un reparto di paracadutisti, dopo aver catturato due tedeschi, fu scoperto dal nemico e costretto a rifugiarsi in un’abitazione isolata.
Ma inutilmente, anche in questo caso furono individuati. E nelle ore successive l’edificio fu teatro di una battaglia furibonda con un tragico finale: tutti i quattordici parà furono uccisi, compresi gli abitanti della casa, insieme a sedici tedeschi.
Solo dopo ben tre giorni di scontri ininterrotti gli italiani furono finalmente raggiunti dalle truppe alleate che, superato il Po, riuscirono ad alleggerire la pressione e consentirono ai parà di sganciarsi dal nemico.
La missione ebbe nel complesso un grande successo con la cattura di circa duemila uomini, la distruzione di lince di comunicazione e soprattutto salvando alcuni ponti sul Po che permisero l’attraversamento delle truppe anglo-americane.
(Nella foto paracadutisti del Reggimento Nembo, che fu costituito l'11 gennaio 1943).