Il riscaldamento globale evoca immagini di raccolti riarsi e di mari che si alzano.
Oggi vi spiegheremo come, in realtà, potrebbe persino provocare eruzioni, terremoti e tsunami disastrosi.
Scopriamo insieme i dettagli.
1. I cambiamenti climatici e l'acqua
Ormai ci sono familiari i titoli di giornale che prevedono le conseguenze dei cambiamenti climatici: condizioni meteorologiche estreme, inondazioni ed estinzioni.
Ma gli studi più recenti mettono in luce in modo sempre più vivido che quando il clima subisce un cambiamento serio, coinvolge anche la solida Terra.
Come un gigante addormentato punzecchiato più e più volte, quella che i geologi chiamano geosfera - la parte esterna della Terra - si gira e si smuove in risposta alle modi che drastiche nel clima, dando luogo a terremoti, scatenando tsunami e arrivando anche a provocare eruzioni vulcaniche.
A far da motore a questa reazione sorprendente e spesso ignorata è una delle sostanze più comuni del nostro Pianeta: l’acqua.
Nel corso degli ultimi due milioni di anni la distribuzione globale dell’acqua ha subito enormi cambiamenti mentre il nostro mondo è passato per circa 50 volte dall’essere una ghiacciaia all’essere una serra e viceversa.
Immani quantità d’acqua si sono ritrovate bloccate in giganteschi strati di ghiaccio alle latitudini più elevate quando il Pianeta si raffreddava per poi fondersi di nuovo nei bacini degli oceani quando le temperature si alzavano di nuovo.
L’acqua è pesante e ce n’è molta. Anzi, ce n’è così tanta che la quantità totale di acqua sulla superficie del Pianeta raggiunge un numero inimmaginabile di tonnellate: qualcosa come 135 seguito da quattordici zeri.
Ogni volta che si è passati dal freddo di un’era glaciale a condizioni più tiepide e viceversa, circa il 4 per cento di questa massa si è spostata tra i poli ghiacciati e gli oceani: una sollecitazione più che sufficiente per stimolare una reazione vigorosa da parte della Terra.
Adesso che i grandi strati di ghiaccio alle estremità nord e sud della Terra si stanno fondendo e disgregando velocemente e che il livello dei mari si innalza inesorabilmente, l’incubo che non ha ancora raggiunto le prime pagine dei giornali è che questo cambiamento climatico indotto dall’uomo possa stuzzicare il gigante addormentato sotto i nostri piedi.
Rischieremmo di lasciare ai nostri figli e nipoti un mondo non solo molto più caldo ma anche più instabile geologicamente.
2. Segni di allarme
Il livello della preoccupazione è tale che, per la prima volta, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), nel suo rapporto del 2015 sugli eventi estremi, ha affrontato la possibilità che i cambiamenti climatici possano indurre una reazione geologica.
Un vero rischio è che, se c’è una faglia criticamente vicina alla rottura o un vulcano pronto a eruttare oppure una massa di roccia sul punto di scorrere, anche uno stimolo minimo possa far precipitare la situazione.
Sebbene le temperature medie globali siano aumentate dal 1900 di appena 0,8 °C circa, il riscaldamento potrebbe aver già iniziato a provocare questo stimolo. Non sorprende il fatto che i primi segnali si rilevino alle latitudini più alte, soprattutto in Alaska.
Questo Stato degli USA riveste un ruolo simile a quello dei canarini nelle miniere (in passato i volatili venivano utilizzati come primitivi “sistemi di allarme” poiché, in presenza di gas tossici, restavano storditi o morivano, allertando i minatori), dato che è ricco di ghiacci in scioglimento e di faglie attive.
Fornisce l’opportunità per le interazioni tra questi due fattori visto che il clima locale si riscalda molto più in fretta che nel resto della Terra.
L’enorme peso del ghiaccio contenuto nei ghiacciai dell’Alaska ha contribuito ad attenuare l’attività sismica, semplicemente gravando sulle faglie sottostanti e smorzandone i movimenti.
Di recente, però, la velocità di diminuzione dei ghiacci è stata stupefacente: per esempio, il campo di ghiaccio Bagley, nel sud dello Stato, ha perso forse un chilometro di spessore dall’inizio del Ventesimo secolo.
Con la scomparsa del ghiaccio si è allentata la pressione sulle faglie sottostanti che così si possono muovere più liberamente e dar luogo a un incremento nei sismi di lieve entità.
Tornando indietro nel tempo, si tratta dell’identica reazione che seguì alla ritirata dei grandi strati di ghiacci che coprivano buona parte dell’Europa settentrionale, del Nord America e dell’Asia settentrionale poco più di 10mila anni fa.
La loro scomparsa favorì immani terremoti di magnitudine 8 che sconvolsero la Scandinavia e altri che scossero il Canada, quando la crosta, una volta libera, si espanse come una molla compressa.
Migliaia di anni dopo la struttura dell’attività sismica nell’Europa e nell’America del Nord possono essere ancora un retaggio di questo contraccolpo post-glaciale.
3. Terremoti diffusi
Così, via via che le attività umane continuano a far innalzare le temperature, non sarebbe affatto sorprendente osservare un incremento nell’attività sismica anche al di fuori dell’Alaska.
In particolare, nelle regioni polari della Terra lo scioglimento degli enormi spessori dei ghiacci artici e antartici sta già cominciando a liberare la crosta sottostante: attualmente la Groenlandia si sta innalzando al ritmo di un paio di centimetri all’anno.
C’è almeno uno studio che suggerisce che questa enorme regione sia tranquilla dal punto di vista sismico solo per via del peso del ghiaccio che la ricopre. Questa quiete potrebbe finire nel giro di qualche decennio con l’aumentare del disgregarsi dei ghiacci e con il diminuire del carico sulle faglie sottostanti.
In altre parti del mondo si potrebbe verificare un aumento dell’attività sismica ovunque esistano grandi masse di ghiaccio a cavallo di faglie attive, come nelle Ande, nella catena neozelandese delle Alpi meridionali e nell’Himalaya.
Anche alcune regioni ben lontane dai ghiacci possono essere a rischio, se avverranno innalzamenti significativi del livello dei mari nei prossimi cento anni e oltre. Ci può essere, però, anche qualche bella notizia.
Con il riempirsi dei bacini oceanici, il carico aggiuntivo di acqua stabilizzerà le faglie nelle zone di subduzione sotto gli oceani. In queste faglie una zolla tettonica scorre sotto un’altra e gli spostamenti possono provocare tsunami catastrofici.
La brutta notizia è che verosimilmente lo stesso effetto può incoraggiare terremoti sulle corrispondenti faglie più vicine alle città costiere, con risultati potenzialmente devastanti.
A questo punto non ci stupirà apprendere che i cambiamenti climatici stanno già provocando un aumento delle frane, nel momento in cui si sciolgono il ghiaccio e il permafrost che tengono insieme molte pareti montuose.
Ancora una volta è l’Alaska a trovarsi sotto i riflettori: su alcuni dei monti più famosi di questo Stato sono sempre più frequenti enormi frane di rocce e ghiaccio.
4. Tsunami atlantici
Sulle coste dell’Oceano Atlantico i futuri pericoli possono arrivare da sotto il livello del mare anziché da sopra.
Infatti, i terremoti provocati dall’innalzamento della Groenlandia possono causare frane sottomarine sui bordi dell’Atlantico settentrionale, capaci di scatenare tsunami che si precipiterebbero verso le coste islandesi, dell’Europa settentrionale e del Nord America.
Non sarebbe la prima volta. Circa 7mila anni fa le scosse sismiche conseguenti al sollevamento post-glaciale della Scandinavia fecero franare un gigantesco ammasso di sedimenti giù per la scarpata continentale lungo la costa ovest della Norvegia.
Lo tsunami che ne seguì aveva un’altezza di 25 metri quando si abbatté sulle isole Shetland ed era alto ancora 6 metri quando inondò le coste del Mar del Nord della Scozia e dell’Inghilterra settentrionale. Avremo quindi più terremoti e più frane. E i vulcani? Una Terra più calda implicherà un aumento della loro attività? È ben possibile.
Nel Sud-Est dell’Islanda, il ghiacciaio Vatnajökull si sta ritirando e la crosta sottostante, di conseguenza, si solleva. Il ghiacciaio in diminuzione copre i vulcani Eyjafjallajökull e Grimsvötn, le cui ultime eruzioni hanno provocato gravi problemi al traffico aereo.
Recenti studi basati su modelli prevedono che con il ritirarsi dei ghiacci e la diminuzione del carico sulle rocce calde sotto di essi, la fusione verrà accelerata e, in fine, si genererà magma a sufficienza per tre piccole eruzioni al secolo.
E sono tre di troppo per la popolazione dell’Islanda e per le linee aeree internazionali. Anche i vulcani dell’Alaska, della penisola russa della Kamchatka, della fascia occidentale del Nord America, delle Ande e della Nuova Zelanda vedono diminuire i ghiacci che li ricoprono.
Qui la scomparsa dei contrafforti di ghiaccio potrebbe essere sufficiente per un collasso dei versanti, dando luogo a gigantesche frane. Inoltre le infiltrazioni dell’acqua di fusione possono venire a contatto con il magma incandescente che si cela sottoterra e sarebbe un incontro esplosivo.
Neanche i vulcani a quota inferiore e in climi più caldi sono immuni agli effetti dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo. Più di metà dei circa 1.500 vulcani attivi del nostro Pianeta formano isole o si trovano sulla costa.
Pertanto sono sensibili a ogni cambiamento nelle forze esercitate dagli oceani all’aumentare del livello del mare provocato dalle acque di fusione.
Come ha mostrato il vulcano Pavlof in Alaska, non serve molto, in queste circostanze, per dare “fuoco alle polveri”. Bisogna dire che la situazione è nel complesso preoccupante ma c’è un lumicino di speranza.
Forse, se i cambiamenti climatici provocheranno alcune grandi eruzioni esplosive concentrate in un tempo breve, i gas sulfurei che come conseguenza saranno immessi nell’atmosfera raffredderanno il Pianeta, dato che sono efficienti nell’assorbire la radiazione solare o nel rifletterla verso lo Spazio.
Purtroppo, visto che i gas presumibilmente rimarranno nell’atmosfera solo per pochi anni, il sollievo che ci daranno sarà breve. E, giunti a quel punto, qualsiasi evento vulcanico - a meno che non si tratti di un’immane supereruzione - sarà troppo poco e troppo tardi.
5. Minuscole cause, grandi effetti
Eventi climatici apparentemente secondari possono provocare disastri geologici.
- Un vulcano risvegliato dal vento
Le eruzioni del vulcano Pavlof in Alaska tendono a verificarsi da settembre a dicembre.
La causa sarebbe un incremento stagionale di meno di 20 cm del livello dell’Oceano Pacifico settentrionale dovuto all’andamento dei venti, che spingono l’acqua verso quell’area.
Il peso dell’acqua marina addizionale su questo vulcano costiero è sufficiente a deformare la crosta sottostante, “spremendo” il magma verso l’alto. - Frane sotto pressione
È noto che cambiamenti anche piccoli della pressione atmosferica possono provocare frane.
L’atmosfera subisce variazioni giornaliere della pressione provocate dal riscaldamento solare, con meccanismi simili alle maree.
Nei monti San Juan del Colorado esiste un fiume di 170 milioni di metri cubi di detriti in lento movimento, la frana Slumgullion.
Il ritmo di scorrimento è legato alle variazioni della pressione: quando è bassa il movimento è facilitato. - Tifoni sismici
I terremoti sono causati da movimenti improvvisi lungo le faglie della crosta terrestre ma le faglie possono anche muoversi lentamente, dando luogo a terremoti “silenziosi” o “lenti”.
Nella parte orientale di Taiwan questi terremoti lenti sono collegati ai tifoni. Il brusco calo della pressione atmosferica quando si avvicina il nucleo di una perturbazione permette alle faglie sottostanti di sbloccarsi e muoversi più facilmente. - Scosse generate dalla neve
L’idea che ci sia un nesso tra le nevicate e i terremoti sembra forzata.
Eppure il verificarsi dei terremoti di una certa entità (oltre magnitudo 7) nell’entroterra montuoso del Giappone sembra correlato con la neve.
I dati storici mostrano che in questa zona i terremoti tendono a verificarsi in primavera; la fusione dello spesso strato di neve invernale ridurrebbe la pressione sulle faglie meno profonde, quel tanto da favorirne la rottura.