La quantità di cibo che ingeriamo aumenta a dismisura durante le festività di fine anno, ma non solo.
Nel solo giorno di Natale, si arrivano a consumare anche 5mila calorie.
Le tentazioni sono tante: lasagne, tortellini, cappone ripieno, arrosti, frutta secca, panettone, per non parlare delle bevande alcoliche. A questo va aggiunto anche quello che abbiamo mangiato a Capodanno, in ufficio con i colleghi, negli aperitivi per salutare gli amici.
Si è calcolato che, in media, durante le feste consumiamo, a testa, 15mila calorie sotto forma di cibo, 18mila sotto forma di alcol, e altre 3mila calorie “vuote” provenienti da snack fuoripasto: il totale rappresenta il doppio o il triplo della quantità consigliata.
Perché ci rimpinziamo così (a Natale, ma non solo)? Perché, in molte occasioni, anche senza qualcosa da festeggiare tendiamo a mangiare di più?
Alcune risposte arrivano dai numerosissimi dati provenienti da ricerche nel campo delle neuroscienze, della fisiologia e della psicologia: gli ultimi in ordine di tempo sembrano particolarmente illuminanti. Scopriamoli insieme!
1. Fino all'eccesso
Vista l'ampia disponibilità di ricerche scientifiche in materia, a prima vista sorprende l'assenza di una definizione ufficiale di sovralimentazione.
L'apporto calorico consigliato per un individuo di sesso maschile è di 2500 calorie al giorno, necessarie al mantenimento del peso, mentre per la donna, questa cifra scende a 2000.
Mangiare di più, però, non sempre equivale a sovralimentarsi.
"Parlare di eccesso è fuorviante perché presuppone che esista anche una quantità ‘normale’ di cibo: invece, il nostro fabbisogno varia moltissimo da giorno a giorno", spiega Jeffrey Brunstrom. professore di Psicologia Sperimentale presso l’Università di Bristol, che si occupa di ricerca nel campo degli aspetti cognitivi dell'alimentazione.
“Indicativamente, possiamo dire di aver mangiato troppo se abbiamo consumato quantità di cibo superiori a quanto preventivato o desiderato, e sperimentiamo effetti soporiferi simili a quelli post-cenone natalizio”.
Esistono anche differenze culturali: lo psicologo alimentare della Cornell University Brian Wansink (nella foto) osserva che gli americani tendono a ingurgitare cibo fino a sentirsi completamente satolli, mentre individui appartenenti ad altre culture smettono di mangiare non appena cessa lo stimolo della fame.
I giapponesi di Okinawa hanno addirittura coniato un’espressione ad hoc: mangiare fino a sentirsi hara hachi bu, ovvero pieni all'80 per cento. Indipendentemente dalle cause, le conseguenze della sovralimentazione possono essere molto gravi.
Benché il rapporto tra consumo eccessivo di cibo e obesità sia complesso, superare il peso consigliato aumenta il rischio di contrarre diabete, patologie cardiache e diverse forme tumorali. L'obesità, inoltre, mina l’autostima, distorce l'immagine di se e danneggia la socialità.
Esistono poi anche disturbi psicologici legati alla sfera alimentare, quali l’alimentazione incontrollata o binge eating (consumo di 2000-3000 calorie a ogni pasto) e la bulimia. Semplificando, il corpo umano può essere equiparato a un'automobile: per funzionare bene, ha bisogno di regolari rifornimenti.
Le sensazioni di fame e di sazietà agiscono come un indicatore del livello di carburante, regolando il nostro comportamento alimentare e gestendo vari segnali ormonali in transito tra apparato digerente e cervello.
L'appetito viene stimolato quando lo stomaco, vuoto, rilascia nel flusso ematico un ormone chiamato grelina, mentre i tessuti adiposi riducono la produzione di altri ormoni, la leptina e l’insulina.
Questi segnali vengono trasmessi all'ipotalamo laterale, una regione del cervello che controlla l'alimentazione e altri comportamenti motivazionali, generando la sensazione della fame.
Si smette di nutrirsi quando diversi segnali veicolano la sensazione di sazietà: quando la pancia è piena, viene inviato un segnale attraverso il nervo vago, che dispone di numerose terminazioni nella parete gastrica.
L'informazione raggiunge poi i neuroni del midollo allungato posto alla base del cervello, il quale segnala che è opportuno smettere di mangiare.
Se si mastica lentamente, concentrandosi sul pasto che si sta consumando, quest'indicazione di sazietà viene percepita più chiaramente e con più forza di quando invece si trangugia il cibo, o si chiacchiera mentre si mangia, trascurando il segnale trasmesso dal cervello.
Gli esseri umani, in ogni caso, sono più complicati delle automobili: si sentono motivati a mettere in atto comportamenti che garantiscono la sopravvivenza (quali cibarsi e avere rapporti sessuali) perché questi stimolano meccanismi di ricompensa.
Il profumo, il gusto, la consistenza e la vista del cibo sono altrettante fonti di piacere: alcune ricerche hanno dimostrato che quando vengono consumati alimenti gustosi, viene rilasciata dopamina dai centri cerebrali della gratificazione.
Naturalmente, alcuni cibi sono più appetibili di altri. L'appetibilità dei cibi è assicurata fondamentalmente da tre componenti: i grassi, i sali e gli zuccheri.
In termini evolutivi, è facile intuire perché: i lipidi fornivano ai nostri antenati ancora non stanziali le riserve necessarie per sopravvivere alla scarsità di risorse e ai rigori invernali, il sale li aiutava a trattenere i liquidi evitando la disidratazione, mentre il gusto dolce consentiva loro di distinguere tra frutti “buoni” e nutrienti e altri, aspri, spesso velenosi.
Al giorno d'oggi, i tre sapori più amati dall'uomo compaiono ancora in tutti gli snack con i quali ci viziamo, e che Wansink riassume nelle “quattro C”: cookies, candy, chips e cake, in italiano biscotti, caramelle, patatine e dolci.
2. Dipendenza dal cibo
La dopamina, che ci fa apprezzare il cibo, ha un ruolo importante anche nella dipendenza da sostanze quali droghe, alcol e tabacco.
E' possibile, dunque, sviluppare un'analoga ossessione per certi alimenti, soprattutto se ricchi di zuccheri e grassi.
In alcuni casi, la sovralimentazione è un comportamento comprensibile. Uno de più importanti studi sulla salute delle donne (Nurses’ Health Study) ha osservato che le vittime di abusi in età infantile avevano una probabilità doppia di sviluppare disturbi alimentari di tipo dipendente.
In un altro studio, David Ludwig della clinica pediatrica Boston Children’s Hospital ha utilizzato una tecnica di imaging, la risonanza magnetica funzionale, per monitorare l’attività cerebrale nelle quattro ore successive al consumo di un pasto.
Sono stati offerti a volontari frappé simili per apporto calorico, dolcezza e gusto: uno di essi, però conteneva carboidrati a rapida assimilazione o a “elevato indice glicemico”, mentre gli altri erano a base di carboidrati ad assimilazione lenta o “basso indice glicemico”.
E noto che il consumo di alimenti con un indice glicemico elevato determina in breve tempo un picco della glicemia, seguito da un altrettanto rapido crollo.
La scansione cerebrale eseguita ha rivelato che il crollo dell'indice glicemico era accompagnato da un'intensa sensazione di fame e da una potente attivazione del nucleus accumbens, una regione cerebrale che gioca un ruolo importante nei meccanismi di dipendenza, gratificazione e desiderio ossessivo.
Secondo i ricercatori, limitando l'assunzione di cibi con indice glicemico elevato si potrebbe controllare l'impulso a sovralimentarsi.
Nel frattempo, una ricerca condotta da Garret Stuber e la sua équipe presso l’Università della Carolina del Nord ha dimostrato che, nei topi, almeno un circuito neurale specifico è coinvolto nel fenomeno della sovralimentazione. Quando viene attivato, questo circuito spinge gli animali a mangiare per gratificazione e non per fame.
A Bristol, inoltre, Brustrom sta studiando la sovralimentazione da un diverso punto di vista: la sua ricerca suggerisce che anticipare mentalmente il contenuto di un pasto prima di sedersi a tavola, anche in modo inconsapevole, consente di esercitare un controllo pari a quello assicurato dai segnali di sazietà generati durante il consumo del cibo.
La sua équipe ha trovato il modo di misurare l’effetto saziarne (ES) di diversi alimenti, ovvero in che misura ciascun cibo viene percepito come potenzialmente in grado di sfamarci.
“Esiste una forbice molto ampia tra le calorie contenute in un alimento e il potere saziante che gli attribuiamo”, dice lo studioso. “Per esempio, le patate hanno un ES più alto del cioccolato: i cibi ad alta densità energetica come quest'ultimo vengono percepiti come meno idonei a calmare la fame”.
Le nostre valutazioni dell'ES sembrano essere influenzate dal volume: cibi caratterizzati da grande volume e bassa densità energetica sono considerati più saziami.
È possibile, però, correggere l'ES dei cibi modificandone la viscosità. Le bevande hanno generalmente un ES basso, pur essendo frequentemente sature di calorie: per questo vengono spesso consumate in quantità importanti e sono responsabili dell’aumento di peso.
Incrementando la viscosità e la cremosità di una bevanda a base di yogurt, tuttavia, si è determinato un innalzamento del suo ES: questa tecnica potrebbe rivelarsi valida per ridurre la quantità di liquidi ipercalorici ingeriti.
3. Le dimensioni contano
Si tende a mangiare di più o di meno anche a seconda delle dimensioni della confezione, del piatto e della porzione, della varietà dei cibi disponibili e del contesto nel quale vengono consumati.
Tutte queste variabili sono ben illustrate da un esperimento di Wansink, che dimostra che le persone ingeriscono cibo comunque, anche quando non hanno fame e la qualità degli alimenti è scarsa.
Il suo gruppo ha invitato al cinema alcuni ignari volontari, e ha chiesto loro di riempire un questionario, offrendo in cambio dei popcorn in omaggio. I popcorn erano di cinque giorni prima e dunque stantii. I volontari per la maggior parte avevano già pranzato, e non avevano fame: eppure, hanno mangiato ugualmente i popcorn stantii.
Alcuni avevano ricevuto confezioni medie, altri grandi: in quest’ultimo caso, il consumo di popcorn è risultato superiore di 173 calorie (21 manciate in più), benché i partecipanti abbiano poi negato veementemente di essere stati influenzati dalla misura del contenitore.
Wansink ha condotto diversi altri studi sui popcorn con risultati analoghi: quando il contenitore è più grande, la quantità consumata aumenta. La questione delle dimensioni merita un approfondimento.
Tra il 1970 e il 2000, il numero di prodotti alimentari disponibili in grandi formati nei supermercati è decuplicato. Il diffondersi dei fast food ha determinato una proliferazione di porzioni grandi e maxi, poiché le varie catene si danno battaglia sul terreno della “convenienza” economica.
In un famoso studio condotto dallo psicologo dell’Università della Pennsylvania Paul Rozin e dal sociologo francese Claude Fischler nel 2003, sono state messe a confronto porzioni acquistate in fast food, pizzerie, gelaterie e ristoranti delle città di Philadelphia e Parigi.
Dei 36 pasti e bevande esaminati, ben 26 erano significativamente più scarsi in Francia, mentre in America, il peso delle porzioni è risultato in media superiore del 25 per cento.
Per una dimostrazione pratica delle sue conclusioni, Wansink ha invitato 85 docenti universitari e dottorandi nel campo della nutrizione a una merenda a base di gelato.
All’arrivo, ciascuno di essi è stato dotato di una coppa media o grande e di un cucchiaino medio o grande, e invitato a servirsi da solo. Chi aveva ricevuto coppe e cucchiaini grandi si è servito quantità di gelato superiori del 53 per cento rispetto ai partecipanti con coppe e cucchiai più piccoli.
E probabile che la tendenza a mangiare di più in presenza di una porzione più grande sia dovuta al fatto che occorre consumare parecchio cibo prima che quella porzione si ridimensioni in modo apprezzabile.
Anche il “piatto pulito” rappresenta un obiettivo importante e una chiara indicazione visiva che il pasto è concluso: se la porzione è più grande, però, si dovrà mangiare di più per ottenere lo stesso risultato.
4. La varietà attira
Un altro importante fattore che spinge a consumare più cibo è la varietà degli alimenti a disposizione.
Brunstrom ha condotto alcuni esperimenti che dimostrano la correlazione tra maggior varietà e quantità superiore di cibo ingerito.
Ai partecipanti allo studio sono state mostrate immagini relative a quattro diversi piatti (pollo Tikka della cucina indiana, spaghetti al ragù, torta all’albicocca e crostata al limone) che comparivano su un computer in diverse combinazioni, ed è stato poi chiesto loro di intervenire sull’immagine della seconda portata, mostrando la quantità che se ne sarebbero serviti.
Se era garantita la varietà (per esempio, facendo seguire il dolce al salato), i volontari definivano il cibo più appetibile e mostravano di desiderare una porzione più grande.
Quando si organizza in compagnia è bene ricordare che, secondo lo psicologo della Georgia State University John De Castro, in due si mangia il 35 per cento in più del cibo che si consumerebbe da soli.
Se poi si pasteggia in un gruppo di sette o più persone, si arriva a consumare il doppio: chiacchierare, infatti, distrae dal cibo e si finisce per non controllare più ciò che mettiamo in bocca.
Anche mangiare in fretta, però, favorisce gli eccessi: diversi studi hanno dimostrato che il cervello impiega 20 minuti a “registrare” i segnali di sazietà inviati dall’organismo, e nel frattempo, è facile lasciarsi tentare da un altro trancio di pizza o un’altra porzione di pasta.
Tuttavia, ci sono alcuni trucchetti per sabotare l’alleanza tra cervello e ambiente, che sembra fatta apposta per promuovere gli eccessi alimentari. Per esempio, se il servizio è a buffet, meglio appoggiare il piatto mentre si conversa e servirsi soltanto due assaggi di cibo per volta.
Se approfittiamo degli sconti stagionali per rinnovare la stoviglieria, è utile acquistare piatti più piccoli. Al ristorante, si possono ordinare due antipasti e saltare la pietanza principale, o si può dividere una pizza o un dessert con un altro commensale.
Wansink raccomanda anche di fare delle pause, creando appositamente delle interruzioni durante i pasti: a tal fine, si possono scegliere biscotti, caramelle o cioccolatini incartati individualmente, oppure allontanare i vassoi di servizio per non averli a portata di mano.
L'ultimo consiglio è concentrarsi su ciò che si sta mangiando, ignorando le distrazioni e masticando lentamente.
La tendenza generalizzata a ripulire il piatto e a mangiare ogniqualvolta ne abbiamo l'occasione sembra indicare che l'uomo è fondamentalmente avido di cibo: forse è un retaggio del nostro passato di cacciatori-raccoglitori, poiché i nostri antenati non erano mai certi di quando avrebbero consumato il pasto successivo.
A quei tempi, divorare tutto ciò che si trovava garantiva la sopravvivenza: nel XXI secolo, e in questa parte del mondo, invece, probabilmente è vero il contrario.
5. Un impianto per calmare l'appetito e programmati per mangiare troppo
- Un impianto per calmare l'appetito
Un nuovo pacemaker gastrico potrebbe aiutare chi non è in grado di controllare il consumo di cibo.
Il nervo vago contribuisce alla regolazione delle sensazioni di fame, soddisfazione e sazietà.
La vagotomia chirurgica, che prevede un’interruzione vagale in prossimità dello stomaco, è una tecnica storicamente utilizzata come terapia per le ulcere gastriche.
Si è notato, infatti, che tra gli effetti collaterali c’erano calo ponderale e inappetenza.
La società del Minnesota EnteroMedics ha messo a frutto queste osservazioni per sviluppare la strategia terapeutica VBLOC, che “spegne” in modo intermittente la comunicazione vagale tra apparato digerente e cervello, per mezzo di un dispositivo simile a un pacemaker, denominato Maestro System (nella foto).
L’apparecchio viene impiantato e programmato con una tecnica chirurgica mini-invasiva ed è già stato utilizzato con successo in oltre 600 pazienti partecipanti a sperimentazioni cliniche, che hanno fatto registrare una significativa perdita di peso.
Le attuali terapie contro l’obesità (dieta, esercizio fisico, trattamenti farmacologici e interventi chirurgici mirati) presentano tutte alcuni svantaggi.
EnteroMedics vede in VBLOC una soluzione efficace, che offre una speranza ai 20 milioni di pazienti potenzialmente trattabili con il nuovo dispositivo perché affetti, oltre che da obesità, anche da complicanze quali diabete e ipertensione. - Programmati per mangiare troppo
Garret Stuber, docente presso la Facoltà di Medicina dell’Università della Carolina del Nord, ha scoperto un circuito neuronaie che spinge gli animali alla sovralimentazione:
"L’ipotalamo laterale (LH, dall’inglese Lateral Hypothalamus) è un'area del cervello che gioca un ruolo importante nei comportamenti motivazionali, compresa l’alimentazione.
È noto che, stimolando l’LH, si induce un topo di laboratorio a sovralimentarsi.
Tuttavia, non era ancora stato chiarito quali neuroni specifici fossero coinvolti. Osservando che i cosiddetti neuroni GABA, situati in una regione limitrofa, erano caratterizzati da proiezioni molto dense nell’LH, abbiamo deciso di indagare. La regione in questione è in realtà una protrusione dell’amigdala, che gestisce le emozioni, e assicura il collegamento con l’LH.
Abbiamo applicato una tecnica nota come optogenetica per modificare geneticamente i neuroni GABA interessati, sottoponendoli a stimolazione con fibre ottiche impiantate a livello cerebrale.
Siamo così riusciti a intervenire sul circuito neurale, accendendolo e spegnendolo, per verificare il comportamento risultante di topi sperimentali.
Le cavie iniziavano a mangiare pochi secondi dopo l’attivazione del circuito, continuando anche quando cessava lo stimolo della fame, fino alla disattivazione della rete neurale. Dopo la disattivazione, i topi non mostravano più alcun interesse per il nutrimento, anche se affamati.
Stimolando il circuito si accentua l’appetibilità del cibo, percepito come fonte di piacere e non come semplice mezzo per calmare la fame (UH, infatti, ha un ruolo anche nei meccanismi di ricompensa e gratificazione).
È probabile che un analogo percorso neuronale esista anche negli umani, perché questa regione del cervello non è stata alterata molto dall'evoluzione.
Stiamo mettendo a punto degli esperimenti per verificare se lo stesso comportamento viene replicato negli uomini. I nostri studi evidenziano il fatto che la sovralimentazione ha una solida base neurobiologica, e il ruolo giocato dai circuiti neurali è molto significativo.
Questo particolare percorso cerebrale può influenzare anche i disordini alimentari, come l’alimentazione incontrollata, e ulteriori ricerche potrebbero aiutarci a scoprire come sviluppare nuove armi terapeutiche".