Le popolazioni germaniche abitavano i luoghi più remoti e inclementi d’Europa.
Ciò li rese particolarmente duri, tenaci e avidi di guadagnarsi una posizione migliore, creando i presupposti per uno scontro diretto con l’Impero di Roma.
All’epoca del suo apogeo, Roma era riuscita, grazie a secoli di conquiste, a comprendere gran parte dell’Europa e del mondo mediterraneo in un’unità politica, economica e territoriale senza precedenti.
L’Africa del Nord, il Medio Oriente dal Tigri-Eufrate al Golfo Persico e al Caucaso, l’Asia Minore, la Grecia, la Mesia, la Tracia, la Dacia, i territori compresi tra il Danubio e l’Adriatico e tra il Reno e il Mediterraneo, la Gallia, la Penisola Iberica, la Britannia fino ai confini con l’odierna Scozia, e ovviamente l’Italia.
Erano queste le regioni su cui garrivano le insegne romane nel II secolo, momento di massima espansione del dominio dei Cesari.
Le prime tribù germaniche sarebbero il risultato dell’indoeuropeizzazione della Scandinavia meridionale e dello Jutland da parte di genti che provenivano dall’Europa centrale.
La civiltà che si produsse da questa fusione si estese lungo il Baltico e il Mare del Nord fino al 750 a.C. circa, quando iniziarono le grandi migrazioni verso sud indotte dal bisogno di nuove terre. Nella successiva età del Ferro, i Germani entrarono in contatto con i Celti e con i Romani.
Secondo lo storico romano Tacito, i Germani «nei periodi in cui non sono in guerra, trascorrono poco tempo in attività venatorie, molto di più nell’ozio, dedicandosi al sonno e al cibo».
I più forti e valorosi, in tempo di pace non facevano nulla: la cura della casa, della famiglia e dei campi era infatti delegata alle donne, ai vecchi o a chi a vario titolo non poteva combattere.
Tacito (come Cesare prima di lui) riteneva che i Germani fossero un popolo “puro”, non contaminato da altre popolazioni: «Sono pronto a credere» scrive lo storico «che siano autoctoni, e non abbiano subìto mescolanze in seguito a movimenti migratori o a relazioni pacifiche con altre stirpi».
Più avanti si spinge a una descrizione fisica precisa: «Occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti, in grado però di costituire soltanto una massa d’urto». Li dice incapaci di tollerare la sete e il caldo e avvezzi, invece, a sopportare il freddo e la fame.
Elementi, questi, che avrebbero avuto successo nel Novecento, andando a plasmare i concetti di “germanicità” e di “razza ariana” su cui si fondò il Terzo Reich di Hitler. Ovviamente i Germani, né in tempi antichi né nel Medioevo, furono esenti da contaminazioni.
Anzi, nell’età delle migrazioni assorbirono vari popoli di provenienza eterogenea, addirittura mongolica, che nei secoli a venire si fusero con loro.
Ma chi erano veramente i Germani? Scopriamolo insieme.
1. Ai margini dell’Impero Romano
Un mosaico di etnie, culture, lingue e religioni diverse, tenute insieme da un sistema basato sull’equilibrio tra governo centrale e autonomie locali, alimentato da fitti rapporti commerciali e vivaci scambi culturali, a loro volta favoriti dall’efficienza e dalla sicurezza delle vie di comunicazione.
Alla base di tutto c’erano le città, punto di riferimento politico, culturale e amministrativo del territorio circostante e luogo di residenza privilegiato dei grandi possidenti terrieri e dei latifondisti.
Era un impero ricco e aggressivo, che per mantenere il proprio standard di vita necessitava di continui bottini e conquiste.
Stanziati in una vasta area tra il Sud della Scandinavia, il Reno, il Danubio, le Alpi e il Mar Nero, i Germani non erano invece organizzati in una compagine territoriale e statuale coerente.
Risultato della fusione tra genti autoctone e clan indoeuropei che avevano invaso il continente in varie ondate, a partire dal IV millennio a.C., avevano una struttura sociale di tipo tribale. Praticavano soprattutto la caccia, l’agricoltura, l’allevamento e la razzia.
L’economia, basata sullo sfruttamento delle risorse, rendeva necessario un continuo movimento alla ricerca di nuove terre, ragion per cui, già a partire dall’VIII secolo a.C., i Germani iniziarono a migrare verso sud e ovest, spingendo altre genti, tra cui i Celti, dentro i domini romani e innescando conflitti a catena.
Diventati con il tempo popoli semistanziali, distribuiti in piccoli villaggi, i Germani non possedevano infrastrutture monumentali né un’organizzazione politico-territoriale neppure lontanamente paragonabile a quella dell’Urbe.
Difficile far fronte alle difficoltà: carestie, cambiamenti climatici, pressioni esercitate da altri popoli provocavano migrazioni di massa, le Volkerswanderungen, che interessavano buona parte delle popolazioni.
2. Il dovere delle armi e lo scontro finale con Roma
Le poche notizie che abbiamo circa la loro organizzazione sociale ci provengono dalle fonti antiche, e in particolare dagli scrittori romani Giulio Cesare e Publio Cornelio Tacito.
Dai loro accenni, incrociati con i dati antropologici e archeologici, emerge che la struttura sociale era molto semplice e di stampo tribale.
Alla base delle tribù c’erano le Sippe, gruppi di famiglie di uomini liberi discendenti da un unico antenato e dotate di terre e bestiame. Gli uomini liberi avevano il diritto-dovere di portare le armi.
Ogni Sippe aveva un capo, che esercitava il mundio (in pratica, il potere assoluto) sulla moglie, i figli, i dipendenti e i servi.
Alcune famiglie si distinguevano per privilegi religiosi o politici e formavano una sorta di aristocrazia (gli adalingi), dalla quale si sceglievano i capi. Tra i liberi e i servi vi era uno strato intermedio di liberti o semiliberi, gli aldi.
La struttura sociale ed economica, così come le abitudini, cambiarono nel tempo. Cesare, nel I secolo a.C., affermava che i Germani non conoscevano la proprietà privata e che le terre erano sfruttate dai gruppi familiari che, al loro esaurimento, si spostavano altrove.
All’epoca di Tacito, invece, un secolo più tardi, le tribù si erano ormai stabilizzate e avevano introdotto la proprietà privata, prima familiare e poi individuale, mentre i pascoli e i boschi continuavano a rimanere di uso comune.
Dal punto di vista giuridico, i Germani praticavano un diritto di tipo consuetudinario tramandato oralmente, in cui credenze religiose e superstizioni, anche arcaiche, avevano un ruolo importante.
L’impatto tra il mondo romano e quello germanico avvenne in più riprese:
- La prima si ebbe nel II secolo a.C., quando Cimbri e Teutoni (tradizionalmente considerati Germani ma che, come parrebbe ormai acclarato, in realtà erano Celti che avevano assimilato alcuni caratteri germanici), provenienti dallo Jutland, calarono nella Gallia Narbonense, da poco conquistata da Roma.
Spinsero i Galli alla rivolta, minacciarono la Gallia Cisalpina e infine furono battuti dal console Gaio Mario ad Aquae Sextiae (l’odierna Aix-en-Provence, 102 a.C.) e ai Campi Raudii (presso Vercelli, 101 a.C.). - Il secondo momento di scontro fu il disastro che si consumò nel 9 d.C. nella selva di Teutoburgo, nei presso di Osnabrück. Qui, ben tre legioni furono annientate dai Cherusci, insieme a Marsi, Catti e Bructeri, guidati da Arminio: il governatore Publio Quintilio Varo, comandante dei Romani, si uccise per non cadere prigioniero e da allora l’impero non avrebbe mai più tentato di oltrepassare il fiume Reno.
- Un terzo incontro ebbe luogo a partire dalla fine del II secolo d.C., in coincidenza con la fine della spinta espansionistica di Roma, e fu decisivo, perché portò alla caduta dell’impero.
3. Gli dei del Nord
Contrariamente alle altre religioni barbariche, quella germanica sopravvisse abbastanza a lungo da essere codificata in epiche saghe durante il Medioevo.
«Venerano soprattutto Mercurio, cui ritengono lecito fare sacrifici umani. Marte ed Ercole invece sono placati da sacrifici animali»: così lo storico Tacito descrive le divinità adorate dai Germani, assimilandole, per via delle evidenti affinità, alle corrispondenti figure del pantheon latino, come già aveva fatto Cesare a suo tempo con i Galli.
Risulta comunque chiaro che il suo Mercurio era il germanico Odino-Wotan, depositario della sovranità, conoscitore delle rune segrete, arbitro delle sorti della battaglia e legato al mondo dei defunti.
Il secondo, Marte, era Tiu-Tyr, divinità del cielo, mentre Ercole Donar-Thor, dio del tuono dalla forza leggendaria, baluardo contro i giganti malvagi e armato dell’invincibile martello, Mjöllnir.
Queste divinità “guerriere” appartenevano alla stirpe degli Asi, che sconfisse e sottomise quella complementare dei Vani. Costoro, legati al culto della Terra-Madre, avevano in Njörd, Freyr e Freya i loro maggiori esponenti, legati invece alla fertilità, alla ricchezza e alla pace.
Tutti questi nomi sono norreni, ossia scandinavi: più che dalle fonti classiche e archeologiche, infatti, le caratteristiche delle divinità germaniche ci sono note grazie alle iscrizioni runiche e, soprattutto, alle saghe vichinghe, l’Edda poetica e l’Edda in prosa di Snorri Sturluson.
Si tratta però di fonti tarde (XIII secolo ca.), che rappresentano un mondo religioso che, pur conservando elementi arcaici, non è alieno da contaminazioni con il cristianesimo, e riflette dunque una sensibilità più recente.
Sempre Tacito nota che, a differenza dei Romani, i Germani non hanno sacerdoti e non celebrano i culti nei templi, bensì nelle selve.
Ciò, in realtà, è vero solo in parte: a Uppsala (Svezia) sono state trovate tracce di un santuario dedicato alla triade divina formata da Odino, Thor e Freyr, anche se di certo non può essere paragonato alla monumentalità dei templi presenti in altre culture.
Per quanto riguarda gli intermediari tra uomo e divino, non esistevano ministri veri e propri come, per esempio, lo erano i druidi presso i Celti. A mediare tra il mondo dei vivi e quello dei morti ci pensavano gli sciamani, che comunicavano con gli spiriti attraverso sostanze psicotrope.
È infine vero che le popolazioni germaniche intrattenevano, come del resto quelle celtiche, un legame molto forte e particolare con gli elementi naturali, soprattutto gli alberi.
Emblematico è il frassino (o forse la quercia) Yggdrasil-Irminsul, simbolo dell’asse del mondo e manifestazione della presenza divina. Importantissimo era anche il concetto di Destino (Gaefa), che regolava la vita dell’uomo e poteva essere conosciuto solo attraverso la divinazione, ottenuta consultando le rune.
4. Roma è umiliata
Teutoburgo, Quintilio Varo, Arminio: questi tre nomi diventarono sinonimo, a Roma, di vergogna e di terrore, proprio come lo era il “dies Alliensis” in cui si ricordava la sconfitta che aveva aperto le porte al sacco di Brenno, o come la battaglia di Canne in cui Annibale avveva annichilito la potenza romana.
In effetti, la tragedia che si consumò nei giorni tra il 9 e l’11 settembre del 9 d.C. nei pressi di Kalkriese, non lontano da Osnabrück nella Bassa Sassonia (Germania), fu epocale: tre intere legioni, la XVII, XVIII e XIX, vennero annientate dai Germani insieme a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria, per un totale di 15-18 mila caduti.
Il governatore romano Publio Quintilio Varo si uccise per l’onta subita e nessun’altra legione sarebbe mai più stata battezzata con il nome delle tre perdute per i secoli a venire.
Un rovescio inaudito che produsse, alla lunga, una conseguenza enorme: tracciò un confine invalicabile sul Reno, tra l’Europa latina e quella germanica, destinato a durare quattro secoli.
Artefice dell’incredibile impresa fu Arminio, «un giovane nobile di nascita» (sono parole del contemporaneo Velleio Patercolo, che forse lo conobbe di persona), «dal braccio forte e molto sveglio, con un’intelligenza superiore alla media rispetto agli altri barbari».
Suo padre era Segimero, il capo dei Cherusci, una delle tante tribù germaniche che occupavano i territori a nord del Reno, e che si era stanziata a cavallo dell’era cristiana nell’area tra le odierne Osnabrück e Hannover.
Entrato da giovane nell’esercito romano, Arminio aveva partecipato alla campagna di Germania nel 5 d.C. e, alla guida di un contingente di ausiliari appartenenti alla sua tribù, aveva servito come luogotenente di cavalleria in Pannonia (Ungheria).
Esaurito il suo incarico, aveva ottenuto la cittadinanza romana ed era tornato in patria. Ma poiché i Romani, dopo aver conquistato i territori a ovest del Reno, miravano a espandere il proprio dominio oltre l’Elba, sfruttando il malcontento dovuto alle tasse, Arminio iniziò a meditare una rivolta.
Il suo piano rischiò di saltare perché un certo Segeste, anch’egli della stirpe dei Cherusci e amico personale di Varo, mise sull’avviso il governatore circa le intenzioni di Arminio. Varo, però, che conosceva il giovane principe (o credeva di conoscerlo), non volle dare peso a quelle voci. Fu un errore fatale.
All’inizio dell’autunno del 9 d.C., Varo si accingeva a trasferire le legioni negli accampamenti invernali, secondo i piani. Non badò troppo al fatto che lo spostamento imponesse di transitare attraverso una zona fittamente boscosa, impervia e poco conosciuta dalle legioni, come del resto lo era buona parte dell’aspro territorio germanico.
Arminio aveva avuto modo di apprendere alla perfezione le tecniche di combattimento dell’esercito nemico e sapeva bene che i suoi, abituati a combattere in modo disordinato e con attacchi estemporanei, nulla avrebbero potuto contro le legioni, se esse avessero avuto modo di schierarsi in campo aperto.
Nell’intrico del bosco, però, sarebbe stata tutta un’altra storia. E fu proprio lì che Arminio attese i Romani al varco. Il 9 settembre, mentre i legionari attraversavano la foresta carichi di salmerie e carriaggi, arrancando sul terreno reso pesante dalla pioggia, Arminio piombò su di loro con i suoi.
Si batté come una furia e per ben tre giorni, sotto la pioggia battente, tenne i Romani sotto attacco.
Colti del tutto di sorpresa, bersagliati dalle frecce, impediti dai carriaggi e incapaci di schierarsi e organizzare contrattacchi efficaci com’erano addestrati a fare, molti legionari perirono; altri preferirono darsi la morte volontariamente piuttosto che cadere nelle mani dei nemici.
Lo stesso Varo, dopo aver ordinato la distruzione delle vettovaglie nel vano tentativo di alleggerirsi, non poté che assistere impotente allo sterminio dei suoi. Alla fine ritenne dignitoso darsi la morte gettandosi sulla propria spada.
L’11 settembre, la vittoria di Arminio e dei suoi guerrieri poteva dirsi totale. Sei anni dopo, il generale romano Germanico si sarebbe recato sul luogo della disfatta per seppellire i resti dei legionari caduti, che i viandanti ritrovavano ancora nel bosco.
5. I Germani secondo Tacito
Di bell’aspetto, fisicamente prestanti e moralmente esemplari: ecco come lo storico Publio Cornelio Tacito, nel I secolo, descrive i Germani.
Pagine divenute celebri, quelle della Germania, perché per la prima volta presentavano con obiettività quegli uomini dotati di «occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche», la cui fama faceva tremare l’Urbe.
Immaginati fino ad allora come orde di barbari assetati di sangue, popoli rozzi e crudeli alla ricerca di facile bottino, i Germani sono descritti nei loro costumi con la prosa asciutta di un antropologo.
Nessun popolo, scrive Tacito, è più ospitale, perché per loro è inammissibile respingere qualcuno dalla propria casa. Tutti accolgono l’ospite a tavola e, se il cibo non basta, si recano dal vicino che fa lo stesso.
«Gente senza astuzia né malizia» scrive lo storico pensando alle congiure ordite nell’Urbe, «apre i segreti del cuore nella rilassata allegria del banchetto, sicché schietto e trasparente è il pensiero di tutti.»
Non prestano a usura e non amano gli sfarzi, nemmeno in occasione dei funerali, condotti con sobrietà estrema, bruciando il defunto su una semplice pira insieme ai suoi beni.
Quanto alle donne, esse «vivono in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali». Tanto candore nonostante la loro grande bellezza e i capelli biondi, molto apprezzati e ricercati dalle matrone romane per fabbricare sofisticate parrucche.
Eppure per Roma i Germani restarono sempre uomini “inferiori”, da sottomettere e civilizzare. Tacito riporta il loro ordine e disciplina e anche il modo peculiare con cui questi barbari del Nord combattevano.
Prevaleva l’attacco fulmineo, condotto in alcuni casi in una specie di stato di trance ottenuto grazie a sostanze psicotrope. All’ardore in battaglia si accompagnava il suono del corno e un tipico ululato di guerra, detto dai Romani barditus, che eccitava gli animi e infondeva coraggio.
«Non ritengono il ritirarsi» scrive Tacito «un atto di viltà, ma solo un segno di prudenza purché si torni a combattere». Disonorevole era invece abbandonare in battaglia lo scudo o il compagno ferito: chi si macchiava di tali colpe era escluso dalla società o addirittura messo a morte.
Note
GAIO MARIO CONTRO I CIMBRI E TEUTONI
Sulla loro origine si è a lungo dibattuto e oggi pare acclarato che, più che Germani, fossero Celti, sebbene con costumi germanizzati.
Sta di fatto che, durante il II secolo a.C., quando le tribù dei Cimbri, dei Teutoni e degli Ambroni mossero dalle loro terre d’insediamento (lo Jutland, nell’attuale Danimarca), si determinò un’imponente migrazione che mise a soqquadro l’intera Europa centrale.
Spinti da mutamenti climatici o da un’improvvisa impennata demografica, interi popoli, comprese donne, bambini e anziani, con carri e mandrie al seguito, cominciarono a spostarsi verso Sud, fino a incontrare i due confini fluviali rappresentati dal Reno (in direzione della Gallia) e dal Danubio (sulla strada per i Balcani).
Fu quest’ultima la meta prescelta da Cimbi e Teutoni nella prima fase della migrazione, con il risultato di finire a scontrarsi con i Taurisci nel Norico (Austria), popolazione di origine celtica in buoni rapporti con i Romani, ai quali si rivolse per ottenere aiuto e protezione.
Prudentemente, anche i Cimbri mandarono ai consoli romani i propri ambasciatori, con la consegna di scusarsi per il loro comportamento ma anche di rivendicare terre e pascoli dove insediarsi.
Roma non poteva permettersi di aprire le porte dei Balcani ai nuovi venuti e il console Papirio Carbone cercò di far cadere i Cimbri in un tranello: affidò loro delle guide prezzolate che, invece di scortarli verso nuove terre, avrebbero dovuto attirarli in un’imboscata.
Nella zona, Roma disponeva di circa 30 mila legionari, inferiori di numero ai Cimbri, ma contava di prevalere grazie alla disciplina delle truppe e alla superiorità strategica dei comandanti militari; d’altronde questo trucco era già riuscito contro altri popoli celtici.
Ma i legionari si accorsero, a loro spese, che i Cimbri erano fatti di ben altra pasta: meno arrendevoli, più tenaci nel corpo a corpo e per nulla soggetti a sbandarsi durante la battaglia.
Così, nel 113 a.C. Roma subì una rovinosa disfatta nelle foreste presso Noreia (vicino a Klagenfurt, in Carinzia), che avrebbe assunto i connotati di un disastro se una provvidenziale tempesta non avesse diviso i contendenti.
Seppur sconfitta, infatti, Roma era comunque riuscita a salvare i Balcani dall’invasione e contemporaneamente a impedire un riflusso dei Cimbri e dei loro alleati verso la Pianura Padana, rimasta sguarnita.
I Cimbri ripassarono il Danubio verso settentrione, sostarono per qualche tempo in Baviera e infine presero la strada della Gallia. Qui trovarono una situazione ben diversa da quella danubiana.
Le tribù celtiche da poco assoggettate dai Romani, infatti, erano pronte a sollevarsi contro gli oppressori; e così accadde, dopo che nel 109 a.C. i Cimbri riscossero i primi successi negli scontri con le legioni di Roma.
I Tigurini, al comando di Divicone, penetrarono nella Provincia romana e, dopo un’iniziale sconfitta per mano del console Lucio Cassio Longino, si presero una straordinaria rivincita nella battaglia di Ager, sulle rive della Garonna, dove lo stesso console perse la vita e i legionari superstiti furono umiliati con il passaggio sotto il giogo.
Dopo questi avvenimenti, altre tribù rialzarono la testa: perfino un centro urbano come Tolosa si ribellò a Roma che, nel 106 a.C., fu costretta a organizzare una nuova spedizione per sedare la rivolta.
L’anno dopo in Provenza, ad Arausio (oggi Orange), in tre successivi scontri ravvicinati contro Cimbri, Teutoni, Ambroni e Tigurini riuniti, Roma conobbe una nuova disastrosa sconfitta, che di fatto avrebbe spalancato a questi popoli le porte della Gallia e della stessa Italia.
Per fortuna di Roma, i Cimbri, invece di dedicarsi a razziare la Penisola Iberica, si fermarono, e soltanto nel 102 a.C. tornarono a fianco dei Teutoni, rimasti in Gallia.
Il disegno era quello di attaccare l’Italia su tre fronti: i Teutoni spingendosi a sud costeggiando il Tirreno; i Tigurini attraverso le Alpi da nordovest; i Cimbri penetrando dal Brennero.
Tale strategia favorì Roma e il console Gaio Mario, che aveva avuto il tempo di addestrare alla perfezione le sue legioni e si ritrovò nell’insperata situazione di poter affrontare un nemico diviso.
Decise di muovere incontro ai Teutoni prima che potessero raggiungere la Liguria: sbaragliata l’incauta avanguardia degli Ambroni, che aveva ingaggiato battaglia senza attendere il grosso delle truppe, il console romano attirò i Teutoni ad Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), dove vennero presi tra due fuochi e facilmente annientati.
Il collega di Mario, Quinto Lutazio Catulo, non ebbe altrettanta fortuna e non riuscì a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero, dilagando nella pianura dell’Italia Settentrionale.
Fu nell’estate del 101 a.C., a Vercelli, nel la Gallia Cisalpina, in una località chiamata Campi Raudii, che ebbe luogo lo scontro decisivo. La ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull’impeto dei barbari, e almeno 65 mila di essi (tra cui il loro capo, Boiorige) perirono.
Le donne e la maggior parte dei capi, pur di non cadere in mano al nemico, si diedero la morte. Gli altri furono fatti prigionieri. Teutobodo, sovrano dei Teutoni, fu catturato insieme ad altri 20 mila uomini e consegnato a Mario.
Trascinato per le strade di Roma durante il corteo trionfale, venne poi trucidato pubblicamente subito dopo la cerimonia.