La mattina del 1° novembre 1755, festa di Ognissanti, Lisbona si risvegliò presto.
I fedeli, in piccoli gruppi, iniziarono a incamminarsi lentamente verso le chiese cittadine per partecipare alle solenni funzioni sacre, mentre nell’odierna Praça do Comércio – allora conosciuta come Terreiro do Paço (Piazza del Palazzo) perché vi sorgeva il Palazzo reale – cominciava il solito via vai quotidiano di persone e carri.
Sembrava un qualsiasi sabato di inizio novembre fino a che, attorno alle nove e mezza del mattino, una scossa improvvisa fece sussultare violentemente il terreno.
Era l’inizio di quello che i geologi avrebbero ricordato come uno dei peggiori eventi sismici della storia: il grande terremoto di Lisbona del 1755.
Ma come sono andate esattamente le cose? Scopriamolo insieme!
1. In fuga sulle colline e lo tsunami
- In fuga sulle colline
Le testimonianze dell’epoca documentano dettagliatamente l’impatto catastrofico delle tre scosse – la seconda delle quali di violenza eccezionale – che rasero al suolo Lisbona in poco più di dieci minuti.
Un commerciante inglese che si era stabilito nella capitale portoghese, John Fowkes, stava chiacchierando con due amici presso la Casa de Cuentas (Casa dei Conti) quando vide il suolo fendersi, ed enormi blocchi di pietra staccarsi dalle facciate degli edifici circostanti.
Non appena la scossa cessò, Fowkes corse verso la chiesa di São Nicolau, “ma l’orrore a cui assistemmo”, ricordò, “ci confuse le menti.
Molti erano già morti, e coloro che erano feriti – orribile spettacolo – gridavano implorando pietà, confortati dai sacerdoti che li confessavano e li assolvevano”.
Fowkes decise di girare intorno alle rovine della chiesa, e di dirigersi verso la vicina Praça do Rossio, avanzando a tentoni sopra i cumuli di macerie che riempivano interamente la Rua dos Arcos.
Lì incontrò sua moglie e i suoi figli, accompagnati da due servitori. Una volta ritrovatasi, la famiglia cercò rifugio sulle colline circostanti, dove si erano radunati molti sopravvissuti al terremoto.
Da lì, Fowkes poté vedere il grande incendio – probabilmente causato dalle candele e dai bracieri accesi nelle case – che stava divorando il centro di Lisbona, distruggendo i pochi edifici rimasti in piedi dopo il sisma. - Lo tsunami
Sorte peggiore toccò a chi aveva cercato rifugio sulle rive del Tago.
Alle dieci del mattino, infatti, il mare si ritirò all’improvviso, lasciando a secco le barche nel porto.
Le persone che si affollavano lungo le banchine non ebbero il tempo di chiedersi il perché del fenomeno: prima delle undici, infatti, un’onda alta quasi venti metri si abbatté sulla spiaggia, travolgendo qualunque cosa incontrasse e penetrando nella città per centinaia di metri.
Altre ondate di maremoto seguirono alla prima, con potenza decrescente: al termine di questo autentico tsunami, il Palazzo Reale sulle sponde del fiume Tago non esisteva più, e come lui decine di altri palazzi del centro.
La famiglia reale si salvò per puro caso: quella mattina, infatti, aveva deciso di assistere alla messa nella chiesa del grandioso Monastero dos Jerónimos, situato nella parte occidentale della città, poco colpita dal sisma.
2. Le chiese crollate
Si calcola che circa un terzo dei 250.000 abitanti di Lisbona morì durante il terremoto.
Buona parte delle vittime perse la vita nella Città Bassa, sotto le macerie degli edifici sventrati dal sisma.
In particolare, furono numerosissimi i morti tra i fedeli che quel giorno, data la festività di Ognissanti, affollavano più del solito le tante chiese cittadine.
São Paulo, Santa Caterina, São Vicente de Fora: sono solo alcuni dei nomi delle decine di chiese che collassarono quel mattino, seppellendo i fedeli riuniti per la messa.
Ancora oggi, uno di questi templi sopravvive nel cuore di Lisbona, come uno scheletro che ricorda ai passanti la tragedia del 1755: si tratta della chiesa del Convento do Carmo (foto sotto), un grande edificio gotico che il sisma ridusse alle sole pareti e che oggi è un museo archeologico.
L’incendio e il maremoto non fecero meno danni di quanti ne avessero fatti le scosse. Nell’Hospital Real de Todos los Santos, il principale ospedale pubblico della città, perirono tra le fiamme centinaia di pazienti, impossibilitati a fuggire a causa dell’infermità.
Nel Terreiro do Paço, il Palazzo Reale, i morti furono di meno, ma l’onda di maremoto trascinò via molte opere d’arte e gran parte dei 100.000 volumi della biblioteca di José I.
Anche la Real Casa da Ópera (il teatro regio), inaugurata pochi mesi prima, non fu risparmiata dal sisma, e così l’archivio di Stato. Gran parte delle bellezze e dell’arte di Lisbona furono distrutte in pochi minuti.
L’impatto del terremoto fu tale che persino il re José I non ebbe più la forza di tornare a vivere nel centro città, preferendo alloggiare fino alla morte (1777) in un palazzo di legno sulla vicina collina di Ajuda.
3. Rinascere dalle ceneri e i danni subiti fino in Nord Africa
- Rinascere dalle ceneri
Gli abitanti di Lisbona reagirono con coraggio al disastro.
Il primo ministro, il marchese di Pombal (1699-1782), coordinò i soccorsi iniziali, in accordo con il principio: “Seppellire i morti e nutrire i vivi”.
Per prima cosa, dunque, organizzò gli interventi per spegnere gli ultimi incendi, estrarre i cadaveri dalle macerie e tumularli, così da evitare epidemie.
Successivamente, ordinò a un gruppo di architetti di pianificare la ricostruzione della zona più colpita dal terremoto, la Baixa (Città Bassa). I nuovi edifici vennero edificati su grossi piloni di legno e dotati di strutture antisismiche.
Per verificarne la stabilità, si costruirono diversi modellini in scala e si simularono gli effetti del terremoto facendo passare vicino a essi la cavalleria al trotto. Dopo un anno Lisbona era di nuovo in piedi.
Dopo il terremoto del 1755, José i e la famiglia reale, terrorizzati all’idea di risiedere ancora in un edificio in muratura, si trasferirono sulle colline di Ajuda, un’area a ovest del centro cittadino (oggi parte integrante di Lisbona) risparmiata dal sisma.
Lì abitarono per alcuni anni in una sorta di accampamento di lusso, un complesso di tende ed edifici di legno che prese il nome di Real Barraca.
Nel 1791, dopo la morte di José I (1777), un incendio distrusse l’accampamento, e allora Maria I, figlia ed erede di José I, decise di sostituirlo con un palazzo reale vero e proprio.
I lavori iniziarono nel 1802, ma si protrassero per oltre vent’anni a causa delle difficoltà politiche e finanziarie della corona.
Dal 1821, l’edificio, ancora incompleto, cominciò a essere usato per le cerimonie pubbliche solenni, e nel 1861 divenne residenza ufficiale della famiglia reale, che visse qui fino alla caduta della monarchia portoghese nel 1910. - Danni fino in Nord Africa
Gli effetti del terremoto del 1755 non si avvertirono solo a Lisbona.
Dal suo epicentro nell’Atlantico, 200 chilometri a sudovest di Cabo de São Vicente (la punta meridionale del Portogallo), il sisma si irradiò in tutta la Penisola iberica, colpendo soprattutto le città lusitane vicine alla foce del Tago (Peniche, Santarém, Setúbal) e quelle dell’Algarve.
In Spagna fece danni in Andalusia e a Madrid. A Cadice il mare si sollevò in “onde di grandezza smisurata”, trascinando con sé quanti cercavano rifugio nella baia prospiciente.
Il sisma colpì duramente anche molte città del Nord Africa, tra cui Tangeri e Algeri.
Eppure, malgrado l’ampiezza del disastro, quello del 1755 è passato alla storia come “il terremoto di Lisbona”; appellativo nato già all’epoca, sull’onda dell’impressione per una catastrofe che aveva (quasi) cancellato dalle carte geografiche una delle storiche capitali europee.
4. Un castigo divino?
Il disastro provocò anche un acceso dibattito intellettuale.
Ci fu chi, come il gesuita Gabriele Malagrida, sostenne che il terremoto era stato un castigo divino, da cui non ci si poteva sollevare se non pregando e facendo penitenza: una posizione che lo mise in urto con il marchese di Pombal, interprete del pensiero illuminista, che alla fine riuscì a fare incarcerare e giustiziare il gesuita.
Un altro grande esponente della filosofia dei Lumi, Voltaire, dedicò nel 1756 al terremoto un poema, che inizia invitando a
“contemplare quelle orrende rovine,
quelle macerie, quelle ceneri miserande,
quelle donne, quei bimbi ammucchiati gli uni sugli altri”.
Di fronte a un simile spettacolo, Voltaire si ribellò all’ottimismo metafisico di tanti teologi del suo tempo, come pure al pensiero di un filosofo come Leibniz secondo il quale noi “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, in quanto garantito da Dio.
A queste tesi Voltaire rispose polemicamente con un invito: recarsi a Lisbona e provare a chiedere, a quanti cercano i cadaveri dei familiari tra le macerie, se davvero nella loro sofferenza vedessero un segno della perfezione di Dio.
Voltaire non imbastì una polemica sul terremoto di Lisbona soltanto con il clero e con pensatori del secolo precedente, come Gottfried Leibniz, ma anche con il suo “miglior nemico” Jean-Jacques Rousseau, il filosofo ginevrino che proprio nell’età dei lumi si faceva invece interprete dei tormenti e del disorientamento che afferra l’individuo quando si trova a vivere in momenti di profonde trasformazioni culturali, economiche e sociali, come avveniva in quell’epoca, specie se questi rischiano di sminuire il senso dell’essere umano in sé.
Tutto l’opposto del razionalismo granitico del filosofo francese. Dopo il terremoto, Voltaire e Rousseau si confrontarono violentemente a distanza sul problema dell’ottimismo e del male sulla terra.
Per Voltaire, come si legge nel testo di questo articolo, il terremoto dimostrava che il mondo, e la natura, sono matrigne e non prodotti dell’infinita sapienza divina. E Rousseau, che già aveva accusato il collega di essere un “Giuda della confraternita illuminista”, gli rispose affrontando il problema da un diverso punto di vista, quello dell’uomo.
Scrisse: “La natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto”.
Si tratta di parole davvero profetiche, che ancora adesso meriterebbero di essere rilette, dato che ogni volta in cui oggi si verifica un grave terremoto, gli esperti continuano a ripetere che i sismi, se non si possono prevedere, si possono almeno prevenire, costruendo case e città in modo razionale e in grado di resistere ai movimenti tellurici .
5. Terremoto, maremoto, incendio: una catastrofe in tre atti
Il sisma che rase al suolo Lisbona nel 1755 fu uno dei più violenti della storia.
Si calcola che ebbe una magnitudo di 8,7 gradi della scala Richter, un centinaio di volte maggiore di quella del terremoto di Messina del 1908, provocando circa 10.000 morti, a causa dell'effetto combinato del terremoto, dello tsunami che fece seguito alle scosse e di un incendio alimentato dal vento.
La violenza del sisma fu tale che le scosse furono avvertite in mezza Europa: dalla Francia alla Svizzera, dalla Germania all'Italia e persino in Svezia.
Danni ingenti e morti vi furono anche a Madrid, Cadice e Siviglia, ma soprattutto in Africa: Tangeri e Algeri vennero semidistrutte, così come Rabat e altre città del Marocco.
- Il maremoto
Circa un’ora dopo il terremoto, un’onda alta circa 20 metri si abbatté sul porto, uccidendo migliaia di persone e distruggendo i palazzi affacciati sul fiume. - L’incendio
Ai danni provocati dal sisma e dal maremoto si aggiunsero quelli di un violento incendio che, sostenuto dal vento, fece ardere Lisbona per cinque giorni. - Fuga verso i moli
Dopo la prima terribile scossa, molti abitanti di Lisbona corsero a rifugiarsi sulle banchine del fiume Tago, lontano dalle case: lì furono sorpresi dal maremoto. - Il Palazzo Reale
Il Palazzo Ribeira, con il suo torrione affacciato sul Tago e sormontato da una grandiosa cupola, fu raso al suolo dal maremoto, che devastò la piazza antistante. - Sei minuti di paura
Le tre scosse di terremoto durarono ben sei minuti, crearono voragini nel terreno larghe due metri e distrussero gran parte dei palazzi e delle chiese della Città Bassa.