Autori dei crimini più efferati, diversi nazisti riuscirono, a guerra finita, a fuggire facendo perdere le proprie tracce.
Molti di loro si rifugiarono in Sudamerica, altri in Africa. Finché grazie agli sforzi di Simon Wiesenthal e di altri cacciatori non furono quasi tutti trovati e processati.
E in alcuni casi, complice il Mossad (il servizio segreto israeliano), giustiziati. Ecco le drammatiche storie di 5 criminali nazisti.
1. Adolf Eichmann: la “banalità del male”
A Gerusalemme l’11 aprile 1961 il mondo si fermò per assistere al processo in cui era imputato un uomo di 55 anni scialbo, calvo e miope.
Il suo nome era Adolf Eichmann ed era accusato di genocidio e di crimini contro l’Umanità.
Eichmann era stato un efficiente ufficiale della Gestapo e nel gennaio 1942 aveva partecipato alla famosa conferenza di Wannsee nel corso della quale era stata messa a punto la “soluzione finale del problema ebraico”, cioè lo sterminio programmato di tutti gli ebrei presenti nei terrori occupati dai nazisti.
Eichmann era accusato di aver disposto la deportazione e l’uccisione degli ebrei ungheresi tra marzo e dicembre 1944: su 400mila persone catturate, ben 275mila erano morte asfissiate nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Israele, lo Stato ebraico nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ora chiedeva giustizia.
A Gerusalemme quel giorno non era solo Eichmann ad essere sotto accusa bensì la stessa coscienza dell’Umanità, costretta a guardarsi impietosamente allo specchio e a riconoscere le proprie responsabilità su un genocidio che aveva coperto di vergogna la specie umana.
Modesto funzionario del partito nazista, Eichmann era divenuto quasi subito un esperto in “questioni ebraiche” e come tale si era distinto tra i fautori del “piano Madagascar”, che prevedeva di deportare gli ebrei tedeschi nell’allora colonia francese ma che poi era stato messo da parte in favore di una “soluzione” più sbrigativa ed economica.
Attivo e solerte, era molto apprezzato dai suoi superiori per la sua solerzia burocratica e il meticoloso senso dell’organizzazione.
A guerra finita Eichmann era stato catturato dagli alleati ma era riuscito a evadere nel 1946 per poi emigrare, complici gli ambienti ultraconservatori e alcuni ex ufficiali delle SS, in Argentina con tutta la famiglia grazie a documenti falsi.
Nell’ospitale terra di Perón si era costruito una nuova identità (aveva assunto il nome di Riccardo Klement), ottenuto un nuovo lavoro (da operaio nelle officine della Mercedes Benz) e iniziato una nuova vita.
Era tuttavia consapevole che Simon Wiesenthal, il grande “cacciatore” di nazisti, si era messo sulle sue tracce e che il Mossad (servizio segreto israeliano) lo ricercava attivamente.
Per evitare di essere smascherato adottò mille precauzioni, ma ironia della sorte fu uno dei suoi familiari a tradirlo. Per far colpo su una giovane amichetta il figlio adolescente si vantò dei propri sentimenti antisemiti dicendole di chiamarsi Klement/Eichmann.
La ragazza, figlia di un superstite del campo di Dachau, avvisò il padre che trasmise la cruciale informazione al procuratore tedesco Fritz Bauer, che a sua volta, di nascosto, la passò al Mossad.
Nacque così l’Operazione Eichmann, con lo scopo di trascinare l’ex nazista davanti al tribunale israeliano. Israele però sapeva bene che l’Argentina non avrebbe mai concesso l’estradizione: per portare il criminale a Gerusalemme non restava che organizzarne il rapimento.
Se ne incaricò il Mossad impegnandosi in una di quelle azioni che ne avrebbero fatto uno dei più efficienti servizi segreti al mondo. Il 23 maggio 1960 Ben Gurion, con voce rotta dall’emozione, annunciò alla Knesset, il parlamento israeliano, l’arresto di Eichmann.
Tra i giornalisti che seguirono il processo c’era anche la filosofa Hannah Arendt: ascoltando gli interrogatori giunse alla conclusione che il male non è il prodotto di cervelli specificamente malvagi bensì la creazione di personaggi ordinari e mediocri che, in determinate circostanze, rinunciando alla propria coscienza e al proprio libero arbitrio, finiscono per precipitare nell’abisso.
Nella Germania nazista la “banalità del male” si incarnò in Adolf Eichmann come in molti altri. Fu giustiziato nel 1962.
2. Eduard Roschmann: il “macellaio” di Riga
Non tutti gli storici hanno creduto all’esistenza di Odessa (acronimo di “Organizzazione degli ex appartenenti alle SS”), la rete internazionale che si credeva fosse alla base delle sistematiche fughe dall’Europa degli ex ufficiali nazisti.
Fughe che, per tali studiosi, erano dovute piuttosto a circostanze speciali ed occasionali, non a una organizzazione segreta strutturata.
Simon Wiesenthal, invece, era più che sicuro dell’esistenza di una rete creata proprio per aiutare i nazisti in fuga.
Il celebre romanzo di Frederik Forsyth Dossier Odessa e il film omonimo che ne fu tratto contribuirono al consolidamento della teoria di Wiesenthal, che del resto si basava su fatti reali e sulla incredibile facilità con cui tanti nazisti riuscirono a lasciare l’Europa.
E il protagonista del Dossier è Eduard Roschmann, il “macellaio” di Riga, interpretato nel film dall’attore Maximilian Schell.
Di origine austriaca, nazista entusiasta, Roschmann fece una rapida carriera nell’ambito delle SS raggiungendo a 32 anni il grado di capitano e ritrovandosi, a partire dal gennaio 1941, a capo del ghetto di Riga (Lettonia) e del campo di sterminio costruito nelle immediate vicinanze, il Riga-Kaiserwald.
Qui Roschmann si guadagnò pienamente il soprannome di “macellaio”. Più che nel campo di sterminio, che pure funzionava a pieno ritmo, era infatti nel ghetto che Roschmann amava sfogare la sua bestiale furia omicida con spietate uccisioni individuali e di gruppo.
Definito di volta in volta “sadico”, “sanguinario”, “psicopatico”, a lui il tribunale di Graz prima e quello di Amburgo dopo contestarono l’uccisione di almeno tremila ebrei, di cui addirittura 800 bambini in tenerissima età. Purtroppo dopo la guerra gli alleati non riuscirono a mettere le mani su di lui.
L’organizzazione Odessa, strutturata o occasionale che fosse, riuscì a farlo fuggire nell’accogliente Argentina di Perón, dove l’ex nazista avviò una fiorente attività di import-export, si sposò, acquisì la nazionalità argentina e iniziò una nuova vita.
Grazie alle ricerche di Simon Wiesenthal, che ne aveva individuato con precisione il rifugio, il tribunale di Amburgo ne richiese l’estradizione nel 1977.
La ottenne perché la Giunta militare allora al potere in Argentina si stava sforzando di guadagnare qualche apprezzamento sul piano internazionale ma Roschmann, misteriosamente informato dei fatti, fuggì in Paraguay appena in tempo per evitare l’arresto, sperando forse di farla nuovamente franca.
Il destino tuttavia decise altrimenti. Un mese dopo il suo arrivo a Asunción, Roschmann morì all’improvviso: stroncato, si disse, da un attacco cardiaco.
Eliminato, secondo altri, dal Mossad, ferocemente contrario all’idea che il “macellaio di Riga”, tra cavilli giuridici e ostacoli politici all’estradizione, potesse sfuggire alla giusta punizione.
3. Karl Silberbauer: l’uomo che arrestò Anna Frank e la sua famiglia
La sua storia sarebbe caduta nel dimenticatoio come quella dei tanti ufficiali nazisti che si “limitarono ad eseguire gli ordini”.
Invece quella di Karl Silberbauer è assurta agli onori delle cronache per aver provocato una vittima illustre: Anna Frank, la ragazzina ebrea autrice dello straordinario “Diario” in cui raccontò l’angoscia della clandestinità cui fu costretta, con un gruppo di amici e familiari, in una soffitta di Amsterdam fino alla deportazione e alla morte, a Bergen Belsen, nel 1945. aveva solo sedici anni.
Di origini viennesi, Silberbauer nel novembre del ’43 era stato trasferito ai Servizi di Sicurezza olandesi a l’Aia dove, in forza all’ufficio IV B4, si occupava dei rastrellamenti. Il 4 agosto ’44 ricevette l’ordine di indagare su una soffiata relativa ad alcuni ebrei nascosti in un edificio di Amsterdam.
Alla sortita seguì l’arresto degli occupanti, una famiglia ebraica di origine tedesca: tra loro l’imprenditore Otto Frank, la moglie Edith e le figlie Margot e Anna Frank. Otto riuscì a sopravvivere al lager e al ritorno pubblicò il diario che Anna aveva compilato durante i due anni trascorsi nel nascondiglio.
Nessuno sapeva chi fosse stato ad arrestarli. Provò a scoprirlo Simon Wiesenthal ma l’impresa non fu facile. In appendice al diario si leggeva che un certo Paul Kraler aveva parlato di una SS viennese di nome Silvernagl ma quel cognome in Austria non esisteva.
Pensando che Kraler avesse malinteso una lettera del nome, Wiesenthal concentrò le sue indagini sulle varianti ma senza successo. Tentò anche di coinvolgere il padre di Anna, ma Otto non se la sentiva di incolpare un ufficiale che si era limitato a eseguire gli ordini.
Ormai sul punto di abbandonare, Wiesenthal ricevette da un alto funzionario della polizia olandese una copia fotostatica dell’elenco telefonico del 1943 della Gestapo in Olanda. Giunto alla pagina “IV, Sonderkommando” ebbe un sobbalzo: tra i nomi degli ufficiali c’era un Silberbauer.
Telefonò al Ministero degli Interni e scoprì che sei uomini con quel nome militavano ancora nella polizia di Vienna. Poi il silenzio. L’11 novembre 1963 il giornale Volksstimme titolò che l’ispettore Karl Silberbauer era stato sospeso “in attesa di accertamenti” per via del ruolo ricoperto nel “caso Anna Frank”.
Wiesenthal volle vederci chiaro e diede l’indirizzo di Silberbauer a un giornalista olandese. Quando questi andò a parlargli, si trovò davanti un uomo frustrato e depresso.
“Perché prendersela con me dopo tanti anni?”,disse. “Ho fatto solo il mio dovere. Avevamo appena comprato dei mobili nuovi a rate, e adesso mi hanno sospeso dal servizio. Come farò a pagarli?”.
Il diario di Anna l’aveva sfogliato, ma solo per vedere se il suo nome era stato citato: non c’era, quindi era tornato a dormire sonni tranquilli.
Quando il giornalista gli fece notare che avrebbe potuto essere il primo a leggerlo già quel giorno del ’44, rispose laconico: “È vero, non ci avevo mai pensato. Forse non avrei dovuto lasciarlo per terra”. Se lo avesse fatto, nessuno avrebbe mai sentito parlare né di lui né di Anna Frank.
4. Herberts Cukurs: lo sterminatore degli ebrei lettoni
Nel febbraio 1965, un corrispondente anonimo avvertì l’Associated Press a Bonn che il corpo di un ex ufficiale della Gestapo si trovava in una casetta isolata alla periferia di Montevideo, fornendo tutte le indicazioni utili per ritrovarlo.
L’agenzia di stampa chiamò quindi il suo ufficio a Montevideo che, a sua volta, allertò la polizia uruguaiana. Nel luogo indicato gli agenti trovarono un baule giallo.
Vi giaceva un cadavere sul cui petto era appoggiato un biglietto con questo avviso : “Vista la gravità dei fatti di cui si è reso responsabile l’accusato, e cioè la personale supervisione del massacro di più di 30mila ebrei uomini, donne e bambini, considerata anche la straordinaria crudeltà di cui ha dato prova nella realizzazione di tali eccidi, Herberts Cukurs è stato condannato a morte. La sentenza è stata eseguita il 23 febbraio 1965 da coloro che non dimenticheranno mai”.
Pochi ebbero dubbi sul fatto che si trattasse di un colpo del Mossad, che evidentemente si incaricava di “fare giustizia” visto che gli sterminatori nazisti rifugiatisi in America Latina riuscivano quasi sempre a sfuggire all’estradizione in Europa.
Herberts Cukurs era l’ennesimo criminale che aveva tentato di farla franca. Aviatore lettone, membro attivo del partito nazista locale, durante la guerra si era guadagnato la reputazione del boia.
Il 4 luglio 1941 fece rinchiudere 300 ebrei nella sinagoga di Riga e la fece incendiare. Qualche mese più tardi, organizzò la distruzione totale del ghetto cittadino trucidandovi indiscriminatamente più di mille persone.
Non ancora soddisfatto, nel dicembre dello stesso anno organizzò il massacro di Rumbula (una pineta di Riga) dove in due giorni furono annientati 27.800 ebrei. Un vero demonio che gli Alleati dopo la guerra avrebbero volentieri catturato e giudicato.
Anche Curkus nel 1947 riuscì, come tanti nazisti, a raggiungere il Brasile. Qui riprese il suo lavoro di aviatore, creò una compagnia di aereo-taxi, si sposò con una brasiliana ed ebbe tre figli.
Godendo della protezione delle autorità locali si sentiva al sicuro, tanto che a volte non nascondeva nemmeno le sue origini e il suo vero nome.
Il Mossad si rese conto che catturarlo in Brasile sarebbe stato troppo difficoltoso, così nel 1965 quattro agenti esperti, guidati da Yakov Meidad (sotto il falso nome di Anton Kuenzle), lo attirarono in una trappola fuori da Montevideo, in Uruguay. E qui eseguirono la “sentenza”.
5. Klaus Barbie: il boia di Lione
Grazie alla tenacia e all’impegno di Serge e Beate Klarsfeld, tra i maggiori cacciatori di nazisti, fu scovato in Bolivia, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, il “boia di Lione”, Klaus Barbie.
Ufficiale delle SS in servizio presso l’Ufficio Centrale di Sicurezza (SD), nel 1943 Barbie fu nominato Capo della Gestapo per la regione lionese grazie alla sua eccellente conoscenza della lingua francese.
Nel quartiere generale della Gestapo di Lione dimostrò tutta la sua crudeltà e il suo fondamentalismo ideologico ricorrendo ai più inumani strumenti di repressione.
Risulterà alla fine responsabile della deportazione verso i campi della morte di centinaia di ebrei e maquisards, i patrioti francesi: tra loro un gruppo di 44 bambini ebrei che si trovavano in una colonia di vacanza nel villaggio di Izieu e che furono spediti, con i loro 7 insegnanti, verso il campo di Auschwitz, da cui non avrebbero fatto più ritorno.
Infliggendo ai partigiani catturati le più tremende torture Barbie riuscì a scovare uno dei più celebri maquisard, Jean Moulin, che giustiziò insieme ad altri subito dopo l’arresto.
Finita la guerra, “il boia” cercò di far perdere le proprie tracce assumendo una falsa identità e mimetizzandosi tra la popolazione e ci riuscì: fu quindi condannato a morte in contumacia dal tribunale militare di Lione nel 1947.
Di lui non si saprà più nulla fino agli inizi degli anni Sessanta, quando i coniugi Klarsfeld ritennero di averlo individuato in un tale che, in Bolivia, si faceva chiamare Klaus Altman. Molti giurarono che non si trattasse della stessa persona.
Ma durante un’intervista con il giornalista Ladislas de Hoyo, l’ex ufficiale della Gestapo si tradì: egli aveva cercato di far credere di non parlare minimamente il francese - che il vero Klaus invece conosceva molto bene - ma quando il suo interlocutore gli domandò a bruciapelo se avesse mai vissuto a Lione, Barbie rispose quasi automaticamente, senza esitare e con una dizione francese perfetta.
Fu smascherato ma le autorità dovettero attendere la caduta del dittatore boliviano Hugo Banzer, che lo proteggeva, per poterne ottenere, nel 1983, l’estradizione in Francia. Barbie fu sottoposto a processo e giudicato dalla corte di assise di Lione.
Le prove e le testimonianze contro di lui si rivelarono schiaccianti. Un telegramma in particolare attestava, senza possibilità di smentita, che era stato proprio lui ad avviare verso la morte i 44 bambini di Izieu.
Il 4 luglio 1987 fu condannato all’ergastolo. Klaus Barbie non sembrò affatto pentito dei suoi crimini. Al presidente del tribunale che gli chiedeva cosa avesse da dire in sua difesa, rispose semplicemente: “Era la guerra!”.