Come definire una religione che si è estinta da molti secoli?
Probabilmente si può abbozzare una risposta a questa domanda solo decidendo di confrontarla a un’altra forma religiosa che, invece, conosciamo meglio.
È ciò che è stato fatto grazie, essenzialmente, ai contributi fondamentali apportati da Georges Dumézil, il grande storico delle religioni francese, sull’organizzazione sociale e religiosa delle civiltà indoeuropee. Dunque, è in quest’ottica che la religione celtica deve essere esaminata.
I celti sono, insieme agli indiani, il popolo che sembra aver mantenuto, per l’arco più lungo di tempo, un quadro sociale tipicamente indoeuropeo fondato sulla tripartizione funzionale, ma anche, e soprattutto, che ha conservato una classe sacerdotale dominante: in India c’erano i brahmani; nei territori dei celti i druidi.
Con l’India condividono anche un sistema di governo che scinde il potere in due autorità: quella spirituale, rappresentata dai druidi, e quella temporale, incarnata dal re.
Certamente, questa concezione si ritrova in tutti i popoli di origine indoeuropea, ma in molti casi è rimasta solo un ideale puramente teorico, mentre in Irlanda, per esempio, questa organizzazione è sopravvissuta fino all’incirca al IV secolo d.C.
Da allora la religione celtica può essere conosciuta solo in relazione alla classe sacerdotale dei druidi. Questi ultimi, per così dire, erano la religione stessa.
Al contempo sacerdoti, responsabili dei sacrifici agli dèi, insegnanti, indovini, medici, genealogisti, musicisti, poeti, architetti, riunivano in loro tutte le funzioni più sacre.
Erano come dèi discesi tra gli uomini; il loro ruolo era quello di preservare l’equilibrio della creazione fino a che il fuoco e l’acqua non avrebbero di nuovo regnato soli e incontrastati.
Ma cos’è il druidismo e quale fu la sua origine? Scopriamolo insieme.
1. Le origini popolari del druidismo
Quale fu l’origine del druidismo?
Bisogna innanzitutto escludere le ipotesi relative a una possibile continuazione dello sciamanesimo neolitico commisto a un corpo di dottrine indoeuropee e concentrarsi piuttosto su ciò che i druidi stessi ci hanno comunicato riguardo alla loro «provenienza».
Nel racconto della battaglia di Mag Tured si dice che «i Tuatha De Danann abitavano le isole del Nord del mondo, imparando la scienza e la magia, il druidismo, la saggezza e l’arte. E superarono tutti i saggi delle arti del paganesimo» (Christian J. Guyonvarc’h, Les textes mythologiques irlandais, vol. I, Ogam-Celticum, Rennes 1980).
Le isole citate sono quattro e su ognuna di esse viveva un druido che regnava su una città: Morfesae a Falias, Esras a Gorias, Uiscias a Findias, Semias a Murias. Da lì provengono i talismani dei principali dèi irlandesi.
Anche Cesare ci informa che la dottrina dei druidi «è stata elaborata in Bretagna e, da lì, è passata in Gallia; ancora oggi, chi intende approfondirla perlopiù si reca sull’isola per istruirsi» (Giulio Cesare, De bello gallico, VI, 13).
Inoltre diversi autori riportano racconti meravigliosi su queste isole, non lontane dalle coste gallesi e bretoni; la mitologia irlandese ci conferma che alcuni eroi andavano a perfezionare la loro arte in Scozia. Cù Cuchulainn porterà con sé i rudimenti della magia, e in generale il viaggio nelle terre settentrionali assume un carattere iniziatico.
A proposito dei racconti tramandati dagli autori greci, quello di Plutarco sull’isola di Ogigia è uno dei più interessanti.
Infatti, lo storico greco parla di quest’isola come di quella in cui dormiva Kronos; ora, quest’ultimo, nell’interpretazione greca, è il Dis Pater gallico, dio dei morti e padre di tutti i viventi, così come il Dagda irlandese, chiamato Eochaid Ollathair, «padre potente», il quale con la sua clava uccide in questo mondo e resuscita nell’aldilà.
Il Dagda, il dio dei druidi, non è, logicamente, colui al quale si rivolgevano i sacerdoti per approfondire le loro conoscenze?
Chiaramente, non bisogna confondere le isole mitologiche con quelle reali, che ospitavano i santuari sacri a cui i druidi si recavano per perfezionare i loro sapere; tuttavia, è altrettanto vero che, se ci si propone di studiare il mito, non bisogna temere di riconoscere la sua piena realtà.
Le isole del Nord non appartengono al nostro mondo, ed è inutile volerle situare geograficamente, così come sarebbe vano tentare di ritrovare sulla Terra il monte Meru della tradizione indiana. Le isole reali, che furono luoghi di culto, sono per così dire immagini concrete, attualizzazioni delle isole mitiche da cui proveniva la conoscenza suprema.
Tuttavia, come Meru e Thule, la cui simbologia è molto simile, le isole mitiche dei celti sono situate a nord o a ovest (che peraltro spesso coincidevano: infatti, sembra che nel vocabolario celtico la sinistra e il nord fossero spesso confusi, così come la destra e il sud, il che spiega l’assimilazione della sinistra con l’ovest e poi di queste due direzioni con il nord, ritenuto la localizzazione dell’aldilà).
Una situazione che ci ricorda come questi luoghi mitici fossero concepiti come centri, o poli, da cui provenivano gli esseri primordiali e tutto il loro sapere.
Nella foto sotto, la divinità celtica Cernunnos (era lo spirito divinizzato degli animali maschi cornuti, specialmente dei cervi, un dio della fecondità, della virilità, della caccia della guerra, dell'abbondanza, degli animali, della natura selvaggia e anche della morte e l'oltretomba).
2. Le tre divinità di Dana
Può apparire curioso constatare come Il libro delle conquiste dell’Irlanda citi talvolta, ancora prima dell’arrivo dei Tuatha De Danann, numerosi druidi che convivono con gli abitanti dell’isola.
Eppure, la spiegazione non ha niente di tortuoso poiché anche per gli eruditi dell’Irlanda medievale un mondo senza druidi non era semplicemente concepibile.
Non è forse detto che i druidi crearono il cielo, la terra, il mare, il sole e la luna? Se alcuni ritennero che i druidi storici fossero i veri artefici di tutto questo, non stupisce che la creazione degli elementi fosse opera, appunto, degli dèi druidi.
Questo spiega anche come i loro eredi potessero avere pieno potere sugli elementi stessi. Ad ogni modo, come abbiamo affermato in precedenza, l’origine dei druidi non deve essere ricercata nell’ambito dell’umano.
Se i quattro druidi delle isole del Nord rappresentano i reggenti del mondo che posero le fondamenta della creazione, quelli primordiali del Tuatha De Danann sono tre e i loro nomi, Fiss, Fochmarc, Eloas («Sapere», «Ricerca», «Conoscenza»), riassumono in sé l’essenza della classe sacerdotale.
Questi tre druidi sono tre divinità, e il principio della triade non può, e non deve, essere preso alla leggera. Riflette infatti una concezione autenticamente tradizionale, relativa alla nozione indispensabile del rapporto tra l’unità e la molteplicità, che fonda anche l’organizzazione tripartita della società.
I druidi si situano dunque su un piano divino, e se è possibile che tutti gli dèi fossero druidi, l’inverso è altrettanto valido. Questo rapporto è quindi del tutto simile a quello che intercorre tra Brahma e i brahmani. È il culto, o il sacrificio, a fondare il mondo, e gli uomini che lo amministrano creano, in qualche modo, il culto stesso; sono dunque loro a fondare il mondo.
Riguardo alle triadi primordiali, non possiamo astenerci dal citare il paragrafo del Coir Anmann (Antica raccolta etimologica di nomi irlandesi, tanto di tribù quanto di singoli individui [N.d.T.].) dedicato alla triade denominata «Fothad».
È costituita da tre fratelli chiamati Aendia, «dio unico», Trendia, «dio forte» e Caendia, «dio bello». Ci viene detto che nacquero di notte: Aendia all’inizio, Trendia nel mezzo e Caendia al mattino.
Ma ciò che dobbiamo sottolineare è che queste tre divinità primordiali nascono, appunto, di notte, perché è dalle tenebre che proviene la luce della manifestazione. Questo aspetto può trovare conferma nelle informazioni fornite da Cesare sul Dis Pater gallico, il famoso dio notturno che, secondo i druidi, era il vero padre di tutti i Galli.
I nomi dei tre Fothad svelano ulteriori informazioni. «Fothad», infatti significa «base, fondamento, fondazione», e sembra proprio designare una triade fondamentale, come confermano i rispettivi nomi delle tre divinità.
Aendia non può che essere Lug, Caendia il Dagda e Trendia Ogma, ovvero «il campione, l’uomo forte» (in irlandese trenfer). Questa triade primordiale ci rimanda a ciò che sappiamo dei tre gunas indiani e delle loro personificazioni, Visnu, Siva e Brahma.
Del resto, la mitologia insulare lascia intravedere che i ruoli di questi dèi erano concepiti da diversi punti di vista, proprio come le ipostasi della trimurti induista. Infatti, in questa prospettiva, il primo termine della triade, e dunque il più importante, può variare.
Secondo alcuni, in origine era il nulla e Siva, signore del sonno e il grande distruttore, è considerato il primo dio. Per altri, invece, Visnu, l’aspetto coesivo, era quello originario, poiché nessuna forza può esistere senza coesione.
In definitiva, i punti di vista si equivalgono: nessuno dei principi può esistere senza gli altri due. Se si afferma la loro unità, ne consegue che possono essere considerati la manifestazione di un principio ancora superiore.
3. L’uomo primordiale e gli anziani del mondo
Ancora una volta è l’Irlanda a fornirci la prova dell’arcaismo della mitologia celtica.
Se è vero che il racconto di Tuan Mac Cairill venne largamente cristianizzato, possiamo tuttavia perdonare coloro che lo tramandarono in un’epoca in cui l’Irlanda non era più pagana da molto tempo.
Tuan giunse sull’isola con Partholon e fu l’unico sopravvissuto della sua truppa; assistette quindi alle varie conquiste dell’Irlanda sotto forma di diversi animali: prima di un cerbiatto, poi di un cervo, di un cinghiale, di un falco e infine di un salmone, che finì mangiato da una donna, la quale lo fece rinascere.
Tornò quindi ad assumere forma umana e fu un indovino (cioè un druido) molto rispettato, fino all’arrivo di san Patrizio, che lo battezzò.
Il ruolo dell’uomo primordiale appare chiaramente in questo racconto, in quanto Tuan tramanda un sapere millenario, è il depositario della tradizione e ha il compito di trasmetterla anche se la religione è cambiata.
Il suo caso, però, non è unico; esiste, infatti, nella mitologia irlandese un uomo ancora più anziano: si tratta di Fintan, che arrivò in Irlanda con le truppe di Cessair al momento della prima conquista.
Riuscì a sfuggire al diluvio e visse abbastanza a lungo da convertirsi al cristianesimo, come fece Tuan. È a Fintan che si farà appello, in qualità di druido più anziano e dunque più saggio, affinché la sovranità suprema di Tara venga conservata.
Inoltre, gli si attribuiva una padronanza perfetta dell’eloquenza, cosa che, per i celti, rappresentava una delle prove più incontestabili della saggezza di un uomo.
Nella Vigilia di Fingen si narra che Fintan aveva «sette catene di eloquenza sulla lingua», aspetto che lo fa assomigliare singolarmente alla descrizione di Ogmios fornita da Luciano di Samosata.
Secondo la tradizione irlandese, poi, esisterebbe un terzo uomo primordiale, noto col nome di Fennius Farsaid, al quale era attribuita l’invenzione del linguaggio, e in particolare della lingua gaelica.
Tuttavia, i primi due sono per noi i più interessanti. Il loro punto comune, al di là della loro straordinaria longevità, è quello di aver subito, nel corso della loro vita, un gran numero di metamorfosi animali.
Se quelle che riguardano Fintan non vengono menzionate nella Fondazione del regno di Tara né nella Vigilia di Fingen, sono invece ampiamente descritte in Il dialogo tra Fintan e il falco di Aichill.
Il protagonista passò dalle sembianze di salmone a quelle di un’aquila e poi di un falco, prima di ritrovare la forma umana. Questo dialogo tra Fintan e un falco non è per niente strano, se si tiene a mente la famosa dote, posseduta da alcuni iniziati, di comprendere «la lingua degli uccelli».
Inoltre, questo dialogo rimanda al racconto gallese di Kulhwch e Owen, nel quale l’eroe e re Artù, partiti alla ricerca di alcuni oggetti meravigliosi, dialogano successivamente con i più vecchi animali del mondo.
La metamorfosi non è legata, come alcuni hanno a lungo pensato, alla trasmigrazione delle anime o alla reincarnazione, bensì esprime uno stato di primordialità, anteriore e superiore all’essere umano. Le similitudini tra le fonti gallesi e irlandesi non finiscono qui.
Infatti, il testo della Fondazione del regno di Tara presenta uno schema relativamente vicino a quello del racconto gallese, benché quest’ultimo abbia un valore religioso assai ridimensionato.
In quello irlandese gli uomini partono alla ricerca di quelli che chiameremo gli anziani del mondo. Questi sono, evidentemente, i druidi, e sono ricercati per il loro sapere, per far sì che diffondano le loro conoscenze.
A rigor di logica, è il più longevo di loro a possedere il sapere maggiore; nel racconto irlandese si tratta di Fintan, mentre in quello gallese del salmone si tratta di Llyn Llyn, il più vecchio animale del mondo.
Più avanti avremo l’occasione di tornare sulla simbologia animale e sul significato della metamorfosi, ma già qui possiamo stabilire un parallelo tra le sembianze animali degli anziani della versione gallese e i molteplici stati conosciuti da Fintan, in qualità di uomo primordiale.
Gli anziani del mondo non devono essere considerati esseri umani, o quantomeno esseri limitati al solo piano umano; essendo, in un certo senso, all’origine dell’umanità, o comunque risalendo a essa, hanno un carattere superiore. La loro condizione è radicalmente differente perché anteriore a ogni uomo.
Il salmone è un simbolo druidico per eccellenza ed è dunque logico che sia questo animale a dare una risposta a Kulhwch, così come è normale che sia Fintan, il più anziano di tutti i druidi, a pronunciarsi in favore della sovranità di Tara.
Occorre notare, del resto, che Fintan visse per un certo tempo sotto forma di salmone. Questo leggendario gallese ha conservato, in una veste molto ridimensionata che non ha più molto a che vedere con un’autentica concezione religiosa, uno schema arcaico che risulta confermato dal confronto irlandese.
Che i saggi irlandesi siano uomini e che il racconto gallese metta in scena animali non pone grandi problemi, se si considera che due dei sapienti che appaiono nella Fondazione del regno di Tara attraversano diverse metamorfosi animali.
Il significato simbolico è lo stesso, in quanto un altro punto in comune tra i due racconti è la longevità dei personaggi, e da ciò dobbiamo riconoscere i detentori della conoscenza tradizionale sono esseri eccezionali, non limitati alla dimensione umana, sia dal punto di vista della materia che da quello del tempo.
4. L’uovo cosmico, il mito delle origini e riccio di mare fossile
Come abbiamo detto sopra, Plinio il Vecchio nel suo testo relativo all’uovo di serpente ha interpretato in modo troppo razionale un fatto mitico di rara importanza.
Infatti, se confrontiamo ciò che ci dice di quest’uovo il brillante naturalista romano con ciò che sappiamo del mito indiano dell’uovo cosmico, possiamo capire molte cose (Non è inutile rimandare a Françoise Le Roux, Christian J. Guyonvarc’h, I druidi, Ecig, Genova 2018, cap. 5).
All’inizio, questo mondo non era altro che non esistenza. Poi giunse all’essere. Si sviluppò. Divenne un uovo. Attese un anno e poi si schiuse. Una metà del guscio divenne d’argento, l’altra d’oro. Ciò che era argento è questa Terra.
Ciò che era oro è il cielo. La membrana esterna si trasformò nelle montagne. La membrana interna formò le nuvole e la nebbia. Le vene divennero fiumi. Il fluido interno, l’oceano (Chândogya Upaniṣad, 3, 19, 1-2).
L’uovo cosmico, Brahmanda, contiene l’embrione d’oro, Hiranyagarbha. Plinio ha preso per oro colato quello che è un mito cosmogonico, l’origine del mondo, la schiusa dell’uovo cosmico che è la causa di tutte le cose.
Alcuni obietteranno che i serpenti non hanno alcun ruolo in questo mito indiano, ed è vero. Ma non dobbiamo dimenticare che è impossibile ricalcare esattamente una tradizione su un’altra; il mito celtico era probabilmente differente dal punto di vista formale, ma la sostanza è identica.
Per giunta, il serpente ricopre un ruolo tra i più rilevanti in altri miti indiani delle origini. «L’Essere primordiale, a partire dal quale in principio si manifestarono tutte le cose, è tipicamente ofidico, ovvero concerne sia l’aspetto maschile che quello femminile della biunità divina»(Ananda K. Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio, Luni Editrice, Milano 2013).
Che l’uovo cosmico sia concepito da serpenti ci pare rientri perfettamente nel quadro di questa dottrina. La manifestazione del mondo deriva dall’uccisione del serpente che custodiva il flusso di questa manifestazione.
Il serpente rappresenta la divinità ab intra, immersa nelle tenebre; la nascita dell’uovo potrebbe coincidere con la morte di uno o dei serpenti. Non è detto che muoiano tutti, e non è nemmeno chiaro che, per appropriarsi dell’uovo, occorra rubarlo. Il rapitore deve fuggire a cavallo.
Ora, è del tutto improbabile che i serpenti riescano ad andare così veloce da sfuggire al galoppo di un cavallo. La mitologia indiana ha trasformato Indra nell’assassino del serpente, in una divinità che ruba e che non si fa scrupoli di utilizzare l’inganno per raggiungere i propri scopi.
Il ladro di cui parla Plinio sarebbe quindi un dio uccisore del serpente, che rubò un tesoro, un uovo d’oro, al fine di liberare il flusso della manifestazione?
Sembra difficile sostenerlo, ma è possibile che il racconto di cui Plinio aveva sentito parlare si avvicini più a questa ipotesi che all’inverosimile furto a opera dei druidi gallesi di un po’ di bava di serpente.
Quanto al cavaliere, appare altrettanto poco verosimile che abbia portato con sé un uovo concepito in modo così singolare; è infatti molto più probabile che il suo talismano fosse un «riccio di mare fossile» come quelli ritrovati in Francia, nei tumuli di Saint-Amandsur-Sèvre e Barjon.
Il riccio simboleggerebbe l’uovo del mondo, simbolo druidico se ce n’è uno, e il cavaliere deve essere stato giustiziato per l’unica ragione di aver portato un simile oggetto molto tempo dopo l’interdizione dei druidi in Gallia.
Possiamo dunque notare la parentela che sembra unire i miti celtici e quelli indiani. È possibile forse dedurne che la religione celtica non deve essere più considerata un politeismo caotico, panteista e immanentista, ma, al contrario, un pensiero religioso armonioso che concepiva, come l’induismo, un’unica causa per tutte le forme molteplici?
5. Il sid, la dimora degli dèi, e l’aldilà
La parola irlandese sid significa letteralmente «pace». Compare anche il gallese, sedos, a indicare «la sede, la dimora degli dèi».
Non potrebbe essere più chiaro.
Tuttavia, c’è una certa confusione sul tema, dovuta al fatto che i testi mitologici accordano significati diversi al termine sid: non solo «pace», ma anche «aldilà», «collina, terra» e infine, per estensione, «gente, abitanti del sid».
Analogamente, per lungo tempo si è dubitato circa la localizzazione dei sid e dell’aldilà, credendo si trattasse di due «luoghi» differenti. In realtà, gli abitanti del sid non sono sottomessi ai vincoli dello spazio e nemmeno a quelli del tempo.
Le varie localizzazioni, come quella che identifica i tumuli di Newgrange con la dimora del Dagda, non sono altro che riduzioni a parametri accessibili alla nostra comprensione.
La cosa più strana è che al mondo ultraterreno abbiano accesso non solo i defunti, ma anche alcuni esseri viventi. Nella maggior parte dei casi si tratta di eroi, di re, di guerrieri, o comunque di uomini straordinari. E generalmente vengono attratti da giovani donne innamoratesi di loro.
Ritroviamo questo tema nel Mabinogi di Branwen, figlia di Lyr, quando i nostri eroi ritornano in Bretagna con la testa mozzata di Brân. Resteranno sette anni a Harlech, cullati dai canti degli uccelli di Rhiannon, loro che credevano di esservi rimasti soltanto pochi giorni.
È una delle caratteristiche principali dell’aldilà, quella di non essere soggetto al tempo umano.
Così, nel racconto del viaggio di Brân, figlio di Febal, quando l’eroe rientra in Irlanda dopo molto tempo trascorso in un regno meraviglioso, uno dei suoi compagni, mettendo piede a terra, si riduce immediatamente in polvere, come se fosse morto da molti anni.
Le isole sono anche localizzazioni ricorrenti dell’aldilà celtico. Alcuni ricercatori, in questa varietà di descrizioni del regno degli dèi, hanno voluto vedere concezioni di culti o popoli differenti, tracce di un tempo preceltico o stratificazioni di credenze importate dalle diverse invasioni.
Ma, alla fine, è sempre lo stesso mondo che viene descritto. Collocarlo sottoterra o oltre il mare significa semplicemente situarlo al di là del tempo e dello spazio umani, insistendo sulla sua prossimità.
Il fatto che alcuni esseri umani, certamente eccezionali ma pur sempre mortali, vi potessero accedere accentua ancora di più questa impressione.
Ciò che bisogna sottolineare, riguardo al sid, è che è al contempo dimora degli dèi e dei defunti. Lì sono abolite non solo le nozioni comuni di spazio e di tempo, ma anche i ruoli e le classi sociali, dal momento che non hanno più nessuna utilità.
I viaggi verso il sid sono esperienze di «risalita della corrente» («Da lì, il mondo è in un certo senso controcorrente», Jaiminīya Brāhmana, III, 150, citato in Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio cit.): non sono più gli dèi che scendono nel mondo umano, bensì gli uomini che si dirigono verso quello divino.