Campioni dentro e fuori dal campo.
È lunga la lista degli atleti del secolo scorso che, pur avendo raggiunto i massimi livelli nelle rispettive discipline, misero a repentaglio la carriera e qualche volta la vita in nome di un ideale da difendere.
C’è chi si è battuto contro razzismo e guerre, chi contro regimi e dittature, chi per la propria identità nazionale, chi contro il maschilismo imperante.
Innumerevoli volte la storia delle competizioni sportive è attraversata da personaggi che non esitano a prendere posizione, consapevoli di trasformare il proprio talento in una bandiera da sventolare a favore di una causa. Spesso, pagandone il prezzo.
La verità, sentenziò una volta Nelson Mandela, è che “lo sport ha il potere di cambiare il mondo”.
Ecco 5 atleti controcorrente: quando essere diversi fa la differenza.
1. BRUNO NERI, DA MEDIANO A PARTIGIANO
Bruno Neri, nato a Faenza (Ra) nel 1910, è probabilmente l’unico calciatore di Serie A morto in un’azione partigiana.
Che il fascismo non piacesse a questo giocatore era cosa risaputa già prima della Resistenza.
In una fotografia scattata nel 1931 in occasione della partita inaugurale nel nuovo stadio di Firenze, è l’unico tra i calciatori della Fiorentina a non rivolgere all’autorità il doveroso saluto romano.
Nella squadra viola aveva debuttato in Serie B nel 1929 ed era diventato ben presto uno dei beniamini, protagonista anche della promozione alla serie maggiore. Nel 1936, quando già era passato alla Lucchese, Neri debuttò in Nazionale.
L’addio al calcio, invece, lo diede il 24 marzo 1940, quando militava nella squadra del Torino. Solo dopo qualche mese l’Italia sarebbe entrata in guerra a fianco della Germania.
Dopo che a Cassibile, il 3 settembre 1943, fu firmato segretamente l’armistizio con gli Alleati, Bruno Neri entrò a far parte della Resistenza nella sua nativa Faenza e divenne vice-comandante del Battaglione Ravenna.
Ma cadde in uno scontro con una pattuglia tedesca a Gamogna, lungo la Linea Gotica, il 10 luglio 1944.
Nella foto sotto, Firenze, 13 settembre 1931. Si inaugura il nuovo stadio calcistico: i giocatori della Fiorentina rivolgono alle autorità il saluto romano. Tutti tranne Bruno Neri, terzo da sinistra.
2. EMIL ZÁTOPEK, LOCOMOTIVA DEI DIRITTI
Emil Zátopek (1922-2000), è stato il fondista cecoslovacco più forte di sempre.
Il capolavoro della “locomotiva umana”, come lo chiamavano, furono le Olimpiadi del ’52 a Helsinki dove portò a casa tre ori (con record olimpico) nei 5.000 e 10.000 piani e nella maratona, gara che disputava per la prima volta nella sua carriera e che decise di correre solo all’ultimo minuto.
In Finlandia però aveva rischiato di non arrivare: non era partito con la squadra olimpica cecoslovacca, per protesta contro la federazione che aveva escluso un suo compagno accusato di avere simpatie anticomuniste.
Alla fine ci fu un dietrofront ufficiale ed entrambi gli atleti raggiunsero il villaggio olimpico con qualche giorno di ritardo.
Smise di correre nel 1956, ma nel 1968, l’anno in cui il terremoto della Primavera di Praga scosse la Cecoslovacchia, comparve tra i firmatari del Manifesto delle duemila parole a sostegno del riformismo liberale di Alexander Dubček.
Dopo che l’intervento sovietico spense i sogni di libertà, Zátopek pagò caro il suo coraggio: fu espulso dal Partito comunista, di cui faceva parte, e dall’esercito: finì a lavorare per oltre sei anni nelle miniere di uranio.
3. A LEZIONE DI DEMOCRAZIA DAL CORINTHIANS DI SÓCRATES
Amava definirsi “un uomo di sinistra e anticapitalista” e aveva una laurea in medicina, ma di mestiere faceva il calciatore.
Era un uomo dai mille talenti Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza (1954-2011), simbolo del Corinthians, squadra di San Paolo fondata nel 1910 da un gruppo di operai delle ferrovie in anni in cui il calcio era considerato uno sport d’élite.
In questa squadra si sperimentò una curiosa gestione democratica.
Nonostante il Brasile vivesse dal 1964 sotto una dittatura militare, instaurata con un colpo di Stato il 31 marzo di quell’anno, Sócrates non fece mai mistero delle proprie convinzioni socialiste e, anzi, lo si vide più volte in compagnia dell’allora giovane sindacalista Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, futuro presidente.
Il calcio per i brasiliani è sempre stato un affare molto serio e allora a controllare quella macchina dello spettacolo erano gli uomini del regime che dirigevano anche le squadre.
A partire dall’autunno 1982, Sócrates e i suoi compagni, rifiutando l’autorità dell’allenatore, decisero di allenarsi da soli e di votare a maggioranza pasti, orari, gestione finanziaria e tattiche della squadra.
La Democracia Corinthiana cominciò a vincere in campo e a ottenere visibilità, portando anche sulla maglietta la parola “democrazia” e lanciando il proprio slogan “Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”.
4. QUELLA VOLTA CHE JORGE CARRASCOSA DISSE NO
C’è stato anche chi ha saputo rinunciare alla propria carriera pur di lanciare un messaggio contro il dispotismo.
È il caso del terzino argentino Jorge Carrascosa, nato nel 1948 a Valentìn Alsina (Buenos Aires), tra i più fieri oppositori della giunta militare di Jorge Rafael Videla, al potere nel 1976 grazie a un golpe che instaurò in Argentina un regime di terrore che durò fino all’83.
Dopo epurazioni e arresti a tappeto, arrivarono i Mondiali del 1978 e proprio l’Argentina era il Paese ospitante. Una ghiotta occasione di propaganda per il nuovo regime.
Jorge Carrascosa, capitano dell’Huracán e difensore di prima scelta, detto “el lobo” (“il lupo”) per la sua grinta, lo sapeva e a sorpresa rinunciò alla convocazione. Fu l’unico a farlo.
“Fisicamente e dal punto di vista tecnico stavo benissimo”, spiegò Carrascosa, “ma è dentro di te, che devi essere in forma. E quello che stava accadendo mi faceva stare male. Non avrei potuto giocare e divertirmi, non sarebbe stato coerente”.
Nella foto sotto, Jorge Carrascosa con un giovanissimo Diego Armando Maradona.
5. VERA CÁSLAVSKÁ E IL POTERE DI UN GESTO
Come il suo connazionale Emil Zátopek, anche Vera Cáslavská (1942-2016) firmò, in piena Primavera di Praga (1968), il Manifesto delle duemila parole.
Nata (nel 1942) e vissuta a Praga, partecipò a tre Olimpiadi (Roma 1960, Tokyo 1964, Messico 1968), vincendo sette medaglie d’oro e quattro d’argento, ma la lista dei suoi traguardi è lunghissima.
Vera non pensava solo alla ginnastica e sfidò a muso duro il regime sovietico.
L’arrivo a Praga dei carri armati di Mosca, il 20 agosto 1968, la costrinse però a rifugiarsi nelle campagne della Moravia.
Il nuovo governo non se la sentì di negare a una ginnasta del suo calibro il permesso di partire per le Olimpiadi messicane del 1968.
Vera primeggiò, vincendo l’oro nelle parallele, nel volteggio, nel corpo libero e nel concorso individuale, e l’argento nel concorso a squadre e nella trave.
Il colpo di scena arrivò durante la premiazione per la gara del corpo libero, in cui la ginnasta ceca vinse l’oro insieme alla sovietica Larisa Petrik: durante l’esecuzione dell’inno sovietico Cáslavská rimase sempre a testa bassa.
L’atto di ribellione le costò l’esclusione dalle competizioni e il divieto a partecipare a eventi sportivi in patria e all’estero.
Note
La partita aperta contro il razzismo
Non pochi atleti afroamericani hanno manifestato contro le discriminazioni razziali sfruttando i grandi palcoscenici offerti da prestigiose competizioni sportive.
Come le Olimpiadi: è storica l’immagine dei velocisti Tommie Smith e John Carlos che nel 1968, durante l’edizione messicana dei Giochi olimpici, salirono sul podio dei 200 metri e alzarono un pugno coperto da un guanto nero abbassando la testa in segno di protesta.
Un’insubordinazione che piacque anche alla medaglia d’argento, il bianco australiano Peter Norman.
L’anno prima, nel 1967, il pugile Muhammad Ali (1942- 2016, Cassius Marcellus Clay prima della conversione all’islam) rifiutò di partire per il Vietnam.
In quanto colpevole di renitenza alla leva, le autorità lo fecero arrestare e gli tolsero anche il titolo di campione mondiale dei pesi massimi. Ma per il pugile il punto era un altro: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato ‘negro’”.
Più recentemente, nel 2016, il quarterback Colin Kaepernick e poi a ruota altri atleti neri (della Nfl e non) si sono inginocchiati o sono rimasti seduti durante l’inno americano per protestare contro il persistente razzismo negli Stati Uniti.