Dal 1926 al 1943 il regime deportò migliaia di uomini politici in località sperdute, lontani dalle proprie famiglie, costretti a vivere sotto stretta sorveglianza poliziesca, come comuni delinquenti.
Destino toccato a tutti i nomi più illustri dell’antifascismo. E, sorte beffarda, anche a Benito Mussolini.
Porto Ercole, isole di San Nicola, Favignana, Lampedusa, Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene (nella foto sotto), Pantelleria, Elba, Capraia, Gorgona, isole Tremiti: sono alcune delle destinazioni scelte dal regime fascista come residenza coatta per gli oppositori politici finiti in manette in un arco di tempo che va dal 1926, anno della trasformazione del Regno d ’Italia in una dittatura, fino alla caduta di Benito Mussolini del luglio del 1943.
Le più note tra queste località sono divenute, grazie al benessere conquistato nel dopoguerra, mete di soggiorni estivi, perdendo nella memoria di gran parte degli italiani ogni riferimento alla lunga storia di dolore e sofferenza legata alle persecuzioni politiche.
Ed è proprio la bellezza di questi luoghi ad aver contribuito a formare in molti italiani la convinzione che il regime fu umano e indulgente con i propri nemici interni, destinandoli a una lunga e piacevole villeggiatura piuttosto che rinchiuderli dietro le sbarre di un carcere.
E vero, il confino non fu un carcere duro, ma comunque una punizione ingiusta e crudele per persone senza altra colpa se non quella di opporsi alla dittatura.
1. Le "leggi fascistissime"
Alle località del nostro breve elenco si aggiungono decine di altre assai meno ridenti, individuate dai funzionari della polizia politica sulla base di precisi requisiti.
Innanzitutto, doveva trattarsi di paesi isolati, scelti tra le contrade più remote d ’Italia, lontani dalle principali strade di collegamento dell’epoca e dai centri urbani dove poteva covare il dissenso intellettuale e politico.
Luoghi per lo più del Meridione e dell'entroterra sardo, scelti accuratamente per l’arretratezza delle condizioni di vita delle popolazioni e per l'isolamento che le rendeva indifferenti a ogni evento politico.
I luoghi di confino, inoltre, dovevano essere lontani dalle frontiere nazionali. Quest'ultimo requisito fece sì che venissero escluse tutte le località a ridosso del confine alpino, dove maggiori dovevano apparire le possibilità di fuga.
Tutto ebbe origine nel 1925. Il 4 novembre la polizia aveva arrestato il deputato socialista Tito Zaniboni e il generale Luigi Capello con l'accusa di aver progettato un attentato a Mussolini; nell'aprile dell'anno successivo una donna irlandese, Violet Gibson, aveva cercato di uccidere il Duce sparando un colpo di pistola che aveva ferito di striscio (al naso) il capo del governo; l'11 settembre del 1926 un giovane anarchico, Gino Lucetti, aveva bucato il servizio d'ordine e scagliato una bomba contro l'auto di Mussolini.
Infine, il 31 ottobre dello stesso anno, nel corso di una visita del Duce a Bologna, si era consumato l'ultimo di una lunga serie di attentati, che aveva portato al linciaggio del giovane Anteo Zamboni.
Questa serie di minacce, vere o presunte, su molte delle quali gli storici faticano ancora oggi a essere concordi, determinò la necessità di introdurre norme più severe che consentissero di prevenire ogni attività contro il regime.
Furono adottate leggi liberticide che sospesero senza termine i diritti e le garanzie dello Statuto Albertino: le leggi cosiddette “fascistissime" che trasformarono il regno costituzionale in una dittatura e diedero poteri praticamente illimitati alle forze di polizia impegnate in una lotta senza quartiere agli oppositori di Mussolini.
Il regime in quegli anni godeva di un consenso quasi plebiscitario, ma le seppur poche voci dissidenti dovevano essere soffocate. Bisogna tenere presente che il confino non fu un’invenzione del governo fascista, ma una delle misure eccezionali a tutela dell'ordine pubblico che risalgono agli anni successivi all'unità nazionale (in particolare con la legge Pica del 1863 per la repressione del brigantaggio).
Un complesso di norme che prevedeva di fatto la sospensione delle garanzie statutarie a fronte di una situazione di emergenza, terminata la quale tutto sarebbe dovuto tornare nei limiti costituzionali.
Fu la Legge di Pubblica Sicurezza approvata nel 1926 che sostituì al domicilio coatto il confino di polizia, e cioè il provvedimento che imponeva a chi era sospettato di attentare allo Stato l'obbligo di abitare in un luogo diverso dal comune di residenza e sotto stretta sorveglianza per un periodo variabile da 1 a 5 anni.
Il confino fu una misura sostanzialmente arbitraria, che veniva adottata ogni qualvolta ci fosse anche solo un debole indizio di colpevolezza nei confronti di un cittadino che avesse manifestato (in quale forma stava alle forze di polizia stabilire e accertare) il proposito di commettere «atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali».
Nel periodo fascista il confino politico fu applicato anche, dopo l'approvazione delle leggi razziali fasciste del 1938, agli omosessuali, accusati di "attentato alla dignità della razza". In altre parole, ne fu fatto anche un uso punitivo nei confronti di comportamenti che le leggi non consideravano punibili.
Scrive Camilla Poesio, autrice per Laterza di uno degli studi più accurati sull'argomento: «Ciò che rese inaccettabile e insostenibile la condizione di chi conobbe il confino fu la piena consapevolezza di essere diventato all'improvviso un cittadino senza alcun diritto, di non poter disporre di alcuna garanzia, di non potere rispondere e controbattere ad accuse che si basavano non su prove, ma su sospetti. Il non sapere nulla del proprio destino, del motivo dell’arresto, del luogo assegnato, della durata e dell'eventualità di una liberazione fu una condizione molto dolorosa».
Nella foto sotto, da sinistra: Gino Lucetti, anarchico che scagliò una bomba contro la macchina di Mussolini l'11 settembre 1926; il generale Luigi Capello, che fu accusato di aver progettato un attentato al Duce; Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista Italiano, mandato al confino a Ustica.
2. Un costoso sistema repressivo
Un sistema di repressione come il confino aveva costi altissimi per l'amministrazione dello Stato.
La gestione di una massa enorme di oppositori, il loro sostentamento e alloggio, la diaria, seppur misera, elargita a migliaia di confinati, il controllo da parte delle forze di polizia, MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), Carabinieri, poneva oltre ai costi di bilancio anche problemi di tipo logistico.
Per questa ragione le destinazioni furono scelte anche in base a un altro requisito non meno importante di quelli esaminati finora: resistenza nelle località di confino di luoghi di detenzione ordinari, non vere e proprie carceri ma edifici adatti allo scopo.
In tal modo questi “centri" diventavano vere e proprie colonie penali. Ciò consentiva al regime fascista di raggiungere un obiettivo: quello di accomunare nel giudizio della popolazione la delinquenza comune e gli antifascisti.
Spesso gli stessi familiari degli antifascisti caddero nel tranello psicologico di considerare autentici delinquenti i confinati o i detenuti per motivi politici.
Bisogna tenere presente che questo accadeva con persone che, nella maggioranza dei casi, avevano esercitato il proprio dissenso in forme legali per la precedente legislazione.
«Carissima mamma», scrisse Antonio Gramsci alla madre, «vorrei che tu comprendessi bene, anche con il sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e dignità di uomini».
Di lettere simili ne scrissero molti altri perseguitati, famosissima, per il tono poco conciliante, è quella che Sandro Pertini indirizzò alla madre per rimproverarle la richiesta di grazia al Duce.
A prova che spesso per i confinati era difficile far capire alle famiglie che la condizione di dissidente del regime era ben diversa da quella di delinquenti. Fuorilegge sì, ma di leggi ingiuste e oppressive.
Esistono pochi studi sul confino e, di conseguenza, dati abbastanza frammentari. Esaminando i registri della colonia di Lipari si scopre che circa il 50% dei confinati arriva dalle regioni del Nord Italia, il 40% dal Lazio e specificatamente da Roma, mentre il restante 10% dalle regioni meridionali.
Operai, artigiani e contadini rappresentavano oltre l'80% dei confinati, a cui si aggiungevano un 10% di intellettuali e un’identica percentuale di persone con una cultura superiore alla media dell’Italia di allora.
Nella foto sotto, Gian Maria Volonté in un film tratto da: "Cristo di è fermato a Eboli", opera di Levi ispirata alla sua esperienza al confino.
3. La vita nelle colonie
I confinati percepivano un’indennità detta “mazzetta” che, inizialmente, era di 5 lire al giorno, ma che con la depressione economica successiva alla crisi del ‘29 fu abbassata a 4 o, in alcuni casi, a 3 lire.
Inutile dire che con il denaro pagato dall’amministrazione confinaria era difficilissimo vivere.
Sandro Pertini racconta che i confinati si erano consorziali per abbattere le spese e far rendere il più possibile la “mazzetta". In genere costituivano una cassa comune con la quale acquistare vivande e portare sulla magra tavola pasti più sostanziosi di quelli che ciascuno di essi avrebbe potuto procacciarsi individualmente.
Pochi tra loro erano nelle condizioni economiche di poter vivere indipendentemente, perché abbastanza benestanti da poter affiliare un'abitazione e ottenere i servizi di qualche povera donna del contado.
Carlo Levi era uno di questi fortunati. Una volta giunto ad Aliano, paese remoto della Lucania, potè affittare una casa con il gabinetto (una delle due dell'abitato che possedevano un simile privilegio) e farsi accudire da una vecchia che gli cucinava e sbrigava le faccende casalinghe (nella foto sotto la casa di Aliano in cui era confinato lo scrittore Carlo Levi).
A tutti gli altri toccava vivere in promiscuità in enormi cameroni privi di ogni conforto, talvolta assieme a detenuti comuni, con i quali raramente correva buon sangue. In quei casi, gli episodi di violenza erano frequenti.
Ai confinati era interdetta ogni lettura che non fosse stata preventivamente vagliata dall’amministrazione della colonia, la posta veniva regolarmente censurata ed erano vietate le riunioni in cui si parlasse di politica.
Nonostante tutte queste limitazioni, il confino può essere considerata l’università dell’antifascismo italiano, perché proprio nei remoti domicili coatti le maggiori personalità politiche della futura Italia democratica gettarono le basi del dopo-dittatura (un futuro che doveva apparire assai lontano).
La relazione con gli abitanti del luogo di confino non era idilliaca. Tutt'altro. Un po' perché il regime era riuscito a far considerare dei malfattori comuni i confinati per questioni politiche, un po' perché le occasioni di contatto erano molto limitate per ragioni legate alle condizioni cui doveva sottostare il confinato.
I ritrovi pubblici gli erano preclusi dal regolamento e ogni spostamento sulla pubblica strada era costantemente vigilato da militi, poliziotti o Carabinieri. A parte casi eccezionali, la popolazione locale non ebbe rapporti di conoscenza con i confinati e, il più delle volte, non era nelle condizioni di poterne neppure conoscere l’identità.
Lo scopo era di tenere in costante isolamento ogni oppositore politico, in perfetta rispondenza allo spirito di “igiene sociale” che il capo della polizia Bocchini aveva attribuito alla misura del confino.
4. Il confinato misterioso
Un capitolo a parte nella storia del confino andrebbe dedicato alle donne che soffrirono questo tipo di persecuzione. Esemplare la storia di Camilla Ravera (foto accanto).
Dopo un periodo di reclusione nel carcere di Perugia, nel 1935, la Ravera, militante comunista, è inviata al confino a Montalbano Jonico, in provincia di Matera.
La donna viene portata ncll’ufficio del podestà del paese, il quale doveva essere un uomo controcorrente perché, incurante delle disposizioni in vigore per i confinati, dopo qualche giorno di permanenza a Montalbano mandò a chiamare la confinata.
«In paese c’è bisogno di una maestra per i figli dei pastori», le disse, «e se è d’accordo potrà occuparsi di insegnare a leggere e a scrivere in una classe di una decina di alunni». Camilla accetta con entusiasmo e comincia a insegnare. Gli alunni sono disciplinati e, soprattutto, riconoscenti.
Dopo poco, l’iniziativa del podestà di Montalbano arrivò alle orecchie della polizia politica, che inviò in tutta fretta un paio di agenti in paese.
Camilla Ravera venne trasferita di furia in un'altra località di confino: San Giorgio Lucano. In quel paese era guardata a vista dai militi e non aveva altra distrazione che fare qualche passeggiata sempre seguita dai suoi guardiani.
«Durante una di queste passeggiate», raccontò lei stessa anni dopo, «mi accorsi che parallelamente alla strada che io percorrevo camminava un pastore. “Tu sei la maestra che insegnava ai nostri ragazzi”, mi disse a bassa voce. “Non preoccuparti che noi staremo bene attenti che nessuno ti faccia del male”. E detto questo continuò per un tratto sempre seguendomi con lo sguardo».
Tra i tanti episodi del confino, uno in in particolare merita di essere ricordato. Dal 28 luglio fino all’8 agosto del 1943 un personaggio misterioso e più sorvegliato degli altri abitò in un piccolo rifugio sull’isola di Ponza.
Pietro Nenni, futuro segretario del Partito Socialista, ne scorse la figura con l’ausilio di un binocolo e subito lo riconobbe, dati i trascorsi di amicizia e di comune lotta politica.
Sembrava passato un secolo da quando entrambi in Romagna, nel 1911, avevano bloccato a colpi di scioperi i convogli ferroviari diretti al Sud per l'imminente guerra di conquista della Libia.
Ricordi ancora vividi, che gli impedivano di sbagliarsi. L’uomo che vedeva prigioniero attraverso le ottiche del cannocchiale era Benito Mussolini. A Ponza era stato spedito in tutta fretta e in assoluta segretezza da Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, desideroso di sottrarlo alla caccia dei tedeschi.
Pare che durante il soggiorno a Ponza l’ex dittatore abbia cominciato a scrivere le sue vicissitudini di prigioniero politico dopo il 25 aprile di quell’anno (nel libro Il bastone e la carota”).
Di sicuro toccò anche al Duce soffrire di uno dei supplizi che aveva somministrato ai suoi avversari. E per quanto potesse sembrargli tragico e beffardo quel destino, Mussolini era ancora lontano dal suo ben più drammatico epilogo.
Nella foto sotto, il suggestivo panorama di Montalbano Jonico, provincia di Matera, dove fu mandata in confino la militante comunista Camilla Ravera che divenne maestra elementare.
5. La grande fuga
E' la notte del 27 luglio 1929. Emilio Lussu, Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti sono a mollo a poche centinaia di metri dall’imbocco del piccolo porto di Lipari.
Da lontano scorgono le tenui luci dei pochi locali ancora aperti sul molo.
I tre si sono immersi in acqua una manciata di minuti prima, diretti verso uno scoglio che - almeno questo sperano - sarà il loro trampolino di lancio per la libertà dopo anni di duro confino nell’isola.
Dopo molto tempo in attesa di un qualche segnale, i tre percepiscono il rumore di un motore che si avvicina al minimo dei giri. Fremono, perché temono che possa trattarsi di uno dei natanti che le forze di polizia utilizzano per controllare il tratto di mare che circonda l’isola.
«Da Lipari», scrisse Francesco Saverio Nitti, ex Presidente del Consiglio e zio di uno dei fuggiaschi, «ogni fuga pareva impossibile. La piccola isola, lontana da ogni terra continentale, aveva (nel 1929) 500 deportati politici. Ma vi erano a custodirli circa 600 guardie oltre ad abili agenti di polizia. Navi da guerra ben armate, battelli rapidi con motori potenti, forniti di mitragliatrici e di cannoni, circondavano l’isola e facevano continuo servizio di vigilanza».
Per fortuna dei tre evasi non si trattava di una vedetta della polizia, ma di un potente motoscafo comandato da un marinaio esperto e coraggioso: il capitano Italo Oxilia, lo stesso che tre anni prima aveva fatto espatriare clandestinamente in Corsica il più importante socialista italiano, Filippo Turati.
Oxilia accosta e si fa raggiungere dai fuggitivi, li imbarca e si congratula con loro. Per lui che conosce il mare la fuga è praticamente cosa fatta.
Emilio Lussu, eroe della Grande Guerra e deputato sardo al parlamento, la prudenza non è mai troppa e, in previsione del possibile attacco di qualche vedetta, imbraccia il fucile ‘91 presente a bordo del motoscafo.
È pronto a vendere cara la pelle. Non ce ne sarà bisogno, perché la fuga progettata a migliaia di chilometri di distanza con la essenziale complicità della moglie di Rosselli terminerà felicemente - e senza alcun intoppo - in Tunisia, nel tempo necessario a compiere la traversata.
Di questa impresa parlò tutto il mondo, anche grazie al libro che Francesco Fausto Nitti pubblicò di lì a poco: “ Escape”. Fu un libro di successo e contribuì a rendere ancora più cocente lo smacco subito dal regime fascista, che aveva visto violata da quattro ardimentosi la propria Alcatraz al centro del Mediterraneo.
Note
Lettera alla madre di un futuro Presidente
Questa è la famosa e toccante lettera che Sandro Pertini scrisse nel 1933 alla madre:
«Mamma, con quale animo hai potuto fare questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato, che tu hai presentato domanda di grazia per me.
Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda. Debbo frenare lo sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debbo mai dimenticarlo.
Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? Lo sai bene, che è tutto per me, questa mia fede, che ho sempre amato tanto.
Tutto me stesso ho offerto ad essa e per essa con anima lieta ho accettato la condanna e serenamente ho sempre sopportate la prigione.
È l’unica cosa di veramente grande e puro, che io porti in me e tu, proprio tu, hai voluto offenderla così? Perché mamma, perché? Qui nella mia cella, di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna - quale smarrimento ti ha sorpreso, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza?
E mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso, che tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo?
Ma, dunque, ti sei improvvisamente cosi allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io sento per la mia idea? Come si può pensare, che io, pur di tornare libero, sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può importarmene della libertà?
La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me. Nulla può giustificare questo tuo imperdonabile atto.
Lo so, più di te sono colpevoli coloro che ti hanno consigliata di compierlo. Vi sono stati spinti dall’amicizia che per me sentono e dalla pietà che provano per le mie condizioni di salute? Ma pietà ed amicizia diventano sentimenti falsi e disprezzabili, quando fanno compiere simili azioni.
Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e non ne voglio.
Ma mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque, propormi un così vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero, che io non ti trovi più al mio ritorno.
Ma dimmi, mamma, come potresti abbracciare tuo figlio, se a te tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei vivere vicino, dopo aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata?
No mamma, meglio che tu continui a pensarlo qui, in carcere, ma puro d’ogni macchia, questo tuo figliuolo, che vederlo vicino colpevole, però, d’una vergognosa viltà. Che male ho fatto per meritarmi questa offesa?
Forse ho peccato di orgoglio, quando andavo superbo di te, che con fiera rassegnazione sopportavi il dolore di sapermi in carcere. E ne parlavo con orgoglio ai miei compagni.
E adesso non posso più pensarti, come sempre ti ho pensata: qualche cosa hai distrutto in me, mamma, e per sempre. È bene che tu conosca la dichiarazione da me scritta all’invito se mi associavo alla domanda da te presentata.
Eccola: “La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo, quindi, ad una simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme”.
Per questo mio reciso rifiuto la tua domanda sarà respinta. Ed adesso non mi rimane che chiudermi in questo amore, che porto alla mia fede e vivere di esso. Lo sento più forte di me, dopo questo tuo atto.
E mi auguro di soffrire pene maggiori di quelle sofferte fino ad oggi, di fare altri sacrifici, per scontare io questo male che tu hai fatto. Solo così riparata sarà l’offesa, che è stata recata alla mia fede ed il mio spirito ritroverà finalmente la sua pace.
Ti bacio, tuo Sandro».