Ci sembra di aver preso la decisione giusta. Ci abbiamo riflettuto a lungo, eppure abbiamo commesso un errore. Di chi è la colpa?
Del nostro cervello che a volte va in tilt e non ci fa riconoscere la strada giusta. Come fare a sapere quando non dobbiamo dare retta alla nostra mente?
Ce lo dice David DiSalvo che ha raccolto decine di ricerche ed esperimenti nel libro Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario) (Bollati Boringhieri).
Partiamo dal fatto che il cervello, afferma DiSalvo, tende a prevenire, proteggere e conservare e, per questo, spesso si trova a dover affrontare con difficoltà le situazioni che una società veloce e imprevedibile pone.
Secondo una ricerca del 2003 dello psicologo Ming Hsu, una condizione seppur minima di ambiguità innesca l’iperattivazione dell’amigdala, la stessa che si attiva quando siamo di fronte a un pericolo.
Allo stesso tempo l’attività dello striato ventrale, la parte del cervello che si accende quando riceviamo una ricompensa, si fa meno intensa. «Tutto ciò ci fa capire che il nostro cervello non preferisce la certezza all’incertezza, ne ha proprio un disperato bisogno», dice DiSalvo.
Secondo il neurologo Norbert Burton questa azione è definita bias di certezza: «Tutti noi siamo accomunati da questo fatto: quando sentiamo di aver preso una decisione giusta, o di avere la giusta convinzione, il nostro cervello è felice. Poiché il nostro cervello ama sentirsi felice, a noi piace la sensazione di avere ragione. Ma pensare di avere ragione può anche voler dire che stiamo sbagliando e il nostro cervello va in confusione», afferma DiSalvo.
Impariamo a riconoscere le trappole della mente.
1. Ignoriamo le informazioni
Secondo gli esperti, la nostra mente valuta secondo l’effetto framing: racchiudiamo all’interno di una cornice immaginaria le informazioni che ci sembrano utili e, così, prendiamo le nostre decisioni in base a quello che ci suggerisce la cornice. Ignoriamo alcune informazioni.
Facciamo un esempio: due rapinatori, un omaccione robusto e l’esile compagna, stanno rubando in un negozio. Il commerciante decide di inseguire i due ladri. Chi cercherà di catturare? La donna, direte.
Immaginate che sia più semplice rispetto a catturare l’energumeno. Ignorate, però, che la donna è esperta di arti marziali e sferra un calcio al negoziante lasciandolo tramortito.
L’insufficienza di informazioni vi ha fatto prendere la decisione sbagliata, ma il vostro cervello ha agito ugualmente, perché in certe situazioni non ci sta a pensare troppo su.
La responsabile è sempre l’amigdala, un’area profonda del nostro cervello che si attiva condizionata dalle cosiddette euristiche, ovvero quelle regole innate o apprese che entrano in gioco quando affrontiamo un problema disponendo di un corredo incompleto di informazioni.
In pratica il nostro cervello fa una gran fatica a concepire qualcosa che non è coerente con le nostre convinzioni e con la nostra esperienza. A volte, però, la cornice si configura in base a come ci vengono presentate le informazioni.
Ma mettiamoci alla prova... Siete impiegati presso un centro di controllo delle epidemie e in un paese di 600 abitanti scoppia un’epidemia mortale. Dovete prendere una decisione altrimenti tutte e 600 le persone moriranno. Ci sono due programmi:
Con il programma 1 si salveranno 200 persone. Con il programma 2 esiste 1/3 delle probabilità che vengano salvate 600 persone e 2/3 che non si salvi nessuno. Quale programma decidete di adottare?
Poi un esperto vi illustra altri due programmi alternativi: Con il programma 3 moriranno 400 persone. Con il programma 4 esiste 1/3 delle probabilità che non muoia nessuno e 2/3 che le vittime siano 600. Quale scegliete tra questi due?
«Nello studio originale tra le prime due alternative il 72 per cento ha scelto il programma 1. Tra la seconda coppia di alternative il 78 per cento ha scelto il numero 4. Sono certo che avete notato che i programmi 1 e 3 sono identici, così come il 2 e il 4, l’unica differenza è la cornice in cui viene presentata l’informazione.
La prima soluzione era stata scelta dal 72 per cento, nella seconda formulazione lo stesso identico programma solo dal 22 per cento. Quando l’effetto framing offusca il giudizio gli aspetti concreti perdono importanza», afferma DiSalvo.
2. Cerchiamo conferme
Un’altra condizione che trae in inganno il nostro cervello sono le influenze. Senza neanche accorgercene ogni giorno qualcosa o qualcuno interviene nelle nostre scelte.
Gli esperti la chiamano chiusura cognitiva e si manifesta in svariati modi. Per esempio, attraverso il bias di conferma cioè la ricerca che effettuiamo quando vogliamo avvalorare una nostra idea.
Secondo DiSalvo siamo sempre in cerca di conferme che, tuttavia, ci creano una chiusura mentale che non ci consente di prendere in considerazione altre idee. Per esempio, stiamo visitando un blog dove alcuni parlano male della nostra squadra preferita.
Quello che facciamo non è verificare che ciò che dicono sia giusto, ma cercare informazioni che sostengono la nostra tesi. Un nuovo dato ha messo in discussione uno schema per noi consolidato? Il nostro cervello va in tilt e non può fare a meno di andare alla ricerca di conferme.
Questo atteggiamento è nocivo, secondo gli esperti, perché chi è più incline alla chiusura cognitiva risulta meno capace di risolvere soluzioni pratiche e meno disposto ad affrontare rischi. Anche la presenza di altri ci influenza.
Secondo DiSalvo chi non si cura del giudizio altrui è destinato a fallire e la presenza di altre persone può determinare la buona riuscita di un nostro obiettivo. Per confermare questa ipotesi gli studiosi hanno esaminato alcune donne che si sono sottoposte a dieta.
Chi aveva seguito il regime da sola aveva perso meno peso rispetto a chi aveva condiviso davanti agli altri i progressi fatti. Quindi, in questo caso, lasciarsi influenzare ha rivolti positivi: se dovete prendere degli impegni fatelo davanti ad altri e avrete più possibilità di riuscire nel vostro intento. Persino il processo di valutazione viene falsato se diamo retta al nostro cervello.
Secondo uno studio dell’Università di New York e di Harvard, le zone cerebrali che si attivano quando giudichiamo una persona, la classica prima impressione, sono l’amigdala e la corteccia cingolata posteriore che si accendono ancora prima di stringere la mano a una persona. Ma come la giudichiamo? Secondo gli studi, in base all’impressione che vorremmo fare noi.
«Quando cerchiamo di mettere in evidenza un nostro tratto caratteriale, inconsciamente valutiamo quella stessa caratteristica negli altri in base a uno standard di giudizio più elevato. Il risultato è che il prossimo non viene considerato all’altezza», sostiene DiSalvo.
Affidarsi agli altri non è sempre la scelta giusta, anche se il cervello ci suggerisce che è la migliore. Vi è mai capitato di iniziare una frase e il vostro partner la finisce? Si chiama memoria transattiva e non sempre è una buona cosa.
Affidarsi al supporto degli altri, infatti, indica che il nostro cervello sta risparmiando energie per “assorbire” quelle altrui. Si tratta di una strategia di conservazione delle risorse che attua il cervello.
Secondo una ricerca della Northwestern University, quando una persona si aspetta il supporto del partner, non fa altro che risparmiare energie.
3. Il cervello risparmia energie
Il nostro encefalo consuma da solo oltre il 20 per cento dell’apporto calorico quotidiano, «quindi se il cervello ha la possibilità di attingere a una fonte esterna di energia invece di dover ricorrere a quella immagazzinata, potete star certi che non se ne farà scappare l’occasione», dice DiSalvo.
Questo, però, ci fa agire con minore determinazione. Chi si affida all’aiuto degli altri ha maggiori possibilità di rimandare gli impegni, in particolare quelli accademici.
In più affidarsi a risorse esterne per prendere decisioni e formarsi un’opinione ci rende più vulnerabili alla propaganda e agli inganni. Il fenomeno è alimentato da quella che gli scienziati chiamano fluidità cognitiva: se facciamo poca attenzione, il bombardamento di messaggi indiretti ci induce a cadere prigionieri di una illusione di verità, soprattutto se si tratta di messaggi brevi e comprensibili che per il cervello si trasformano in fretta in familiari.
La nostra mente, infatti, accoglie subito i messaggi che si incastrano senza sforzo in schemi già esistenti. Provate a farci caso: se i politici vogliono convincervi di qualcosa, parlano ripetendo le stesse cose, gli stessi concetti e con le medesime frasi.
Sanno bene che il cervello impiegherà poco a convertire le loro parole in certezze. Sanno anche bene che per essere persuasivo il messaggio deve essere ripetuto dalle 3 alle 5 volte. Di più si ottiene l’effetto contrario.
Secondo il neuroeconomista Paul Zak, l’elemento essenziale per la riuscita di una truffa non consiste nel conquistarsi la fiducia del pollo di turno, ma piuttosto nel persuaderlo che è lui a ispirare fiducia.
Entra in gioco Thomas, The Human Oxytocin Mediated Attachment System, ovvero l’ossitocina, il neurotrasmettitore della fiducia che, appena entra in circolo, ci fa diventare più vulnerabili.
È la fiducia, dice DiSalvo, che spesso frega il nostro cervello. Ogni 7 anni, secondo gli studi, perdiamo o rimpiazziamo il 50 per cento dei nostri amici. Con chi? Con chi appartiene al gruppo del “noi”.
«Il nostro cervello non è strutturato per la totale autonomia: siamo, al contrario, una specie dotata di una tendenza alla socialità e programmata per l’interdipendenza. La nostra esistenza è fatta di condizionamenti e nessun essere umano vive su una strada a senso unico», spiega DiSalvo.
Attenzione, però, a concedere troppa fiducia: se per il nostro cervello è una vera e propria necessità fidarsi degli altri (riflesso del fatto che desideriamo che tutti si fidino di noi), non sempre si rivela positivo.
Gli studiosi inglesi la chiamano trust trap, la trappola della fiducia: per esempio, se in passato abbiamo giudicato attendibile una fonte di informazioni, in futuro saremo meno inclini ad analizzare a fondo le notizie che derivano da quella fonte.
Secondo uno studio dell’Università della California, l’eccessiva fiducia può addirittura generare falsi ricordi ed elaborare false convinzioni. I ricercatori hanno chiesto a un gruppo di volontari quanto ritenessero probabile di aver preso una determinata medicina quando erano bambini.
Dopo aver fatto leggere ai partecipanti alcuni articoli sulla diffusione di quel medicinale negli anni dell’infanzia dei volontari, i risultati erano cambiati e avevano affermato con maggiore convinzione la possibilità di aver usufruito del medicamento.
4. Il tranello della ricompensa
Siamo sempre alla ricerca di ricompense, e questo può indurci a fare scelte sbagliate.
Ciò di cui il nostro cervello è sempre alla ricerca è la dopamina, più nello specifico l’attività del recettore dopaminico nell’area tegmentale ventrale del cervello.
È il neurotrasmettitore della ricompensa, indispensabile per la nostra sopravvivenza che si rivela un’arma a doppio taglio se per avvertirla cerchiamo gratificazioni inappropriate, per esempio atteggiamenti compulsivi (droga, gioco d’azzardo, uso di internet).
La ricerca di gratificazione si esprime anche come bisogno di appartenenza, necessità di abbattere la solitudine. Gli scienziati dell’Università di Buffalo hanno studiato la possibilità per il nostro cervello di combattere questo senso di solitudine affezionandosi emotivamente a personaggi fittizi, come quelli delle serie tv. Risultato: il cervello si fa ingannare facilmente.
«I personaggi virtuali fungono da surrogati per l’appagamento dei nostri bisogni emotivi e questo permette loro di occupare quella zona indistinta tra reale e irreale che il nostro cervello fatica a distinguere. Quanto più ci affidiamo a questi personaggi per provare un sentimento di connessione emotiva, tanto più il nostro cervello li codifica come rilevanti», afferma DiSalvo.
Tutto ciò si traduce in influenza: a causa del transfer narrativo si ha un apprendimento sociale, cioè la tendenza a modellarsi agli atteggiamenti e ai comportamenti altrui a seconda delle circostanze.
Secondo la ricerca condotta dall’Università di Purdue, i partecipanti che avevano visionato serie tv dove i protagonisti parlavano della donazione di organi in termini positivi si dimostravano più propensi alla donazione dei loro stessi organi.
Ma perché non prevediamo il futuro? Il cervello umano non è preparato a riflettere su qualcosa che è lontano dal presente. Fa parte della sua evoluzione: i primitivi non avevano bisogno di fare grossi progetti, bastava riuscire a risolvere in fretta le problematiche immediate (reperire cibo, rispondere all’attacco di un animale...).
Per questo la nostra mente sottovaluta gli impegni a lunga scadenza. Ecco perché se il capo ci chiede una relazione da consegnare il mese prossimo accettiamo subito, anche se siamo carichi di lavoro, per poi accorgerci, solo a ridosso della scadenza, dell’errore fatto.
L’aggravante? Una ricompensa immediata, in questo caso la consapevolezza di aver accontentato il capo. Se nel nostro cervello si attiva l’area della ricompensa (il sistema mesolimbico) e ne avvertiamo il piacere, siamo più predisposti ad accettare incarichi, sottovalutandone l’impegno.
Possiamo sfruttare questo meccanismo cerebrale: secondo una ricerca dell’Università di Alberta, ricevere un feedback immediato (per esempio sapere che avremo i risultati di un test in pochi giorni) aumenta la motivazione e ci fa raggiungere risultati migliori.
Quando siamo sottoposti a un impegno, quindi, provare a immaginare che avremo subito i risultati ci farà ottenere esiti migliori.
5. L’impulso a comprare e perché decidiamo di cedere alle tentazioni
State guardando gli annunci su eBay e avete trovato il frullatore che cercavate da tempo.
Iniziate l’asta convinti che vi aggiudicherete l’oggetto ma poi, all’ultimo minuto, ve lo soffiano. Il sentimento di frustrazione vi pervade e andate alla ricerca di un altro frullatore simile.
Lo trovate, questa volta non vi sfuggirà. Dopo molta attesa riuscite ad aggiudicarvelo. Siete contenti? Solo per un attimo. Secondo le ricerche, in molti rimetteranno in vendita l’oggetto acquistato nel giro di pochi giorni.
È il desiderio, più forte della soddisfazione, che convince il nostro cervello a comportarsi istintivamente in un modo, salvo poi rimpiangere il comportamento. Ed è proprio la paura del rimpianto che ci fa agire in modi incomprensibili, per esempio stipulando garanzie e assicurazioni inutili, perché i venditori conoscono bene la tecnica di manipolazione del rimpianto (figurando magari scenari catastrofici se non si firmerà tale garanzia) e il potere del pensiero controfattuale, cioè quando pensiamo “se avessi...”.
Come possiamo difenderci da questo pensiero che, secondo gli esperti, nuoce all’apprendimento e induce alla depressione? «Studi recenti suggeriscono che possiamo allenare il cervello a rendere meno spasmodica l’aspettativa della ricompensa senza però spegnerla del tutto, per esempio concentrandoci di più sulle esperienze da condividere con amici e familiari rispetto a focalizzarci su beni materiali», precisa l’esperto.
Pensate di potervi controllare, di essere capaci di non cedere alle tentazioni? Sbagliato. L’autodisciplina è destinata a fallire. Si tratta del cosiddetto fenomeno di restrain brain (frenare il cervello), ovvero ci convinciamo capaci di qualcosa, ma la convinzione dura poco.
La situazione, poi, precipita quando si innesca l’effetto del “che sarà mai”. State seguendo una dieta, ottenendo anche buoni risultati. Poi capita una cena al ristorante, vi promettete che assaggerete solo un secondo e, invece, invogliati dalla tavolata, iniziate con un antipasto per proseguire con il primo, il secondo e il dolce.
Che sarà mai, pensate subito dopo l’antipasto, ma nel corso della cena quel pensiero si trasforma nella consapevolezza che l’obiettivo vi sta sfuggendo di mano. Per dimostrare la tesi di perdita progressiva di autocontrollo, la ricercatrice Janet Polivy ha messo alla prova un gruppo di donne a dieta, chiedendo loro di valutare alcuni biscotti.
A tutte le partecipanti è stata offerta una fetta di pizza e ad alcune hanno fatto credere di averne ricevuta una fetta più grande rispetto alle altre. La logica vorrebbe che chi ha mangiato, o ha creduto di mangiare, una fetta più grande si sia contenuta nel consumo dei biscotti.
Sbagliato, perché nel cervello si innesca il meccanismo del “che sarà mai”: le donne che credevano di aver mangiato di più avevano consumato il 50 per cento di biscotti in più rispetto alle altre.
Dopo questa sorta di comportamento compulsivo scatta un senso di colpa e si attiva il meccanismo di autoregolazione morale, ovvero tendiamo a fare una buona azione (aiutare un amico, fare qualcosa per l’ambiente...).