Si è molto parlato dei grandi capi indiani che contrastarono l’avanzata dei bianchi verso il West, infliggendo loro anche qualche pesante sconfitta.
I nomi più ricorrenti sono quelli di Toro Seduto, Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo, Geronimo e Capo Giuseppe, ma forse solo quest’ultimo compì un’impresa eccezionale, conducendo i suoi Nasi Forati dall’Oregon fino al Montana settentrionale in un disperato tentativo di trovare salvezza oltre il confine canadese.
Le vere grandi figure di capi militari indiani erano emerse, però, molto tempo prima, nelle regioni dell’Est e del Midwest, dove si erano battute contro gli inglesi e i loro successori statunitensi.
Prima dei guerrieri delle praterie, resi famosi da letteratura e cinema, fu un condottiero Shawnee, con una visione militare degna di uno stratega, a fare paura ai bianchi. Il suo nome era Tecumseh. Ecco la sua vera storia.
1. Le origini di un capo
Il primo di questi capi fu Pontiac, leader degli Ottawa dell’Ohio, che mise insieme una coalizione di tribù algonchine e irochesi, scatenando una spietata guerra contro i britannici.
Ispirato da Neolin, giovane profeta dei Delaware, Pontiac puntava alla cacciata di tutti i bianchi dai territori a occidente dei monti Appalachi.
Dal 1763 promosse alleanze con numerose tribù, mettendo a ferro e fuoco decine di insediamenti e facendo oltre 2.000 vittime, fino alla definitiva resa nel 1765.
Dopo la nascita degli Stati Uniti toccò a Michikinikwa, dei Miami, infliggere agli americani la più dura sconfitta patita a opera dei pellerossa in tutta la loro storia. Il 4 novembre 1791, egli riuscì a sbaragliare il poderoso esercito del generale Arthur Saint Clair sul fiume Wabash, nell’Ohio, uccidendo 900 fra soldati e miliziani prima di essere sconfitto a Fallen Timbers, nell’agosto 1794, dalle truppe del generale Anthony Wayne.
Anche le insurrezioni di Cherokee, Delaware e Irochesi, scoppiate negli ultimi decenni del XVIII secolo, erano fallite. Con il trattato di Fort Greenville, stipulato il 3 agosto 1795 fra il governo americano e alcune nazioni indigene, venne ceduta la maggior parte dei possedimenti tribali situati in Ohio e Indiana. Al convegno presero parte oltre mille pellerossa, ma un uomo che stava già guadagnando consensi fra le tribù sconfitte rifiutò di negoziare con i nuovi padroni.
Il suo nome venne trascritto come Tecumseh, ma era in realtà Ticamthi o Tecumtha, ossia “Puma in Agguato”. La maggior parte delle testimonianze concorda sul fatto che fosse nato a Old Chillicothe, in Ohio, nel marzo 1768.
Suo padre, Puckeshinwah, o Pekshinwah, era un capo Shawnee ucciso da miliziani della Virginia nella battaglia di Kanawha, il 10 ottobre 1774. La madre, Methotasa, apparteneva alla stessa tribù.
Tuttavia, sulle origini di Tecumseh circolano altre versioni, compresa quella che fosse un mezzosangue: secondo una fonte, sarebbe nato dall’unione di Puckeshinwah con Marguerite Mary Isaac, figlia di Frederick Isaac e Mary Galloway, rapita dai Cherokee quand’era bambina. Dopo anni trascorsi presso quella tribù, la ragazza bianca era stata catturata dagli Shawnee durante una razzia, facendo poi breccia nel cuore del loro capo.
Rimasto prematuramente orfano, Tecumseh fu accudito dai fratelli e conobbe presto il campo di battaglia. Fu presente allo sfortunato scontro di Fallen Timbers, nel quale 3.000 uomini del generale Wayne sbaragliarono e misero in fuga 1.300 nativi.
La resistenza dei pellerossa era stata accanita e coraggiosa, ma il giovane si era reso conto che nessuna tribù avrebbe potuto contrastare da sola i bianchi. Nel 1800 la popolazione degli Stati Uniti era di 5.300.000 abitanti, la maggior parte concentrati nelle 13 ex colonie britanniche.
Gli indiani insediati fra la costa atlantica e il fiume Mississippi superavano a stento i 150.000 individui: per tenere a freno l’avanzata dei bianchi sarebbe occorso coalizzare tutte le tribù orientali e centrorientali di lingua algonchina, irochese, muskogee e siouan, e farsi alleati gli inglesi.
2. In cerca di amici
Durante la giovinezza, Tecumseh cambiò spesso villaggio. Ciò gli permise di conoscere più a fondo le abitudini delle diverse tribù e concepire quello che ormai era il suo progetto definitivo.
La zona prescelta per dare corpo ai suoi piani era una lingua di terra che i Pottawatomie avevano donato pacificamente agli Shawnee, nel punto di confluenza fra i fiumi Tippecanoe e Wabash, nell’Indiana.
In quest’area Tecumseh desiderava fondare un villaggio destinato a diventare la capitale di uno Stato interamente composto da nativi. Sebbene molte tribù ironizzassero sulle sue intenzioni, Tecumseh si dedicò anima e corpo alla realizzazione del suo sogno, ricevendo qualche rifiuto, ma ottenendo anche tanti consensi. In pochi mesi divenne il simbolo dell’opposizione dei pellerossa all’uomo bianco.
Come aveva auspicato, il suo appello fu accolto favorevolmente da Shawnee, Wyandot, Delaware, Ottawa, Winnebago, Nipissing, Kickapoo, Pottawatomie e Ojibwa, e altre tribù si sarebbero unite al progetto in seguito. Si trattava di numeri ancora troppo bassi, perché gli indiani erano sempre stati pochi, fin dai tempi della scoperta dell’America, quando nell’Est ce n’erano meno di mezzo milione.
La loro popolazione si era poi ridotta a un terzo a causa delle furiose contese intertribali, del coinvolgimento nei conflitti tra Francia e Gran Bretagna e, infine, nella Guerra d’indipendenza americana. Le epidemie letali diffuse (spesso ad arte) dagli europei avevano peggiorato la situazione.
All’epoca, scarsi risultati aveva prodotto la rivolta della confederazione Powhatan, guidata da Opechancanough, zio di Pocahontas, che nel 1622 aveva spazzato via alcuni insediamenti bianchi in Virginia. Nel 1637, le milizie dei puritani, sostenute da Mohegan, Narragansett e Niantic, avevano quasi annientato la tribù dei Pequod.
Un altro tentativo fallito di scacciare gli inglesi era stato compiuto da Metacomet, o “Re Filippo”, capo dei Wampanoag, che nel 1676, alla guida di una coalizione di tribù, aveva distrutto 12 villaggi e ucciso 600 coloni prima di essere abbattuto da un indiano rinnegato. Tenendo conto anche delle rivolte più recenti, uno degli ostacoli che Tecumseh avrebbe dovuto superare era la costante inimicizia che regnava fra i gruppi di nativi e la loro inclinazione a mutare frequentemente alleanze.
Per di più, gli inglesi non prendevano troppo sul serio il suo progetto (fingendo di appoggiarlo per contrastare gli americani), e anche molti capi indiani lo consideravano troppo ambizioso. Invece, il governatore dell’Indiana, William Henry Harrison, valutò con preoccupazione l’idea di Tecumseh, scrivendo: «Se non fosse per la vicinanza con gli Stati Uniti, potrebbe fondare un impero che rivaleggerebbe con le gloriose realizzazioni del Perù e del Messico».
In ogni caso, il condottiero Shawnee persistette nel suo intento: la sua affabilità e gentilezza verso i coloni lo fecero considerare un amico e si sparse la voce che fosse figlio di un uomo bianco. Nel 1796, Tecumseh aveva preso in moglie una donna mezzosangue di nome Manete, dalla quale ebbe un figlio chiamato Puckethei, ma il matrimonio fu guastato da continue liti e finì per fallire.
Rimasto solo, Tecumseh cominciò a frequentare una ragazza bionda di nome Rebecka Galloway, figlia di un agricoltore dell’Ohio. I loro incontri gli servirono a conoscere la cultura europea. Da quel momento, egli cominciò a dare corpo alle proprie fantasie, intuendo che per ottenere il loro scopo gli indiani avrebbero dovuto imparare le tecniche agricole dei bianchi, ottenendo l’autosufficienza economica.
Purtroppo, mentre si dava da fare per fondare il nuovo Stato, riapparve sulla scena Tenskwatawa, suo fratello, a volte indicato come gemello (nella foto in alto a sinistra). Nato attorno al 1775, aveva avuto una vita disordinata e, giunto fra i bianchi, si era lasciato tentare dall’alcol, dedicandosi all’accattonaggio e alle truffe, dopo aver imparato da un illusionista diversi trucchi per ingannare i creduloni.
L’occasione di ottenere un ruolo di primo piano fra gli Shawnee gli si presentò nel 1795, quando morì uno sciamano della tribù. La sua sfrontatezza spinse Tenskwatawa a candidarsi come veggente e guida spirituale del popolo. Sfidando lo scetticismo generale, egli annunciò anche di avere avuto una visione in cui gli erano state dettate le regole da seguire per creare una grande nazione.
Per prima cosa ordinò di bandire tutte le bevande alcoliche, di allontanarsi dagli insegnamenti religiosi dei missionari bianchi e dai costumi che gli americani intendevano trasmettere ai popoli indigeni. Esortò inoltre gli indiani a preservare l’unità delle loro famiglie e a prendersi cura dei figli e delle persone anziane.
Benché Tecumseh dubitasse di Tenskwatawa, ritenne che i suoi principi etici e gli appelli alla fratellanza potessero giovare alla causa comune, soprattutto quando ebbe modo di constatare che il fratello stava facendo proseliti e che il suo carisma aveva cominciato a influenzare, oltre agli Shawnee, anche altre tribù.
Gli indiani, accogliendo gli appelli del “Profeta”, stavano assumendo un atteggiamento intransigente nei confronti dei bianchi, rifiutando i negoziati e rimanendo saldamente attaccati alle loro terre. I trafficanti di alcolici venivano respinti dai villaggi e le uniche merci accettate erano fucili, pistole e polvere da sparo. Anche Tecumseh era d’accordo; per il momento, tuttavia, il leader invitò a mantenere un comportamento pacifico verso i bianchi, perché le risorse dei nativi erano ancora limitate.
La sua gente cominciava ad apprendere le tecniche agricole dai coloni, ma gli inglesi non si sbilanciavano sull’eventualità di appoggiare le rivendicazioni indigene, fornendo solo qualche fucile e dei barili di polvere da sparo. Le profezie di Tenskwatawa e gli appelli all’unità erano riusciti a coalizzare circa 7.000 indigeni, anche se i guerrieri sui quali l’alleanza avrebbe potuto contare in caso di guerra non erano più di 1.500. Il governatore Harrison, invece, disponeva di una forza militare almeno doppia.
Nella foto sotto, Tecumseh s’infuria con il governatore Harrison dopo che quest’ultimo si è rifiutato di annullare il trattato di Fort Wayne, firmato nel 1809, con cui una delegazione di nativi aveva ceduto agli Stati Uniti una larga porzione di territorio indiano.
3. L’inizio dei problemi
Acquisita l’indipendenza, gli Stati Uniti avevano iniziato la loro espansione verso ovest. Nel 1803 si erano assicurati l’immenso territorio della Louisiana, pagandolo 15 milioni di dollari alla Francia di Napoleone.
Tippecanoe, punto di raccolta degli alleati indiani, aveva assunto il nome di “Città del Profeta”, ma era solo un grande villaggio in cui convergevano gruppi di tribù differenti. Inoltre, il governatore Harrison era un avversario astuto.
A fine settembre 1809, aveva convinto le tribù Pottawatomie, Delaware, Miami e Kickapoo a vendere agli Stati Uniti 200 mila ettari di terra per soli 10 mila dollari circa. Tecumseh si era incontrato con lui per chiedere l’annullamento dell’operazione, ma aveva capito che Harrison si aspettava qualcosa in cambio.
Il capo degli Shawnee aveva quindi promesso di appoggiare gli americani in caso di conflitto con il Canada. Non tutti i suoi alleati approvarono la promessa fatta agli americani. Diverse tribù lasciarono Tippecanoe e attaccarono le fattorie dei coloni, che invocarono la protezione di Harrison.
Nella primavera del 1811, Tecumseh garantì che avrebbe fatto cessare le razzie se gli americani avessero restituito le terre. Il governatore evitò di sbilanciarsi e lui cercò l’alleanza di Creek, Choctaw e Chickasaw.
Le stime demografiche fornite dagli agenti indiani del governo avevano quantificato in 25 mila individui i Creek, mentre i Choctaw erano 15 mila, e Chickasaw e Seminole insieme circa 12 mila.
Tecumseh riteneva fondamentale l’adesione di tutte queste tribù, che con il loro peso numerico avrebbero accresciuto di almeno 50 mila unità la popolazione del nuovo Stato indiano.
A Hickory Ground, alla confluenza dei fiumi Tallapoosa e Coosa, si tenne un grande raduno, al quale partecipò anche l’agente governativo Benjamin Hawkins, che dissuase i rappresentanti delle tribù dall’accettare la proposta di Tecumseh.
L’intervento di Tenskwatawa, che parlò di una grande stella che sarebbe presto apparsa in cielo (aveva saputo dagli inglesi dell’imminente passaggio di una cometa) parve ribaltare la situazione, ma quando il veggente ripartì per Tippecanoe, Hawkins passò al contrattacco, invitando tutti alla neutralità.
Tecumseh a quel punto si fece minaccioso, e disse di essere capace di «far tremare la terra con il proprio tallone». Per pura coincidenza, una scossa di terremoto convinse gli indecisi ma, purtroppo per lui, prima che i guerrieri potessero raggiungere Tippecanoe, nella “Città del Profeta” era accaduto un fatto irreparabile.
Nella foto sotto, la battaglia di Tippecanoe in un’immagine di poco posteriore ai fatti. Benché si battessero con audacia, gli uomini di Tecumseh, nettamente inferiori per numero, furono sopraffatti dalle truppe guidate dal governatore William Harrison.
4. L’avanzata del governatore
Il 26 settembre 1811, il governatore Harrison si era diretto verso la capitale degli indiani con il proposito di distruggerla. Aveva con sé 250 soldati del 4° Fanteria, 270 dragoni a cavallo, 480 volontari dell’Indiana e altri 120 provenienti dal Kentucky, nonché diversi ausiliari.
Pur senza cannoni, l’esercito ammontava a circa 1.100 uomini, che prima di sferrare l’offensiva costruirono un avamposto nei pressi di Terre Haute. Quindi, la spedizione si diresse verso Tippecanoe e il 6 novembre si accampò a circa un miglio di distanza dal villaggio.
Gli indiani alleati non erano preparati a sostenere un combattimento con gli statunitensi. Tenskwatawa, che esercitava il comando, cercò di mobilitare il maggior numero possibile di combattenti, ma riuscì a metterne insieme poco più di 500, troppo pochi per spuntarla in un confronto armato.
All’esiguità delle forze disponibili si aggiungeva la mancanza di coordinamento, poiché alcune tribù obbedivano solo ai propri capi. Mancava, infine, una chiara presa di posizione da parte degli inglesi, la cui condivisione della politica di Tecumseh si era limitata, fino a quel momento, a vaghe promesse.
Tenskwatawa, sicuro che Harrison avrebbe attaccato, tentò la via della trattativa, sperando di ingannare gli americani per sorprenderli con un attacco improvviso, ma Harrison non abboccò. A dare la certezza al “Profeta” che l’esercito stesse per sferrare un assalto fu uno schiavo di colore, catturato dagli indiani durante una sortita notturna.
Tenskwatawa non poteva attendere il ritorno di Tecumseh, perché Harrison avrebbe assalito Tippecanoe con una forza doppia e meglio armata della sua, perciò decise di fare la prima mossa.
Per stimolare lo spirito combattivo dei guerrieri, promise che li avrebbe protetti dalle pallottole con un potentissimo incantesimo, poi ordinò loro di avanzare silenziosamente fino all’accampamento nemico. Il piano fallì, perché una sentinella del campo, scorgendo le sagome muoversi nell’oscurità, aprì il fuoco, dando l’allarme.
Harrison, che era rimasto sveglio aspettandosi la mossa avversaria, radunò gli ufficiali e mobilitò l’intero contingente proprio mentre gli indiani aggredivano il campo, trovandosi dinanzi lo sbarramento difensivo dei fucilieri.
Poiché le armi dell’epoca erano tutte a un solo colpo, dopo la prima salva s’ingaggiò una mischia furibonda, e per un attimo i guerrieri di Tenskwatawa sembrarono avere il sopravvento, mettendo in fuga molti soldati.
I dragoni, presi alla sprovvista, arretrarono, ma le truppe del 4° Fanteria e i volontari dell’Indiana opposero resistenza, costringendo i nativi a ritirarsi. Tenskwatawa, che osservava la scena da un’altura, incitò i suoi a sferrare un secondo assalto, ma il tentativo non ebbe esito migliore.
Molti guerrieri, preoccupati di mettere in salvo le famiglie lasciate al villaggio, sgombrarono il campo e in breve la battaglia terminò. Tenskwatawa fuggì in Canada, dove rimase per oltre 10 anni.
Harrison ritenne più prudente non entrare subito a Tippecanoe, soprattutto perché, conoscendo gli indiani, temeva un’imboscata. Il giorno seguente, inviò alcuni reparti a distruggere l’accampamento, che fu raso al suolo per dissuadere Tecumseh dal proseguire nella sua politica indipendentista.
Gli statunitensi contarono 61 morti e 127 feriti, dei quali 7 perirono nelle ore successive. Quanto agli indiani, non si seppe mai il numero di combattenti caduti: Winnebago e Kickapoo dissero di aver perso 51 guerrieri, ed è probabile che anche i caduti degli Shawnee e degli altri alleati fossero parecchi, facendo salire a oltre 100 il computo dei morti.
In poche ore la coalizione era stata sbaragliata e la sua capitale ridotta in cenere. Tecumseh ne venne a conoscenza mentre era in viaggio: alcuni testimoni dissero di averlo visto piangere come un bambino.
Nel giugno del 1812 scoppiò la guerra fra Stati Uniti e Canada. Molti indiani erano ancora in armi e, il 15 agosto 1812, Fort Dearborn, nell’Illinois, fu espugnato dai Pottawatomie, dopo che il loro capo, Uccello Nero, aveva attirato in trappola e sterminato la colonna del capitano Nathan Heald e le sue guide dei Miami.
A fine estate, Tecumseh entrò in Canada per incontrare il generale Isaac Brock, governatore britannico dell’Ontario, che gli offrì di comandare le forze indiane alleate con il grado di generale di brigata, il più alto mai concesso a un pellerossa.
Nella foto sotto, William Henry Harrison, il nemico irriducibile.
5. Finalmente in guerra
Dopo aver sconfitto un reparto americano della guarnigione di Detroit, nella primavera del 1813, il capo Shawnee, alla testa di 1.500 guerrieri, si unì ai 980 canadesi del colonnello Proctor per attaccare la base statunitense di Fort Meighs, sul fiume Maumee.
I rapporti fra il condottiero indiano e l’ufficiale britannico si rivelarono pessimi. Tecumseh era ansioso di vendicare la sconfitta di Tippecanoe, mentre l’inglese, irresoluto e pavido, rinviò più volte l’operazione, chiedendo rinforzi al comando superiore.
Il 1° maggio 1813, si decise a porre l’assedio a Fort Meighs ma, appena venne a sapere che gli americani avevano ottenuto aiuti da Fort Defiance, ordinò la ritirata verso Fort Malden, sul lago Erie. Neppure dopo avere ottenuto rinforzi si decise ad agire, sebbene Tecumseh potesse contare su 2.000 guerrieri pronti a tutto.
Finalmente, nella seconda metà di luglio, Proctor ordinò di attaccare Fort Stephenson, difeso dai 160 uomini del maggiore Crochan, che disponeva di pezzi di artiglieria. Proprio un cannone caricato a mitraglia respinse con gravi perdite gli attaccanti, inducendo Proctor a rinunciare all’impresa, nonostante il parere contrario di Tecumseh.
In settembre, una poderosa controffensiva americana, condotta da Harrison, spinse molti guerrieri ad abbandonare la lotta. Il condottiero Shawnee si recò all’appuntamento con appena 500 uomini, ancora una volta al fianco del detestato Proctor.
Costui, dopo aver dato alle fiamme Fort Malden per impedirne la conquista, il 5 ottobre 1813 accettò lo scontro aperto, sebbene si trovasse in inferiorità numerica. Prima della battaglia nei pressi del fiume Thames, che ebbe un esito scontato fin dal principio, Tecumseh si tolse l’uniforme di generale e indossò una casacca di pelle di daino.
Presagendo la fine, disse ai suoi seguaci: «Fratelli, stiamo per iniziare un combattimento dal quale io non uscirò vivo, perché il mio corpo resterà sul campo». Nella foto sotto, una drammatica rappresentazione della morte di Tecumseh, colpito al fianco da un colpo di arma da fuoco.
Il colonnello Richard H. Johnson, agli ordini di Harrison, divise i suoi 1.000 cavalleggeri del Kentucky in due formazioni, che caricarono le posizioni di Proctor e Tecumseh simultaneamente, travolgendo subito le difese britanniche, mentre gli indiani resistettero più a lungo nell’area paludosa in cui erano appostati.
Tecumseh fu colpito a un fianco e non poté assistere al ripiegamento dei suoi guerrieri. Insieme a lui morirono 32 indiani e 18 inglesi, mentre gli americani contarono 27 perdite. Nessuno seppe dove il corpo del famoso condottiero, recuperato da alcuni amici, fosse stato sepolto.
Il suo sogno di unire i popoli indigeni americani in un’unica nazione era sfumato molti mesi prima, in un luogo chiamato Tippecanoe.
Nella foto sotto, rappresentazione della battaglia lungo il fiume Thames, dell’ottobre 1813, che decora il palazzo del Campidoglio di Washington. Fu l’ultima combattuta da Tecumseh, quella in cui il capo pellerossa perse la vita. Il merito di averlo ucciso fu attribuito per lungo tempo al colonnello Richard Johnson (lo si vede sulla destra dell’opera, a cavallo, mentre spara all’indiano già steso al suolo), ma in realtà furono in molti gli uomini presenti alla battaglia a gloriarsi di aver ucciso il fiero condottiero nativo.