In silenzio e senza lasciare tracce, il veleno ha fatto la Storia risolvendo intrighi e rivalità, dall’antichità fino ai giorni nostri, con una sola battuta d’arresto durante il Medioevo, quando i potenti avevano altri mezzi per eliminare avversari scomodi, come la guerra privata.
La pozione venefica, invece, è sempre stata l’arma di chi agisce nell’ombra, mosso da motivi inconfessabili, brandita da chi non vuole lasciare segno e garantirsi l’impunità.
La scelta dei vili, severamente condannata in tutte le civiltà, ma non per questo meno praticata.
Dai funghi letali per l’imperatore romano Claudio alla micidiale “cantarella” dei Borgia, la storia antica è tutta un susseguirsi di intrighi a base di veleno.
1. La “morte pulita”
Una legge romana risalente all’imperatore Antonino Pio enunciava chiaramente: «Plus est hominem extinguere veneno, quam occidere gladio» (è più grave uccidere un uomo con il veleno che con la spada).
Eppure, anche la storia di Roma è dipesa dal veleno almeno quanto dal gladio.
Pur con il beneficio del dubbio, perché ai tempi era difficile identificare con certezza alcune cause di morte e l’eventuale utilizzo di sostanze proibite, lo storico Cassio Dione insinua che, nel 14 d.C., sia stata la moglie Livia ad accelerare la dipartita del marito, l’imperatore Augusto.
Per farlo gli avrebbe offerto una manciata di fichi avvelenati, ottenendo in tal modo di anticipare l’ascesa al trono del figlio Tiberio. Anche quest’ultimo si sarebbe poi macchiato di veneficio, facendo uccidere Germanico, valente generale venerato dal popolo, che avrebbe potuto aspirare al trono.
Di veleno in veleno, ecco Agrippina Minore, donna forte e risoluta, figlia di Germanico e madre di Nerone, ma soprattutto moglie dell’imperatore Claudio, alla cui morte, avvenuta il 13 ottobre del 54, non parve completamente estranea.
Corse voce che avesse eliminato il consorte facendogli servire dei funghi velenosi, e ciò perché lui aveva cominciato a dubitare del figlio di lei, Nerone, l’erede designato al trono. In questa vicenda entra in scena Lucusta, una delle prime avvelenatrici seriali della Storia.
Originaria della Gallia, gestiva un emporio sul Palatino, nel quale le classi agiate trovavano elisir di ogni tipo, compresi quelli per sbarazzarsi di amanti, mariti e nemici politici.
Se ne sarebbe servita per prima proprio Agrippina e, quando Lucusta fu condannata a morte per il presunto omicidio di Claudio, a tirarla fuori dai guai fu proprio Nerone, che a sua volta, grazie ai letali servigi della donna, si sbarazzò dell’invadente fratellastro Britannico, avvelenato durante un banchetto.
Per portare a termine il suo compito, Lucusta dovette tentare ben due volte: la prima dose di veleno provocò alla vittima solo una spiacevole dissenteria.
Le sostanze tossiche a disposizione nell’antichità risultavano spesso instabili e talvolta inefficaci. Alcune erano di origine vegetale (come la cicuta fatta bere a Socrate, l’aconito, la belladonna, l’assenzio), altre di provenienza animale (cantaridina, sangue fermentato di toro, polveri ricavate da crostacei e salamandre).
Fu la scoperta dell’arsenico, isolato per la prima volta dal medico e alchimista Alberto Magno attorno al 1250, a rivoluzionare la pratica del veneficio, rendendola di colpo più efficace e sicura.
Il “principe dei veleni e il veleno dei principi”, come venne chiamato, si dimostrò una vera manna per gli orditori di congiure, assistiti finalmente da un’arma letale che non lasciava la minima traccia (almeno fino alla metà dell’Ottocento, quando venne introdotto il test di Marsh, in grado di rilevarne i residui).
Se somministrato a piccole dosi, l’arsenico induceva nella vittima un progressivo stato di debilitazione che l’accompagnava alla morte, come fosse la naturale conseguenza di una malattia incurabile.
All’alba del Quattrocento, quando già si faceva strada lo “Stato di diritto” e non si poteva più dar libero sfogo alle guerre private di stampo medievale, la pratica del veneficio divenne arte. Ciò accadde nelle corti italiane, veri templi dell’intrigo politico. Dal Bel Paese prese il nome uno degli artifici più subdoli per eliminare un rivale: la “camicia italiana”.
Si trattava di strofinare con del sapone all’arsenico un indumento che stesse a stretto contatto con la pelle della vittima, per esempio una camicia. Poiché a quei tempi non ci si cambiava d’abito per giorni o settimane, il principio attivo aveva modo di agire a lungo indisturbato, portando alla morte.
Nell'immagine sotto, il suicidio di Seneca in un quadro di Manuel Domínguez Sánchez (1871). Dopo essersi tagliato le vene, per accelerare la morte il filosofo bevve una pozione a base di cicuta, come Socrate.
2. Ne ammazza più il veleno che la spada
Quasi ogni famiglia di alto lignaggio dell’Italia rinascimentale usava disinvoltamente l’omicidio, e in particolare il veleno, per sgomberare il campo dai nemici.
Il fatto che il nome dei Borgia sia stato eletto a simbolo di crimine, intrigo e nefandezza risponde più a un cliché costruito dai loro detrattori che a verità storica.
Si racconta che Cesare Borgia portasse sempre al dito un vistoso anello contenente “cantarella”, un derivato dell’arsenico che aveva il merito di uccidere senza lasciare traccia.
Viene invece escluso dagli storici il contrappasso di cui sarebbe stato vittima suo padre, papa Alessandro VI, il quale, dopo tanto avvelenare, sarebbe morto a sua volta per una pozione: oggi si ritiene che a ucciderlo sia stata semplicemente la malaria.
Ne uscirebbe pulita anche la celeberrima figlia Lucrezia, la cui leggenda nera sarebbe stata costruita sulle maldicenze sparse dal primo marito, Giovanni Sforza, costretto dalla perfida dinastia ad abbandonare la fascinosa consorte.
Non che prima e dopo il regno della sulfurea famiglia di origine spagnola il soglio di Pietro fosse stato esente da morti sospette: il pontificato di Benedetto XI, per esempio, fu improvvisamente interrotto dopo soli otto mesi, nel luglio del 1304, a causa (si disse) di un’indigestione di fichi che aveva portato il pontefice alla tomba.
Altre voci, però, chiamarono in causa le monache di Santa Petronilla a Roma, che sapevano bene come cospargere i fichi con l’“acquetta di Perugia”, una sostanza mortale ottenuta triturando una carcassa secca di maiale impregnata d’arsenico.
Qualche ombra si allungò anche sulla fine di Clemente XIV, il papa che nel 1773 sciolse la Compagnia di Gesù: morto per scorbuto, la rapida decomposizione della salma generò il sospetto che fosse stato invece avvelenato, per vendetta, dai Gesuiti.
La Curia romana è da sempre un nido di serpi: molti altri papi sono morti in circostanze mai chiarite e persino sulla fine recente di Giovanni Paolo I grava il sospetto di un avvelenamento.
Nell'immagine sotto, l’avvelenamento di Bona Sforza d’Aragona, regina di Polonia e duchessa di Bari, per mano del segretario Lorenzo Pappacoda.
3. Avvelenamenti a macchia d’olio
Nemmeno i Visconti, signori di Milano, si fecero mancare la loro scia di veleno familiare.
Il dispotico Luchino morì, nel 1349, avvelenato dalla splendida e gaudente Isabella Fieschi.
Dopo aver trascorso una notte brava, costei preferì sbarazzarsi del marito geloso prima di essere a sua volta eliminata. Alla morte di Luchino rientrarono in città i tre nipoti che il condottiero aveva condannato all’esilio: Matteo, Galeazzo e Bernabò, e nel 1354 ereditarono i domini dello zio.
Soltanto Bernabò e Galeazzo ebbero però il tempo di amministrarli, perché Matteo, al ritorno da una battuta di caccia, accusò fortissimi dolori di stomaco che lo portarono a una morte repentina: un probabile avvelenamento, del quale la madre, Valentina Doria, si disse convinta al punto da accusare apertamente gli altri figli.
Le pozioni mortali erano così diffuse che ogni principe ritenne indispensabile introdurre al suo desco un assaggiatore che testasse le pietanze in anteprima. Ma anche così, ci fu chi seppe aggirare l’ostacolo. Re Ladislao I di Napoli non portava alla bocca nulla che non fosse stato già provato dal suo assaggiatore.
Nulla, tranne l’organo sessuale delle sue amanti, passione che, secondo un cronista del tempo, lo portò alla tomba: cospargendo con una pomata al veleno i genitali di una giovane di Perugia, con la quale il sovrano smaniava di giacere, i suoi nemici riuscirono a provocarne l’intossicazione. Fu così che, al suo rientro a Napoli, nel 1414, Ladislao morì all’età di 38 anni.
Nell'immagine sotto, Eleonora di Castiglia sugge il veleno dal braccio del marito, Edoardo I d’Inghilterra, ferito da un pugnale avvelenato.
4. Smascherati dalla scienza
Nel truce mondo degli intrighi rinascimentali non potevano mancare i Medici.
Quando, nel 1587, il granduca Francesco I di Toscana e la sua seconda moglie, la nobildonna veneziana Bianca Cappello, vennero trovati senza vita nella villa di Poggio a Caiano, alcuni sostennero che fossero stati avvelenati.
L’indiziato numero uno era il fratello minore di Francesco, Ferdinando, cardinale ma anche aspirante alla corona, il quale infatti gettò la porpora poche ore dopo la fine della coppia.
Se il Rinascimento aveva visto il trionfo di chi usava le sostanze tossiche per sbarazzarsi di rivali e persone scomode, sempre al riparo dagli strali della giustizia per mancanza di prove, il Seicento segnò la fine dell’impunità dei fanatici del veneficio.
Ad armare i tribunali ci pensarono le scoperte del fisico irlandese Robert Boyle (1627-1691), fondatore dell’analisi chimica e pioniere dapprima della tossicologia analitica, capace di riconoscere l’agente intossicante in qualsiasi materiale, poi di quella forense.
Il veleno perse così una delle sue prerogative più apprezzate, quella di non lasciare tracce, e divenne un’arma molto più pericolosa da utilizzare. Di conseguenza, nei secoli seguenti i casi di avvelenamento a fini politici si fecero sempre più rari, ma con notevoli eccezioni.
La nobile francese Marie-Madeleine d’Aubray, dopo aver vissuto una giovinezza dissoluta, conobbe un italiano da cui apprese l’arte dei veleni. Insieme, i due propinarono l’arsenico ad alcuni familiari di Marie, in dosi piccole ma costanti.
Morirono così il padre e due fratelli della sciagurata donna, mentre una sorella, una cognata, una nipote e il marito riuscirono a scampare per miracolo alle sue pozioni. Smascherata, dopo essere fuggita in Inghilterra l’avvelenatrice fu infine processata e condannata al rogo, nella sua Parigi, nel 1676.
Nella foto sotto, Ferdinando I de’ Medici succedette al fratello Francesco, morto avvelenato (forse da lui).
5. Un repertorio micidiale
Le sostanze venefiche impiegate per dare la morte erano moltissime. Ecco quelle considerate più affidabili e letali.
- ACONITINA
Principio attivo dell’aconito, pianta ornamentale coltivata anche nei giardini, è uno dei veleni più potenti che si conoscano.
La dose letale per l’uomo è di 5 mg per kg di massa corporea: la morte avviene in poche ore dopo crampi violenti e perdita completa della coscienza.
Non si conoscono antidoti. L’aconitina si può ridurre facilmente in una polvere di color bianco-giallo dal sapore pungente, più facile da sciogliere nell’alcol che nell’acqua.
- ARSENICO
L’assenza di odore e sapore ne ha fatto il veleno del delitto perfetto. La morte arriva dopo una lunga sofferenza, visto che la sostanza “brucia” letteralmente l’intestino.
Si trova in forma minerale e alcuni suoi composti sono noti all’uomo fin dall’antichità. Fu isolato già nel 1250 e poi da da J. Schroeder nel 1640.
La sostanza comunemente usata come veleno è l’arsenico bianco (triossido arsenioso), chiamata anche “polvere degli eredi”, molto ben solubile in acqua.
- BELLADONNA
Pianta che cresce sui muri e fiorisce nei mesi estivi. Tutte le sue parti sono velenose, ma in particolare le bacche dal gusto dolciastro.
Agisce specialmente sul cervello e i sintomi dell’avvelenamento insorgono in tempi molto rapidi: la morte avviene per paralisi, generalmente dopo 24-36 ore dall’ingestione.
- CIANURO
Sale derivato dall’acido cianidrico, questo veleno blocca il trasporto di ossigeno alle cellule, inducendo la morte per soffocamento.
Provoca una perdita di coscienza istantanea, mentre il decesso può sopravvenire rapidamente per arresto cardiaco.
Nella maggior parte dei casi, la vittima di un avvelenamento da cianuro emana un odore caratteristico di mandorle amare.
- CICUTA
Pianta perenne dalle foglie molto grandi e dai piccoli fiori bianchi, era uno dei veleni più diffusi dell’antichità.
Se ne servirono per uccidersi Socrate (obbligato dal governo della sua città, Atene) e Annibale.
Il principio tossico è la cicutina, un liquido oleoso, giallastro, di odore acuto e sgradevole, poco solubile nell’acqua, molto nell’alcol. Il veleno è paralizzante e la morte avviene per asfissia a circa 3-6 ore dall’assunzione.