Definire in maniera univoca la bellezza e le espressioni attraverso le quali si manifesta non è affatto facile.
Anzi, secondo alcuni è addirittura impossibile, visto che ogni epoca e ogni cultura hanno interpretato e coniugato il concetto in maniera diversa, rendendo così impossibile estrapolare dei parametri universali su cui basare il giudizio.
Ciò che veniva considerato un capolavoro artistico cent’anni fa, oggi può apparire come un semplice prodotto del clima culturale di un’epoca e, in quanto tale, liquidato al pari di una semplice curiosità o di una testimonianza del gusto di allora.
D’altro canto, è innegabile che esistano opere d’arte anche millenarie che ancora oggi continuano a colpire e affascinare con una forza irresistibile chi le contempla: ammirandole, si pensa che esista davvero un ideale estetico universale.
Allo stesso modo, appare evidente che anche il gusto personale è determinante quando si tratta di esprimere un giudizio estetico. Considerando tutto ciò, ancora oggi non è affatto facile rispondere a semplici domande, come: che cos’è la bellezza? E qual è il suo rapporto con l’arte?
Tutti noi siamo convinti di saper distinguere il “bello” dalla mediocrità e dalla bruttezza. La bellezza, però, si rivela sempre essere un concetto sfuggente e arduo da interpretare.
1. Imitazione della realtà
Può sembrare strano, ma lo “studio della bellezza” è relativamente recente: l’estetica, intesa letteralmente come lo “studio di ciò che è percepibile con i sensi”, è un termine coniato verso la metà del XVIII secolo dal filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (foto a sinistra).
Anche se non esplicitamente chiamata in causa come branca della filosofia, tale disciplina affonda le sue radici nella Grecia del V secolo a.C., la culla del pensiero occidentale.
In particolare, è Platone il primo a occuparsene criticamente, esprimendo un giudizio netto nella Repubblica. Secondo la sua visione, il processo artistico primario è quello dell’“imitazione”, la mimesi.
Possiamo parlare di buona arte, sottintende Platone, quando il livello di verosimiglianza dell’opera è tale da richiamare alla mente di chi la osserva l’oggetto reale. Che sia buona o cattiva, però, Platone non vede l’arte sotto una buona luce. Come potrebbe, del resto?
Se infatti (come insegnava ai suoi allievi) il mondo del reale altro non è che la copia di un modello ideale, la sua riproduzione artistica non potrà essere altro che una copia della copia.
Seguendo il ragionamento platonico, le opere d’arte sono addirittura dannose alla società, perché chi le ammira si allontana senza saperlo di un altro passo rispetto alla verità.
Questo vale per la pittura e la scultura, ma anche per la poesia, colpevole, a suo dire, di lasciar parlare le passioni, distraendo la mente dalla sua missione più alta, che è la ricerca della verità.
Discorso analogo per la musica, della quale si salverebbe solo la struttura matematica che la sostiene. Bello, secondo Platone, è solamente ciò che coincide con il bene: del resto, “bello e buono” (kalòs kai agathòs) era l’ideale dell’eroe greco.
Al pari del suo antico maestro, anche Aristotele considera l’arte come imitazione della realtà, ma in questo caso non si tratta di un difetto, anzi: l’artista, rielaborando il modello originale, compie un’azione creativa, quindi fornisce un contributo originale.
Platone e Aristotele concordano sul fatto che l’arte sia in grado di suscitare passioni, ma anche in questo caso il loro giudizio diverge: Aristotele, al contrario di Platone, ritiene che questa sua capacità di suscitare sentimenti, anche negativi, abbia un effetto catartico sugli spettatori.
Nella foto sotto, la "Nascita di Venere" di Sandro Botticelli.
2. La bellezza non è solo simmetria
Se l’arte è imitazione, in che modo essa può rappresentare la bellezza?
È ancora Aristotele (foto a sinistra) a spiegarcelo in maniera chiara, quando, nella sua Poetica, spiega che «per essere bella, una creatura, così come qualunque oggetto formato da più parti, deve presentare un certo ordine riguardo alla composizione di tali parti».
Ancora più esplicitamente, nella Metafisica spiega che «le principali forme della bellezza sono l’ordine, la simmetria e il limite».
Si tratta di un approccio matematico all’estetica, che cerca di dare risposta a una domanda fondamentale: la bellezza è oggettiva, cioè si basa sul rispetto di leggi precise che noi riconosciamo istintivamente, oppure dipende dai gusti e dalle inclinazioni personali del singolo individuo? Per Aristotele, evidentemente, la prima ipotesi è quella corretta.
Se davvero la bellezza risiede esclusivamente nel rispetto delle leggi dell’armonia e della matematica, però, basterebbe conoscere tali leggi e applicarle per ottenere un’opera d’arte; per esempio, dovremmo considerare una sedia costruita da un bravo artigiano più “bella” di un quadro di Botticelli o di Dalí (nella foto sotto, una sua opera del 1940).
Dobbiamo aspettare l’inizio del III secolo d.C. per imbatterci in una visione diversa dell’arte e della bellezza che essa è in grado di esprimere. A proporla è Plotino, il padre del neoplatonismo.
Superando le posizioni dei suoi illustri predecessori, egli afferma che non è la simmetria in sé a rendere bella una scultura, ma ciò che nella simmetria viene sottinteso, vale a dire la forma che l’artista ha saputo dare alla materia.
È l’artista, quindi (o meglio, la sua intelligenza), a creare l’arte, che pertanto non può più essere considerata una semplice imitazione della realtà. Si tratta di una posizione decisamente “moderna”, che troverà riscontri significativi nell’epoca medievale.
Prima di allora, però, la filosofia cristiana e quella medievale esprimeranno ben altre opinioni al riguardo. Uno degli effetti che la bellezza provoca in chi la contempla è una sorta di “commozione”: quando osserviamo (oppure, nel caso della musica, ascoltiamo) qualcosa che ci piace davvero, avvertiamo un trasporto emotivo.
Nella foto sotto, L'Annunciata di Palermo, un dipinto di Antonello da Messina, realizzato intorno al 1475 e conservato a palazzo Abatellis a Palermo.
Secondo sant’Agostino, tale sentimento è dovuto al fatto che in quel “bello” noi vediamo l’immagine del Bello divino. In effetti, il grande Padre della Chiesa associa spesso la parola “bellezza” al nome divino: nei Soliloqui, per esempio, definisce Dio «bontà e bellezza, nel quale, dal quale e per il quale è buono e bello tutto ciò che è buono e bello».
La bellezza (e la bontà, binomio classico inscindibile) è emanazione della bellezza divina, insomma; e poiché l’uomo è creato a immagine di Dio, riesce a percepire tale bellezza con la sua anima.
Anche Plotino aveva confermato il legame tra bene e bellezza, ma in quel caso la seconda era subordinata al primo; Agostino, invece, non ha dubbi nel far discendere la bellezza direttamente da Dio. Secondo la sua visione, l’uomo percepisce una cosa come “bella” quanto più quella cosa si avvicinerà al divino.
Una prospettiva dichiaratamente metafisica, ma che non esclude affatto l’intervento della razionalità. In effetti, Agostino fa notare che la bellezza si gusta con la vista e l’udito, mentre a nessuno verrebbe in mente di definire bello un odore o un sapore.
Gusto e olfatto sono considerati sensi inferiori, legati soprattutto alla soddisfazione dei bisogni primari del nutrimento; vedere e sentire, invece fanno da tramite tra i fenomeni visti e uditi e la mente, che ne comprende il significato superiore.
Agostino arriva a concepire un’idea platonica della bellezza: chi contempla la realtà attorno a sé, percepisce attraverso i sensi forme e armonie, ma la sua mente riesce a discernere la bellezza perfetta. Nella foto sotto, l'Uomo vitruviano disegnato da Leonardo da Vinci.
3. Colpire anima e intelletto
Più complicato il discorso sull’arte, dove la bellezza di un’opera dipende proprio dal fatto che si tratta di una finzione, e non di una verità oggettiva, dal momento che le sue forme e la sua struttura rispondono alla mano dell’artista che le produce, e non ai criteri naturali.
Un’opera d’arte, dice Agostino (foto a sinistra), è vera sotto certi aspetti, quelli appunto artistici, ma è falsa relativamente alla realtà esistente.
«Rispetto alla loro intima verità, giova solo il fatto che sono false rispetto al resto» scrive nei Soliloqui, per indicare il paradosso dell’arte, che per essere vera in sé deve essere falsa esteriormente.
Secondo questo ragionamento, possiamo affermare che bellezza e arte vivono un rapporto quantomeno problematico: la prima proviene da Dio ed è quindi necessariamente vera; la seconda, per sua stessa natura, è falsa.
La posizione di Agostino è quella che si definisce “intellettualistica”: ciò che conta, per lui, è la ricerca del vero universale, mentre l’ambiguità rappresentata dall’opera d’arte è inaccettabile.
Otto secoli più tardi, san Tommaso d’Aquino propone una visione della bellezza che cerca di armonizzare la visione aristotelica con i precetti cristiani ed elenca le sue tre doti: integrità e perfezione («le cose incomplete sono deformi»), proporzione e armonia e, infine, chiarezza e splendore.
Il fatto che l’uomo ami ciò che è integro, proporzionato e luminoso, secondo Tommaso (foto sotto), dimostra che esiste una corrispondenza tra ciò che è dentro di lui e quello che i suoi sensi avvertono.
Per il filosofo, tale corrispondenza è legata al fatto che la bellezza è verità (che l’uomo riconosce), e la verità è Dio; non per niente, egli indica proprio la bellezza come uno degli attributi di Gesù.
Tommaso non distingue tra natura e arte, ma espone le regole che rendono qualcosa “bello” per l’essere umano. Bello è «ciò che piace alla nostra vista», scrive nella sua Summa theologica.
L’analisi di Tommaso parte dall’assunto fondamentale che ciò che è bello (e buono) riconduce inevitabilmente a Dio, quindi a un’unica verità. Ne consegue che dovrebbe esistere un unico tipo di bellezza percepita, mentre sappiamo che ogni cultura ed epoca storica ha proposto propri modelli, tutti diversi tra loro.
Le caratteristiche della bellezza indicate da Tommaso, inoltre, oggi appaiono troppo limitanti: se dovessimo applicarle rigidamente al nostro giudizio, non potremmo in alcun modo considerare artistici movimenti come l’impressionismo, l’astrattismo, il dadaismo, né celebrare le opere di autori come Munch, Picasso, Dalí.
Occorre attendere il Quattrocento e il Rinascimento perché l’arte cominci ad affrancarsi dall’ambito religioso. Intanto, pittura, scultura e architettura si stavano già trasformando da arti “meccaniche” in arti “liberali”, e gli artisti, in generale, iniziavano a essere percepiti sotto una luce tutta diversa, già simile a quella di oggi; ormai si distinguevano nettamente dagli artigiani.
Per arrivare a una vera e propria teoria estetica bisogna attendere però il Settecento e l’empirismo del filosofo scozzese David Hume (Edimburgo, 7 maggio 1711 – 25 agosto 1776, nella foto sotto).
4. Una questione soggettiva
La bellezza è negli occhi di chi guarda... una frase che tutti abbiamo ascoltato (e, probabilmente, pronunciato) molte volte, magari senza renderci conto delle profonde implicazioni filosofiche che tale approccio sottende: la soggettività della percezione estetica, ovvero il fatto che ognuno di noi può percepire come bello ciò che bello, per altri, non è.
L'inglese David Hume (foto a sinistra) è stato il primo a concettualizzare quest’intuizione: «La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla» scrive infatti nelle Dissertazioni sulla tragedia.
Si tratta di una prospettiva del tutto nuova e, per certi versi, ardita: infatti, mentre la maggior parte dei pensatori antichi e di quelli medievali poneva la bellezza oggettivamente al di fuori dell’osservatore, Hume adesso sostiene fermamente che «la bellezza non è una qualità intrinseca alle cose, ma esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una bellezza diversa».
Di più: «Ogni individuo deve accettare la propria inclinazione estetica e non pretendere che gli altri si uniformino a essa».
Anche Immanuel Kant sposta l’obiettivo sul soggetto: la bellezza provoca, in chi la sperimenta, un giudizio contemplativo, senza che il piacere provato durante tale contemplazione derivi da un interesse per l’esistenza dell’oggetto, come invece capita per ciò che è buono o piacevole.
La bellezza non è quindi una caratteristica intrinseca di un oggetto o di un’opera, ma deriva dalla capacità di eccitare lo spirito di chi la ammira.
Il piacere che si prova di fronte a qualcosa di bello nasce dall’applicazione congiunta dell’immaginazione e dell’intelletto: due facoltà, appunto, soggettive, in grado di produrre uno stato d’animo che può essere comunicato e condiviso con altri individui.
Si viene così a definire un “senso comune estetico”, grazie al quale i giudizi individuali possono venire espressi compiutamente e assumere un valore sociale. Il genio artistico, secondo Kant, è quello di chi esprime “idee estetiche”, rappresentazioni dell’immaginazione capaci di far pensare chi le individua nelle opere d’arte.
Per quanto complesso e articolato, l’approccio kantiano appare decisamente più vicino a una concezione moderna dell’arte rispetto al tradizionale approccio “oggettivista” sostenuto dai maggiori pensatori antichi. Nella foto sotto, Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – 12 febbraio 1804)
Qual è lo scopo dell’arte? Che cosa può darci, e perché ne siamo attratti? Georg Wilhelm Hegel ha provato a rispondere a queste domande. Nel corso delle lezioni universitarie tenute a Heidelberg e Berlino tra il 1818 e il 1829, Hegel tratteggiò quella che, per molti, rappresenta la riflessione più completa e approfondita sull’argomento.
Per Hegel, tutto ciò che è ideale è superiore a ciò che appartiene al mondo fisico. Dunque, l’essenza della bellezza può trovarsi solo nell’arte, in quanto essa origina dallo spirito, e non dal mondo naturale.
Il fine ultimo dell’arte non è quello di imitare la realtà, né quello di suscitare sentimenti: si tratta, piuttosto, di rivelare la verità attraverso una rappresentazione “sensibile”, cioè percepibile attraverso i sensi.
L’opera d’arte riesce in tale intento perché è in grado di mediare tra spirito e materia, tra particolare e universale. In questo senso, l’arte rappresenta una tappa verso la liberazione dai limiti della natura e il ritorno alla piena comprensione di sé.
Poiché presuppone un’azione, quella del “fare” l’opera, l’arte lega lo spirito ai limiti della materia, ma in diverso grado, a seconda della forza di tale legame: così, architettura e scultura
sono le arti maggiormente condizionate dalla vicinanza alla materia, mentre la pittura, la musica e la poesia permettono allo spirito di liberarsi gradualmente dai vincoli del mondo fisico.
Una risposta completamente diversa alla domanda arriva infine da Benedetto Croce (1866-1952), per il quale l’arte non ha cittadinanza nel mondo fisico, non deve necessariamente procurare un piacere e non è nemmeno utile: si tratta di un momento istantaneo di conoscenza spirituale, un’intuizione che, secondo il pensatore abruzzese, è un fatto spirituale, inscindibile dell’intuizione stessa.
Una conclusione, questa, che da un lato può deludere chi è alla ricerca di risposte specifiche sui fini e i meccanismi alla base del nostro modo di percepire e intendere la bellezza, ma dall'altro, in qualche modo, ci autorizza ad ampliare il nostro campo di ricerca del bello in tutte le aree di espressione dell’essere umano, comprese le più moderne, come cinema, fumetto e la televisione. Nella foto sotto, Benedetto Croce, che vedeva nell’arte un’esperienza spirituale.
5. La bellezza umana, un concetto in evoluzione e la bellezza assoluta
Perché consideriamo “belle” alcune precise caratteristiche del corpo umano?
La risposta è, almeno nella maggior parte dei casi, poco “filosofica” e molto “biologica”, e ha a che fare con le leggi dell’evoluzione.
A venire considerati belli (e quindi desiderabili) sono i corpi che appaiono più sani e funzionali rispetto ai compiti per i quali sono stati selezionati.
Ecco, così, che, per quanto riguarda le donne, i fianchi torniti, il seno florido e, più in generale, le curve generose trasmettono l’idea di una costituzione adatta alla procreazione, così come un corpo armonico e muscoloso (spalle larghe, torace ampio, assenza di difetti e irregolarità somatiche) nell’uomo è indizio di forza e capacità fisiche, che saranno utili a offrire protezione e sostentamento alla prole.
Tuttavia, anche alcuni canoni di bellezza fisica sono soggetti a cambiamenti culturali. Soprattutto in epoche antiche, la grassezza era indizio certo di opulenza, pertanto rappresentava un motivo di forte attrazione per le donne alla ricerca di un marito in grado di offrire, a loro e ai figli, sicurezza economica.
La bellezza è oggettiva, il gusto è soggettivo! Esiste qualcosa come la bellezza assoluta? L’uomo si pone questa domanda da millenni, tuttavia mai come oggi trovare una risposta sembra difficile, considerata la varietà di mezzi, stili e correnti esistenti.
Secondo il filosofo Stefano Zecchi, oggi occorre distinguere tra bellezza (che possiede “una propria oggettività”) e percezione della bellezza, che prende il nome di “gusto”. È quest’ultimo che cambia, e che fa apprezzare maggiormente uno stile o un artista rispetto a un altro.
A cambiare nel tempo, dunque, sarebbe la rappresentazione della bellezza, non la bellezza in sé. Pertanto, Zecchi suggerisce di studiare la “fenomenologia della bellezza”, ossia le sue diverse manifestazioni nel corso delle varie epoche storiche. Nell’immagine sotto, il particolare di una scultura universalmente riconosciuta come esempio di bellezza assoluta: il David di Michelangelo.
Secondo il filosofo americano contemporaneo Arthur Coleman Danto (foto in alto a sinistra), quella che stiamo vivendo è un’età “post-storica” dell’arte, la quale avrebbe terminato il suo percorso evolutivo nel momento in cui opere come le celebri Brillo Box (nella foto sotto) di Andy Warhol (riproduzioni di scatole di detersivo) vennero considerate opere d’arte, esposte nelle gallerie di tutto il mondo e vendute a cifre astronomiche.
Se infatti l’arte è rappresentazione di un oggetto, nel momento in cui coincide con quest’ultimo, allora ha raggiunto il suo limite. Forse proprio per questo motivo, per molti, risulta difficile considerare la pop art e le correnti da essa derivate come genuine forme artistiche.
Al riguardo, è interessante riportare l’opinione di un critico contemporaneo al movimento, Harold Rosenberg, che evidenziò come «la mano dell’artista non ha alcuna parte nell’evoluzione dell’opera, né la personalità dell’artista è coinvolta nel processo creativo».